geronimo

giovedì 5 luglio 2018

AMILCAR CABRAL


Amilcar Lopes Cabral, principale artefice dell'indipendenza della Guinea-Bissau e delle isole di Capo Verde, è uno dei più importanti ideologi e politici dell'intero processo di decolonnizazione dell'Africa.
Nasce nel 1924 da genitori capoverdiani nella Guinea allora nota come Guinea portoghese; studia a Lisbona e ritorna in Guinea nel 1952. E' in questi anni che matura il suo dissenso nei confronti del regime portoghese. Dopo un periodo trascorso in Angola, nel 1956 torna in patria per fondare un partito clandestino, il PAIGC (Partito africano per l'indipendenza della Guinea e Capo Verde); successivamente crea il FLGCV (Fronte per la Liberazione della Guinea e di Capo Verde), aperto a tutti i partiti politici, che stabilisce come obiettivo l'immediata conquista dell'indipendenza e che dà vita a un conflitto con il regime portoghese.
Cabral muore nel 1973, assassinato da un membro del PAIGC a Conakry, nello stesso anno in cui la Guinea portoghese diventa indipendente come Guinea Bissau. È stato ucciso quando ormai stava per raggiungere l'obiettivo di tutta la vita: la fine del colonialismo portoghese, la conquista dell'indipendenza di Guinea e Capo Verde.

BERLINO 1884


 Berlino 1884-85: la spartizione dell’Africa Diretta conseguenza della crescita dell’economia internazionale e dello sviluppo industriale è l’emergere, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, di forti tensioni politiche tra le principali potenze europee. Lo sviluppo industriale, che dal primo avvio in Inghilterra si è allargato alle nazioni continentali, aumenta a dismisura la loro forza economica, facendo crescere la competizione per l’allargamento delle sfere di influenza, e trasforma i caratteri del colonialismo europeo. Da un lato, i territori colonizzati, che sino ad ora hanno assicurato la fornitura di materie prime e assorbito la popolazione in sovrannumero, diventano importanti anche come mercati; dall’altro, una crescente presenza militare e politica è considerata una condizione necessaria per la tutela degli investimenti. L’espansione coloniale si trasforma così in uno dei fattori decisivi delle relazioni internazionali, e parallelamente si intensificano le sue ripercussioni sulla politica interna dei paesi colonizzatori. Sull’esempio della Gran Bretagna, che dal 1877 ha rafforzato i legami politici e istituzionali con i suoi domini d’oltremare, tutte le potenze europee puntano a dare un assetto “imperiale” alle loro relazioni con i paesi extraeuropei nei quali hanno in precedenza conquistato possedimenti o acquisito un forte potere di influenza a scopi economici o strategicocommerciali. Tale tendenza comporta ovunque l’esaltazione dei sentimenti di potenza nazionale e di superiorità della razza bianca. Il carattere decisivo che distingue gli anni dal 1880 fino alla prima guerra mondiale dal periodo precedente non va dunque individuato semplicemente nell’inedita estensione geografica raggiunta dall’espansione coloniale, che pure giunge a interessare quasi la metà della superficie terrestre, ma piuttosto nelle nuove forme assunte dal dominio coloniale stesso. Da questo punto di vista, la caratteristica principale è la tendenza da parte delle potenze europee a pianificare la spartizione del mondo e ad accordarsi a tavolino sulla creazione di sfere di influenza, nel tentativo di risolvere sulla base di negoziati diplomatici gli immancabili conflitti derivanti dal sovrapporsi delle rispettive direttrici di espansione coloniale. La manifestazione più eclatante delle tendenze imperialistiche interessa l’Africa. Ancora intorno al 1840 la conoscenza del continente africano da parte degli europei è assai imprecisa, e del tutto ignota risulta la maggior parte delle zone interne. Negli anni tra il 1850 e il 1870 una serie di spedizioni geografiche – guidate da esploratori come David Livingstone ed Henry Stanley – hanno consentito di individuare le sorgenti del Nilo e il percorso dei fiumi Congo, Niger e Zambesi. Frizioni sulla conquista delle regioni africane cominciano a emergere nel 1877, quando il governo britannico della provincia del Capo, nell’Africa del Sud, decide di annettere lo Stato minerario e diamantifero del Transvaal, governato da coloni boeri (di origine olandese); il conflitto anglo-boero sancisce, nel 1881, la sconfitta inglese e il riconoscimento dell’autonomia del Transvaal, che diviene repubblica Sudafricana. Tensioni ancora più aspre si sviluppano nel 1882 tra Gran Bretagna e Francia in seguito all’occupazione dell’Egitto da parte di truppe del governo di Londra; la creazione di un protettorato militare britannico sul paese, giustificato dalla necessità di sedare la rivolta della popolazione egiziana contro le pesanti interferenze straniere, pone fine al controllo congiunto anglo-francese sulle finanze egiziane e soprattutto sul canale di Suez. La penetrazione francese in Algeria (conquistata nel 1830), in Tunisia e dal Senegal verso il Niger, l’ingresso di altre potenze nella competizione coloniale (il Belgio cerca di affermare il proprio dominio 2 sul bacino del Congo scontrandosi con interessi portoghesi e francesi sulla regione, mentre la Germania acquisisce il controllo del Togo e del Cameroun, e poi del Tanganica in una zona che ha già visto affermarsi il dominio britannico su Kenya e Uganda) moltiplica le aree di frizione. Proprio in relazione al problema del Congo, il Portogallo lancia la proposta di una conferenza internazionale per la spartizione di questa regione. La proposta viene immediatamente ripresa dalla Germania con il cancelliere Bismarck che aspira a proporre il governo tedesco come arbitro delle rivalità internazionali. La conferenza si apre a Berlino il 14 novembre 1884 e vede la presenza di 14 potenze: Germania, Austria-Ungheria, Belgio, Danimarca, Impero Ottomano, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Russia, Svezia. Si scontrano due posizioni: da un lato Bismarck intende garantire la libertà di navigazione e di commercio in tutta la zona, dall’altro il Portogallo, sostenuto dalla Francia, concepisce le colonie come un monopolio commerciale detenuto dalla metropoli. Alla fine, il 23 febbraio 1885, vengono approvati i punti seguenti: • Ogni potenza europea presente sulla costa può estendere il suo dominio verso l’interno fino a dove incontra un’altra « sfera d’influenza »( nozione che compare per la prima volta in un trattato internazionale). • Non vi può essere annessione se non per mezzo dell’occupazione effettiva del territorio. Viene quindi escluso il principio dell’hinterland che permette l’annessione automatica dell’interno sepmplicemente occupando la zona costiera. • Libertà di navigazione sui fiumi Niger e Congo e libertà di commercio nel bacino del Congo. • una risoluzione contro la schiavitù, che divenne illegale, ma restò ampiamente applicata in tutta l'Africa. • La Conferenza prende atto dell’esistenza dello Stato indipendente del Congo, potenza sovrana e territorio di proprietà personale del re Leopoldo II del Belgio (che diventerà colonia belga nel 1908). La Francia si vede riconosciuta l’autorità sulla riva destra del fiume Congo. La conferenza poneva in tal modo fine agli effetti destabilizzanti che l’espansione coloniale in Africa minacciava di avere sulle relazioni internazionali. Con due importanti conseguenze: da una parte lo spostamento delle tensioni e dei conflitti d’interessi europei fuori dell’Europa, con il parallelo tentativo di ristabilire gli equilibri di potenza attraverso una frenetica “corsa” dei diversi paesi alla colonizzazione militare ed economica del mondo; dall’altra la trasformazione del concetto stesso di colonialismo, che da sistema di egemonia prettamente commerciale passa a indicare il controllo politico diretto sulle colonie e lo sfruttamento massiccio delle loro risorse. Le regioni sottoposte al controllo europeo diventano colonie, oppure protettorati, con locali governi-fantoccio sostenuti dal paese dominante, la “madrepatria”. La ricerca di nuovi mercati non è più limitata solamente a imprese e compagnie, ma diventa una politica nazionale sostenuta fortemente dagli Stati centrali, finanziata con fondi pubblici e gestita da appositi apparati amministrativi. Ovunque, gli europei investono somme crescenti di denaro, ricavano quantità sempre maggiori di materie prime, impongono i loro modelli culturali e politico-istituzionali, guidando la politica economica e la vita interna dei paesi dominati. Gli obiettivi economico-produttivi dell’imperialismo europeo si confondono peraltro molto spesso con l’affermazione di una presunta “missione civilizzatrice” dei bianchi, che avrebbe dovuto portare la civiltà alle popolazioni indigene, ritenute ben lontane dal raggiungerla. Alcuni fattori sono stati determinanti nel consentire una occupazione territoriale dell'Africa che includesse anche le zone più interne: 3 • Malattie: verso la seconda metà dell'Ottocento la mortalità degli occidentali in Africa, legata a malattie, è scesa da un 25-50% al 5%, misura comunque considerevole, grazie alla scoperta delle proprietà antimalariche del chinino; altre conoscenze riguardo alla gestione delle malattie hanno consentito di porre un freno alla mortalità estremamente elevata dovuta alle malattie tropicali. • Armi: è in questi anni che si riscontra il maggior gap tecnologico tra i vari paesi africani e l'occidente; con la sostituzione del moschetto con i più efficaci fucili (a percussione e poi a retrocarica) ed il miglioramento delle tecnologie dell'artiglieria, l'Occidente aumenta il vantaggio tecnologico nei confronti del continente africano. • Esplorazioni: dal 1850 vari paesi occidentali finanziano numerose esplorazioni geografiche ed istituti geografici per acquisire informazioni sulle parti più interne dell'Africa che erano totalmente sconosciute. Le spedizioni geografiche (famosi esploratori furono Livingstone, Burton, Stanley e Brazzà) si avventurarono in zone sconosciute, scoprendo aree fertili e miti (i grandi laghi), e fornendo conoscenze geografiche, culturali ed economiche di varie regioni remote. • Giustificazione morale e intellettuale: un valido contributo alla corsa per la spartizione dell'Africa arrivò dal mondo intellettuale, che fornì, grazie al razzismo pseudoscientifico suffragato dai contemporanei studi di biologia, genetica, antropologia etc., il pretesto di fornire civilizzazione e conoscenze alle popolazioni africane, che in quanto meno evolute, non erano in grado di accedere autonomamente alla civiltà. Per concludere, l’Africa è l’area che fa maggiormente le spese di questa competizione tra le nuove potenze industriali europee. La Conferenza di Berlino (1884-1885), si svolse sotto l’ideologia che assegnava solo alle potenze europee e ai popoli bianchi d’oltreoceano il diritto alla sovranità: le altre aree erano considerate territori vuoti liberamente occupabili e spartibili. La divisione del continente africano fu fatta sulla base di una terribile violenza geografica e ideologica, seguendo cioè le coordinate geografiche o il corso dei fiumi e l’orografia, ma non tenendo minimamente conto delle caratteristiche storiche, culturali, antropologiche, economiche dei popoli che vi abitavano. Intere formazioni nazionali vennero così smembrate, mentre altre, da sempre rivali, vennero costrette a convivere, scatenando contrasti sanguinosi che stanno anche alla radice dei conflitti del nostro secolo. L’Africa diventò uno spazio “europeo”. 4 Lo scramble for Africa tra il 1885 ed il 1914

SMITH ADAM


SMITH ADAM
1723/1790 SCOZIA
Nel suo sistema teorico egli sottolinea i benefici supremi dell'ordine naturale e delle inclinazioni naturali dell'uomo, che sono spesso compresse e distorte dalle istituzioni umane. La condotta umana, secondo S., è determinata da sei impulsi: egoismo/">egoismo, simpatia, desiderio di libertà, senso della proprietà, abitudine al lavoro e tendenza al baratto. Grazie a questi impulsi, ogni uomo sa perfettamente riconoscere il proprio interesse, e quindi dovrebbe essere lasciato libero di soddisfarlo secondo le proprie inclinazioni. D'altra parte, se l'uomo persegue il proprio interesse personale, egli persegue anche, indirettamente, il bene di tutti. La Provvidenza infatti ha impresso alla società un ordine naturale, ha equilibrato armoniosamente gli impulsi che muovono l'uomo, ed ha temperato l'egoismo di quest'ultimo con altri sentimenti, soprattutto con la simpatia. Ciascun individuo perciò, perseguendo il proprio particolare interesse, è "spinto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era stato previsto dalle sue intenzioni", e cioè il bene comune; al contrario, afferma S., "non ho mai avuto occasione di constatare il bene fatto da coloro che affermano di operare per il benessere comune". Le conseguenze economico-politiche di questa filosofia etico-sociale sono assai rilevanti. Se si deve lasciare libero ogni membro della comunità di operare per massimizzare il suo profitto, perché in tal modo egli contribuirà al bene comune, allora l'intervento del governo nella società deve essere rigorosamente limitato. E infatti S. riconosce al governo solo tre compiti: assicurare la difesa da aggressioni straniere, istituire una rigorosa amministrazione della giustizia, provvedere alle opere pubbliche. Qualunque altro intervento del governo risulterà sicuramente dannoso. Ogni ingerenza statale nell'industria, nel commercio, nell'agricoltura altererà quell'ordine intrinseco che regna in questi grandi settori non meno che nell'attività economica individuale. Il pensiero sociale ed economico di S. costituiva così una rigorosa giustificazione teorica del laisser faire. S. criticò infatti aspramente tutti gli ostacoli concreti che si opponevano al trionfo dei suoi principî (privilegi, monopolî, regolamentazioni industriali, dazî eccessivi, ecc.). Per consenso quasi unanime S. è considerato il fondatore della scienza economica moderna (uno dei pochi studiosi che contestano tale affermazione è Schumpeter). È indubbio che l'elegante e organica presentazione dei vantaggi della divisione del lavoro e dello scambio fornita da S. rappresenti il punto di partenza della scuola economica "classica", che doveva avere in Ricardo uno dei suoi più illustri continuatori. La caratteristica più interessante dell'opera di S. è, al riguardo, la dimostrazione del come il mercato rappresenti lo strumento di coordinamento degli interessi individuali, realizzando quella cooperazione fra individui che è alla base di qualsiasi sistema economico. La dimostrazione dei vantaggi degli scambî internazionali, sia pure incompleta e imparziale, sarà, estesa e completata da Ricardo, fino a tutt'oggi, malgrado i suoi limiti, la più eloquente analisi a favore della libertà del commercio internazionale. Sia che si guardi a S. come precursore delle teorie "classiche" del valore-lavoro e antecedente fondamentale dell'opera di Ricardo, sia che si sottolinei invece l'estrema eleganza della sua presentazione della filosofia liberista, sembra indubbio che l'opera di S. costituisca il punto di partenza del pensiero economico moderno.

UNA TEORIA DELLA GIUSTIZIA


UNA TEORIA DELLA GIUSTIZZIA ( John Rawls)


I principi di giustizia sono ispirati a ideali di libertà ed uguaglianza opportunamente combinati tra loro all’interno di una visione democratica della società.


La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite, se sono ingiuste. Ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia, su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggior benefici goduti da altri.


Non si può permettere che i sacrifici imposti a pochi vengano controbilanciati da una maggiore quantità di vantaggi goduti da molti. Di conseguenza, in una società giusta sono date per scontate eguali libertà di cittadinanza; i diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica, né del calcolo degli interesso sociali.
Un’ingiustizia è tollerabile solo quando è necessaria per evitarne una ancora maggiore. Poiché la verità e la giustizia sono le virtù principali delle attività umane, esse non possono essere soggette a compromessi.


Diciamo che una società è bene-ordinata quando non soltanto è tesa a promuovere il benessere dei propri cittadini , ma è anche regolata in modo effettivo da una concezione pubblica della giustizia. Ciò significa che si tratta di una società in cui ognuno accetta e sa  che gli altri accettano i medesimi principi di giustizia, e le istituzioni fondamentali della società soddisfano e generalmente riconoscono , tali principi.
In mezzo a individui che hanno scopi e finalità diverse, una concezione condivisa di giustizia stabilisce legami di convivenza civile.








Le società esistenti sono raramente bene-ordinate perché ciò che è giusto o ingiusto è generalmente in discussione. Gli esseri umani sono in disaccordo rispetto a quali principi devono definire i termini fondamentali della loro società. Nonostante questo disaccordo, è ancora possibile dire che ognuno di essi possiede una concezione di giustizia. Ciò significa che essi sono pronti a riconoscere e ad affermare la necessità di uno specifico insieme di principi che assegnino diritti e doveri fondamentali, e determinano quella che essi considerano la corretta distribuzione dei benefici e degli oneri della cooperazione sociale.


Coloro che sostengono differenti concezioni della giustizia possono ancora essere  d’accordo sul fatto che le istituzioni sono giuste quando non viene fatta alcuna distinzione arbitraria tra le persone nell’assegnazione dei diritti e doveri fondamentali, e quando le norme  determinano un appropriato equilibrio tra pretese contrastanti riguardo ai vantaggi della vita sociale.


In mancanza di un certo grado di accordo su ciò che è giusto o ingiusto, risulta più difficile per gli individui coordinare efficacemente i propri piani in modo da assicurarsi il mantenimento di accordi reciprocamente vantaggiosi.
Sfiducia e risentimento corrodono i legami della convivenza civile; sospetto e ostilità spingono gli uomini a agire in modi che altrimenti essi eviterebbero. Ecco perché è importante stipulare un contratto e soprattutto trovare un’accordo su cosa è giusto o ingiusto.


Molti e diversi generi di cose sono considerati giusti o ingiusti; non soltanto leggi, istituzioni e sistemi sociali, ma anche particolari azioni di diversi tipi, tra cui decisioni, giudizi e imputazioni delle persone, e le persone stesse. Ma l’oggetto principale della giustizia è la struttura di base della società, o più esattamente il modo in cui le maggiore istituzioni sociali distribuiscono i doveri e i  diritti fondamentali e determinano la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale. Per istituzioni maggiori  si intende la costituzione politica e i principali assetti economici e sociali. Così la tutela giuridica della libertà di pensiero e di coscienza, il mercato concorrenziale, la proprietà privata dei mezzi di produzione e la famiglia, sono tutti esempi di istituzioni sociali maggiori.
Le istituzioni maggiori definiscono i diritti e doveri degli esseri umani e influenzano le loro prospettive di vita, ciò che essi possono attendersi e le loro speranze di riuscita.



Un concetto di giustizia viene definito dal ruolo che i suoi principi hanno nell’assegnazione di diritti e doveri e nel definire l’appropriata ripartizione dei benefici sociali. Una concezione della giustizia è un’interpretazione di questo ruolo.
La giustizia come equità parte da una vera società di persone che possono compiere insieme delle scelte atte ad affermare una democrazia concreta. Come formare un’idea di giustizia? Eliminando sacche di povertà e dando ai cittadini diritti e doveri nei quali credere. Una domanda sorge spontanea: E’ giustizia che una persona guadagni 5000 euro al mese, e molte altre anche di più, ed un’altra 400 al mese?
A questa domanda tanti rispondono che il guadagno deve essere considerato a seconda delle capacità professionali degli individui, altrimenti cresce una società piatta e senza stimoli o addirittura una società di stampo comunista. Nulla di più errato nell’affermare ciò. Una comunità ha bisogno del contributo di tutti; chi stabilisce che il ruolo del medico o dello scienziato, dell’ingegnere, dell’architetto, del grande capitano d’industria, di un politico, sia più importante dell’operaio, del contadino, dell’artigiano, del poliziotto, dell’impiegato, del pensionato ?
Stabiliamo pure diversità di stipendi, ma questi non devono superare una quota eccessiva fra il minimo ed il massimo.
Una società giusta opera per la propria comunità a 360° e non deve lasciare un proprio membro in difficoltà mentre altri sperperano i loro lauti guadagni. In una società giusta tutti i cittadini devono essere complementari come in un pasol nel quale tutti i pezzetti devono essere messi ad incastro altrimenti non si completerà mai.
Dalle diseguaglianze nascono i conflitti; dal conflitto nasce l’odio; dall’odio nasce la violenza; dalla violenza inizia la distruzione della società.
Da una società distrutta chi può dire che nascerà qualcosa di buono?




La corrente di pensiero utilitaristica risulta essere rigida nel difendere la libertà individuale e quella di pensiero, sostenendo che il bene della società è costituito dai vantaggi goduti dai singoli. Ma la legittima libertà del singolo non può inficiare la libertà dell’intera società.
L’idea principale è che una società è correttamente ordinata, e quindi giusta, quando le sue istituzioni maggiori sono in grado di raggiungere il saldo più alto di utilità possibile, ottenuto sommando quella di tutti gli individui appartenenti ad essa.
Quello che però deve essere valutato è la statistica nella quale viene indicato che ai cittadini  tocca di mangiare un pollo a testa, poi in realtà si scopre che ci sono cittadini che mangiano due polli ed altri nemmeno uno.


I due concetti principali dell’etica sono quelli di giusto e di bene , credo che il concetto di persona moralmente degna sia derivato da essi. La struttura di una teoria etica è perciò determinata in larga misura  nel modo in cui definisce e mette in relazione queste due nozioni fondamentali. Il modo più semplice per farlo è che il bene venga definito indipendentemente dal giusto, e il giusto sia successivamente definito come ciò che massimizza il bene.
Più precisamente, sono giusti quegli atti e istituzioni che in un insieme di alternative disponibili ottengono il maggior bene, o che almeno ne ottengono tanto quanto qualunque altro atto o istituzione che sia dato come possibilità reale.



La convinzione del senso comune è che distinguiamo in linea di principio tra le pretese di libertà  e di giustizia da una parte, e la desiderabilità di aumentare il benessere sociale aggregato dall’altra; diamo una certa priorità, anche se non assoluta, alle prime.
Di conseguenza in una società giusta, le libertà fondamentali sono date per scontate e i diritti assicurati dalla giustizia non sono soggetti né alla contrattazione politica né al calcolo degli interessi sociali.


Gli utilitaristi sono stati rigidi difensori della libertà individuale e della libertà di pensiero, e hanno sostenuto che il bene della società è costituito dai vantaggi goduti dai singoli.
 Ma la libertà individuale non deve mai contrastare con la libertà degli altri, mentre la libertà di pensiero non la si può mai reprimere.


Nella giustizia come equità il concetto di giusto è prioritario rispetto a quello di bene. Un sistema sociale giusto definisce l’ambito all’interno del quale gli individui devono sviluppare i propri scopi, fornisce una struttura di diritti e di opportunità, e i mezzi di soddisfacimento il cui uso e rispetto garantiscono un equo perseguimento di questi fini.











REFERENDUM SUL SALARIO:

Le regole in una società chi le deve scrivere? Le regole si dividono in gruppi e si applicano uniformemente alla regola della giustizia. Esiste un gruppo di regole  che si applica alla questione del  giusto SALARIO , un altro a quella dell’imposizione fiscale, un altro ancora alla pena, e così via.
Per esempio, per ottenere  la nozione di giusto salario, dobbiamo in qualche modo valutare vari criteri concorrenti, quali l’abilità, la formazione professionale, lo sforzo, la responsabilità, i rischi del lavoro, oltre a tenere in debito conto il bisogno.
Probabilmente nessuno deciderebbe sulla base di uno solo di questi criteri, ed occorre quindi delineare un compromesso tra loro.
Tuttavia questa valutazione è influenzata dalle esigenze  di differenti interessi sociali e delle relative posizioni di potere e influenza. Persone con interessi divergenti tendono a privilegiare i criteri che favoriscono i propri scopi. Quelli più dotati di abilità e cultura sono pronti ad accentuare le pretese basate sull’abilità e la formazione professionale, mentre coloro che sono privi di questi vantaggi portano avanti pretese sul bisogno.

Quale deve essere il giusto salario? Questo deve uscire fra un minimo ed un massimo accettabili.
Certamente si parte dal salario minimo, cioè quello che ci vuole per poter vivere dignitosamente. A mio parere questo salario minimo dovrebbe coincidere nella forbice fra i 1000 e i 1500 euro mensili.
Il salario massimo dovrebbe uscire nella forbice fra i 3000 e i 5000 euro mensili.
Ecco, questa potrebbe essere una base di partenza per un contratto sociale in una comunità di cittadini.
Voi cosa ne pensate?



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lunedì 12 marzo 2018

L'idea della Giustizia 9


Tra il 1958 e il 1961 la Cina è stata teatro di una terribile carestia con un bilancio di 30 milioni di morti. Le immediate conseguenze di una carestia gravano soltanto sul popolo e non toccano la classe dirigente.
Nella carestia cinese il fallimento del così detto “ Grande balzo in avanti” che prevedeva una grande espansione della collettivizzazione, fu tenuto sotto il più stretto riserbo. Naturalmente la mancanza di un sistema informativo libero finì addirittura di depistare anche il governo  perché non disponeva di adeguate informazioni sull’entità dell’insuccesso del piano.
Nel 1962, in una assemblea Mao pronunciò le seguenti parole:
“Senza democrazia voi non potete capire cosa sta succedendo al di sotto di voi, la situazione non vi è chiara; voi non siete in grado di raccogliere sufficienti opinioni da tutte le parti; non ci può essere comunicazione fra il vertice e la base; gli organi a livello superiore dipenderanno per le loro decisioni da una documentazione unilaterale e scorretta, così vi sarà difficile evitare di cadere nel soggettivismo; sarà impossibile raggiungere unità di comprensione e unità di azione e sarà impossibile raggiungere un reale centralismo”.
Un elogio alla democrazia abbastanza modesto ma lo stesso Mao si era accorto che senza informazioni certe e verificabili non si potevano avere notizie esatte delle reali condizioni versate dal popolo.
Ecco un altro esempio di importanza, per la democrazia, di media indipendenti e liberi di accertare le verità.

L'idea della Giustizia 13


L’idea della Giustizia:

Nella sua ampia e acuta ricognizione dei vari approcci all’idea di giustizia, Amartya Sen (premio nobel per l’Economia) muove una critica al filone di pensiero illuminista che pone al centro della riflessione politica un “contratto sociale” e la cui massima ambizione è definire il modo e i contenuti di accordi perfettamente giusti, anziché chiarire come le diverse pratiche di giustizia debbano essere confrontare e valutate. A questa prospettiva, Sen contrappone la propria idea di giustizia, che prende le mosse dall’altro filone della tradizione illuminista: si tratta non di definire una volta per tutte, anche solo in astratto, che cosa debba essere considerato “giusto”, ma di scegliere una via comparativa tra valutazioni alternative e argomentazioni concorrenti.
Solo aprendoci a tale pluralità di voci, infatti, potremo guardare su scala globale alle ingiustizie che possono venire eliminate o ridotte, senza ricadere in gretti localismi o in sterili chiusure mentali.





L'idea della Giustizia 8


Un giornale dell’India , (nel 1943 sotto il protettorato inglese) “ The Statesman” in un editoriale dell’epoca, circa il comportamento tenuto dal segretario di Stato per l’india , uomo curiosamente disinformato, scriveva:
“ Può darsi che le telecomunicazioni telegrafiche gli abbiano fatto torto, ma giovedì ha riferito al parlamento che, a quanto gli consta, le vittime in Bengala (persone morte probabilmente per la fame) sono circa mille la settimana, anche se potrebbero essere di più. Tutti i dati accessibili al pubblico indicano cifre molto più alte, e lui, considerata la carica che ricopre, dovrebbe avere tutti i mezzi per rendersene conto….”.
Due giorni più tardi il governatore del Bengala (sir Thomas Rutherford) scrisse al segretario di stato per l’India:
“ La  vostra dichiarazione alla Camera sul numero di morti, verosimilmente basata sulla mia comunicazione al viceré, è stata duramente criticata da alcuni giornali…. Ora che gli effetti della mancanza di cibo si stanno facendo sentire in tutta la loro virulenza fisserei il numero delle vittime a non meno di duemila la settimana”.
Ma come stavano realmente le cose? Mille o duemila morti , o forse tutt’altra cifra?
La commissione di inchiesta sulla carestia, che ne dicembre 1945 comunicò il suo rapporto su disastro, concluse che tra il luglio e il dicembre 1943 i decessi erano stati 1.304.303, contro la media di 626.048 registrata per lo stesso periodo del quinquennio precedente. Concluse quindi che il numero di decessi dovuti alla carestia aveva superato le 678.000 unità. Ogni settimana , dunque, non erano morte mille o duemila persone, ma più di 26.000.
Ecco come una inchiesta fatta da  stampa libera, permetta alla pubblica opinione di saper la verità e valutare il comportamento dei politici.
In un sistema democratico il controllo critico esercitato dall’opinione pubblica e dal Parlamento non avrebbe permesso alle autorità  ( inclusi il Governatore del Bengala e il viceré) di sottovalutare in quel modo una realtà tanto drammatica.

L'idea della Giustizia 7


La falsa opinione circa il destino ineluttabile non democratico del medio Oriente è un modo di pensare confuso e gravemente forviante, oltre che dannoso, alla politica mondiale e alla giustizia globale del nostro tempo. 


Una delle iniziative più importanti per promuovere la riflessione pubblica, e la democrazia, nel mondo è quella di sostenere una stampa libera e indipendente, che spesso si segnala per la sua assenza. Nel mondo è necessario la presenza dei media liberi e vitali.
Poiché la presenza di media liberi e in buona salute è importante per svariate ragioni:
La prima, e forse la più elementare, è il contributo diretto che la libertà di parola in generale e la libertà di stampa in particolare danno alla qualità della nostra vita. Ci sono ottime ragioni per comunicare gli uni con gli altri e comprendere meglio il mondo in cui viviamo. Perché ci possa avvenire, la libertà di stampa è essenziale.
Quando mancano media liberi e la facoltà di comunicazione viene calpestata, la qualità della vita umana risulta immediatamente compromessa, anche quando il dispotico paese che impone tali limitazioni è molto ricco in termini di prodotto interno lordo.
La seconda è che la stampa svolge un importante ruolo informativo, divulgando conoscenza e favorendo una riflessione critica. La funzione informativa è basilare per tenere la gente informata su quanto accade nel mondo e nella nostra società. Il giornalismo di inchiesta può portare  alla luce fatti che altrimenti passerebbero inosservati.
In terzo luogo la libertà di stampa ha una funzione protettiva, poiché da voce alle persone svantaggiate o trascurate. Ciò può essere  di grande aiuto per la tutela dell’essere umano. Spesso chi governa un paese vive lontano dalle difficoltà della gente comune non rendendosi conto delle loro difficoltà (calamità naturali o povertà diffusa) . Ma se i media li espongono alla pubblica critica, i governanti avranno un prezzo da pagare in termini morali e politici.
In quarto luogo, perché sia possibile una formazione di valori avveduti e svincolati da impostazioni esterne, è necessario che comunicazioni e dibattito si svolgano in modo aperto. In tale processo la libertà di stampa è cruciale. I nuovi parametri e le nuove priorità ( trasformazione dei diritti della famiglia, o l’esigenza di parità fra sessi diversi, diritti civili) emergano attraverso la discussione pubblica, ed è sempre il dibattito pubblico a diffondere i nuovi standard nelle diverse ragioni.


La relazione fra il principio di maggioranza e la protezione dei diritti della minoranza, entrambi gli aspetti sono parte integrante della pratica democratica, dipende soprattutto dal concretizzarsi  di valori e priorità improntati alla tolleranza.
Se una maggioranza è pronta a difendere i diritti della minoranza, anche quelli di chi dissente o non si allinea, allora la libertà può essere garantita senza bisogno di porne limiti al principio di maggioranza.
Un sistema sano di “media”  può avere una parte cruciale nel favorire la riflessione pubblica in generale,  per la realizzazione della giustizia.
Non è difficile capire perché una stampa libera, attiva ed efficiente possa agevolare notevolmente il necessario scambio dialogico. I media sono importanti non solo per la democrazia, ma per la promozione della giustizia in generale. Una giustizia senza dibattito può rivelarsi un’idea insidiosa.


Non  di rado i vetusti e immutabili parametri culturali, che troppo spesso sono invocati per spiegare, o persino per giustificare, la carenza di dibattito pubblico in un determinato paese, chiariscono la situazione assai meno di quanto non faccia una più piena comprensione del modo in cui opera il moderno autoritarismo: censura, controllo della stampa, repressione del dissenso, messa al bando di partiti di opposizione o incarceramento dei dissidenti. Rimuovere tali ostacoli è uno dei maggiori contributi che l’idea democratica è in grado di dare per la promozione della giustizia.


L'idea della Giustizia 6


Nel Giappone del VII secolo d.C. il principe Shotoku emanò, la cosiddetta Costituzione dei diciassette articoli (604 d.C.) nella quale si affermava che : “ Le decisioni in merito a questioni importanti non dovrebbero essere lasciate a una sola persona, bensì discusse tra molti”.
Già in quell’epoca si era capito l’importanza della discussione fra tutti contro l’imposizione di pochi. Ecco perché oggi giorno diviene importante, per la democrazia, che le decisioni riguardanti il bene comune siano prese dal popolo dopo ampia discussione (attraverso referendum) e non lasciarle in mano solo ai nostri rappresentanti.

Nel XVI secolo Akbar, il grande imperatore Moghul, formulava le sue dichiarazioni sulla necessità della tolleranza religiosa e politica in India, e quando era impegnato a organizzare incontri tra esponenti di fedi diverse ( indù, musulmani, cristiani, parsi, janisti, ebrei e persino atei), in Europa l’inquisizione era ancora molto attiva. Nel  1600 a Roma, Giordano Bruno fu arso vivo per eresia, proprio mentre Akbar predicava la tolleranza e la necessità di dialogare oltre i confini delle religioni   e delle etnie.
Ecco perché la democrazia, o perlomeno alcune sue forme, non sono appannaggio dell’occidente ma venivano cercate nei vari paesi del mondo, salvo poi perderle per la sete di potere di pochi.
E’ dalla storia che ci viene un grande insegnamento di come ricercare la democrazia, la tolleranza e la nostra libertà.


L'idea della Giustizia 4


La promozione della giustizia e l’eliminazione dell’ingiustizia richiedono un impegno su più fronti: la scelta delle istituzioni, la rettifica dei comportamenti e le procedure per correggere gli assetti sociali in base a una  discussione pubblica sulle promesse fatte, sull’effettivo funzionamento delle istituzioni e sulle eventuali strategie di miglioramento.
Tagliare fuori la riflessione pubblica per affidarsi alle presunte virtù di un quadro istituzionale fondato sul mercato è sbagliato.


La libertà in generale e la libertà d’azione in particolare fanno parte dell’effettivo potere di cui una persona dispone, e sarebbe un errore ridurre le capacità, connesse con questi concetti di libertà, a una mera questione di vantaggio: essa è anche un fattore centrale per la comprensione dei nostri obblighi.


In un saggio dell’economista Richard Easterlin, questi asseriva che : “ Aumentare il reddito di tutti farà aumentare la felicità di tutti”. Questa rimane comunque una mezza verità.


Al centro delle nostre vite c’è un paradosso. La maggior parte delle persone vuole guadagnare di più e si affanna per riuscirvi. Eppure, se le società occidentali sono diventate più ricche, i loro membri non sono diventati più felici.
Ogni interrogativo in proposito può porsi solo allorché sia stata pienamente riconosciuta l’importanza delle felicità per la vita umana, con le sue notevoli ripercussioni sugli stili di vita e il conseguente riconoscimento del fatto che la realizzazione tra reddito e felicità è ben più complessa di quanto i teorici concentrati unicamente sul reddito abbiano in genere presupposto.
Una persona che vive in una comunità segnata dal proliferare di malattie e dalla scarsità di ausili medici può essere incline a ritenere “normali” certe affezioni a cui può invece ovviare la medicina. Come nel caso dei desideri e dei piaceri, che possono essere ridimensionati a seconda delle condizioni di vita, anche qui si pone una questione di adattamento alle circostanze sociali, con conseguenze piuttosto oscure.


L’uguaglianza come ideale morale.
La dottrina dell’egualitarismo economico per cui tutti desiderano possedere un’identica quantità in termini di salario e di patrimonio (cioè di soldi) potrebbe essere anche definita la dottrina secondo cui nella distribuzione del denaro non dovrebbe sussistere disuguaglianze.
Si potrebbe obbiettare che l’egualitarismo contrasta con le capacità individuali dell’uomo. Ma un ingegnare, un dottore , un architetto sono più importanti di un operaio, di un artigiano, di uno spazzino? Certamente l’approccio per cui si arriva ad imparare i vari mestieri è diverso, compreso anche l’impegno per arrivarci. Questo impegno può essere premiato con un salario maggiore per un impegno maggiore, ma si deve tenere conto che viviamo in una comunità, la quale ,per esistere, ha bisogno dell’apporto costante di tutti. Quindi può andare bene un salario diverso per le varie professioni, ma sicuramente deve essere concesso, da parte della comunità, un salario minimo sufficiente che permetta di vivere dignitosamente. Questi ultimi cittadini devono poter accedere allo stato sociale gratuitamente per compensare lo svantaggio del salario minimo.
Una comunità, in caso di grave crisi economica, deve saper rinunciare ai privilegi personali per occuparsi di chi rimane in difficoltà. Quindi devono essere ridiscussi i cosiddetti diritti acquisiti? A mio parere entro certi limiti si, perché è impensabile che ci siano persone che guadagnano un salario altissimo ed altre che a malapena sopravvivono.
La forbice fra salario minimo e salario massimo deve essere rivista perché tutti hanno diritto ad una vita dignitosa nella consapevolezza che nessun individuo può vivere da solo.



Sulla questione della democrazia si è creata molta confusione a causa della retorica in cui è stata immersa. Non si può pretendere di concepire la Democrazia come imposizione da parte dei paesi occidentali nei confronti dei paesi che avversano tale imposizione. La Democrazia deve essere ricercata non imposta.
Un noto politico inglese asseriva che : “ la democrazia è il governo per mezzo della discussione, ma funziona solo se si riesce a far smettere la gente di discutere”.
Ecco come vogliono imporre la Democrazia, senza sapere il vero significato della parola.



L'idea della Giustizia 3


Sulla questione della democrazia si è creata molta confusione a causa della retorica in cui è stata immersa. Non si può pretendere di concepire la Democrazia come imposizione da parte dei paesi occidentali nei confronti dei paesi che avversano tale imposizione. La Democrazia deve essere ricercata non imposta.
Un noto politico inglese asseriva che : “ la democrazia è il governo per mezzo della discussione, ma funziona solo se si riesce a far smettere la gente di discutere”.
Ecco come vogliono imporre la Democrazia, senza sapere il vero significato della parola.
Sulla questione della democrazia si è creata molta confusione a causa della retorica in cui è stata immersa. Non si può pretendere di concepire la Democrazia come imposizione da parte dei paesi occidentali nei confronti dei paesi che avversano tale imposizione. La Democrazia deve essere ricercata non imposta.
Un noto politico inglese asseriva che : “ la democrazia è il governo per mezzo della discussione, ma funziona solo se si riesce a far smettere la gente di discutere”.
Ecco come vogliono imporre la Democrazia, senza sapere il vero significato della parola.


C’è chi sostiene che alla base di un comportamento corretto vi sarebbe la fondamentale considerazione del tornaconto personale. Il desiderio di concepire la società come equo sistema di cooperazione, trova senz’altro riscontro. L’idea di cooperazione contiene l’idea del vantaggio, o del bene razionale di ciascun cooperante e l’idea di vantaggio razionale individua ciò che i soggetti impegnati nella cooperazione stanno cercando di promuovere dal punto di vista del proprio bene.

Nella società , devono essere messe da parte tutte le scelte rivolte all’interesse personale , secondo la teoria della scelta razionale, in quanto appare palese che le persone non possono che riconoscere di non poter conseguire ciò che desiderano senza il concorso degli altri; cosicché il comportamento collaborativo è eletto a norma di gruppo per il bene di tutti, con la scelta condivisa di termini che ogni partecipante può ragionevolmente accettare  purché tutti gli altri facciano lo stesso.

Non ci sono dubbi che, per comprendere le società e i loro successi e fallimenti, sia di notevole aiuto l’idea di una cooperazione sociale, e, per suo tramite, di una moralità sociale e di una vita politica, improntata al calcolo e basata, in ultima istanza, sul mutuo beneficio.

La giustizia come equità ci porta a pensare che prima di formare le istituzioni giuste si debbano formare persone giuste. Persone che facendo parte di una comunità, lavorino ed operino, non per se stesse, ma per l’intera comunità, attraverso una cooperazione di tutti i cittadini. Attraverso l’apporto di tutti, ognuno per le proprie capacità, si costituiranno Istituzioni giuste. Se  riusciremo a capire che nella  società non vi può essere spazio per” l’io” ma solamente per il “noi”, questo ci porterà a comprendere l’utilità della cooperazione fra tutti i cittadini. Gli uomini non sono fatti per stare da soli, ma per vivere in comunità. Tutti devono partecipare a scrivere le regole di comune convivenza , ed in questo modo , tutti le approveranno. Bisogna però partire dal basso  nella consapevolezza che eliminando tutte le povertà e dando dignità a tutta la comunità, ci porterà verso una giustizia più equa.


La comprensione degli obblighi legati a quello che oggi viene chiamato l’ambito dei diritti umani e civili, ma che per molto tempo è stato conosciuto sotto svariate denominazioni si è sempre distinta per una forte componente di riflessione sociale.
Cosa significano i diritti umani? Quale definizione dare alle libertà di tutti gli individui e dei relativi diritti di tutti gli esseri umani? Quali sono gli obblighi, per chi detiene il potere effettivo, di promuovere la libertà di ogni individuo?
La risposta a queste domande devono essere formulate dall’intera comunità, ma non come parere personale, ma come riflessione che coinvolga il bene collettivo.
La domanda da farsi è: Quale è il bene di un determinato gruppo di persone che pensano che alcune leggi siano discriminatorie nei loro confronti? Se queste leggi, se pur condivise da altri cittadini, non ledono minimamente i propri diritti ma solamente i propri principi si deve poter effettuare una riflessione collettiva e non personale che permetta di indicare che l’unica strada per una convivenza civile è modificare tali leggi anche se di principio non si è d’accordo.
Questo significa che solamente  attraverso il dialogo costante fra tutti i componenti della comunità, si possono risolvere civilmente tutti i problemi legati a l’idea personale che diamo alla Giustizia.




In una società dove si percepisce la volontà a dividere invece che ad unire, l’unica domanda da porci è: “ chi sono io per giudicare?” Se invece di un giudizio si comincia ad ammettere che l’unica risposta da dare è il dialogo, allora la  comunità percepirà la volontà di tutti i componenti alla risoluzione di qualsiasi problema. Il giudizio personale, se pur legittimo, deve essere inserito all’interno del giudizio della comunità. Dalla comunità intera, all’interno della quale vengono portati i vari giudizi, deve sorgere una riflessione  che porti a scelte condivise .



La libertà è preziosa per almeno due ragioni. Anzitutto perché ci offre maggiori opportunità per perseguire i nostri obbiettivi, ovvero ciò a cui diamo valore. Accresce , per esempio la nostra facoltà di scegliere lo stile di vita che desideriamo e di realizzare i fini che vogliamo promuovere.
Ma noi abbiamo la libertà? Come facciamo a sapere se la nostra libertà è reale o apparente?
 Una cosa però è certa, tutti noi dobbiamo partire con gli stessi mezzi ed avere le stesse opportunità e probabilità  di arrivare a destinazione. Solo così la nostra libertà non sarà effimera.

venerdì 23 febbraio 2018

Mahabharata


Esiste un antico poema indiano , Mahabharata, nel quale appare istruttivo il dialogo fra il guerriero Arjuna, l’eroe del poema,  e Krishna, suo amico e consigliere. Siamo alla vigilia della grande battaglia di Kurukshetra, località vicina a Delhi. La conversazione verte sui doveri degli esseri umani in generale e di Arjuna in particolare e vede i due personaggi sostenere concezioni radicalmente opposte.
Arjuna esprime le sue profonde perplessità sul fatto di prendere parte alla battaglia, non ha dubbi che si tratti di una guerra giusta ed è convinto che la sua fazione sia la più forte. A turbarlo è il fatto che in questa battaglia dovrà uccidere un gran numero di persone e che sarà una carneficina. Aggiunge inoltre che forse sarebbe meglio non combattere e dare all’avversario quello che lui richiede ( territorio proprio)
Krishna si oppone e la sua risposta si concentra sull’importanza di fare il proprio dovere, senza guardare alle conseguenze. Cioè combattere senza guardare gli esiti dello scontro. Questa sua posizione derivava dal volere difendere il regno dal nemico invasore……………..
Poema scritto nel VII- VI secolo a.C.

Il 16 luglio 1945 Julius Robert Oppenheimer , responsabile dell’equipe americana che durante la seconda guerra mondiale mise a punto la bomba atomica, quando constatò la forza spaventosa della prima esplosione nucleare realizzata dall’uomo citò le parole pronunciate da Krishna, nella Mahabharata, per giustificare il proprio impegno tecnico professionale a dotare di una bomba quella che era chiaramente la parte giusta in quei giorni. Oppenheimer, il fisico, segui il consiglio che Arjuna, il guerriero, aveva ricevuto da Krishna circa il dovere di servire la giusta causa con le armi. Più tardi sollevando dubbi sul proprio contributo alla creazione della bomba, lo scienziato avrebbe considerato a posteriori le circostanze: “ Quando sei alle prese con qualcosa di tecnicamente allettante, vai avanti e lo realizzi. Ti interroghi su ciò che hai fatto solo dopo che hai centrato il tuo obbiettivo tecnico”.


Nonostante il dovere di andare avanti Oppenheimer avrebbe dovuto riflettere anche sui timori di Arjuna , anziché lasciarsi affascinare solo dalle parole di Krishna. Come è pensabile che da un tale massacro possa venire qualcosa di buono? E perché dovrei limitarmi a fare il mio dovere di fisico, senza tenere conto di tutte le conseguenze inclusa la morte e la desolazione che le mie azioni causeranno?
Ecco perché quando si realizza una azione bisogna sempre pensare alle conseguenze prima che la predetta avvenga. Ma insieme allo scienziato era dovere del governo Americano riflettere su ciò che sarebbe potuto avvenire. Chi ha in mano il potere ha sempre degli obblighi verso i popoli della terra.


venerdì 9 febbraio 2018

L'idea di Giustizia 2


“A nessuno venderemo, a nessuno negheremo o ritarderemo il diritto e la giustizia              



6)
L’imperatore indiano Asòka (III secolo a. C.) autore di epigrafi dedicate alla condotta buona e giusta, incise su tavole di pietra e cippi disseminati all’interno ed all’esterno del paese, che parla appunto del rapporto fra i due concetti:
Asoka si esprime contro l’intolleranza e invita a comprendere che anche quando una scuola religiosa o politica si trova in conflitto con le altre, queste devono essere trattate con il dovuto onore, in ogni modo e in tutte le occasioni.
Tra le ragioni che porta a fondamento della sua esortazione c’è la considerazione, di notevole rilevanza epistemica , che le scuole degli altri sono sempre per una ragione o per l’altra, degne di rispetto. Ma Asòka va oltre, aggiungendo: “ Colui che tiene il bene della propria scuola, ma per cieco attaccamento a essa nutre disprezzo per le scuole altrui, con tale comportamento non fa in realtà che recare alla propria scuola il peggior danno possibile”.
In questo modo Asòka intende chiaramente indicare il fatto che l’intolleranza verso le convinzioni e le religioni altrui non favorisce la giustezza delle proprie idee politico religiose. Il comportamento che ne consegue può essere definito “ non buono” e “non intelligente”.
7)
Nella sua riflessione  sulla giustizia sociale Asòka non si ferma alla convinzione che migliorare il benessere e la libertà del popolo sia uno dei compiti importanti dello Stato e dei membri di una società; considera anche l’idea che lo sviluppo sociale si possa promuovere attraverso l’impegno dei cittadini a seguire una buona condotta, senza che diventi necessario obbligarli a farlo
Asòka (Imperatore Indiano del III secolo a.C.)
8)
Le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa uguaglianza delle opportunità; secondo, devono dare il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società.
9)
Le persone ragionevoli non sono mosse dal bene generale in quanto tale, ma desiderano (come fine in sé) un mondo sociale nel quale possano cooperare da individui liberi e uguali con altre persone, a condizioni accettabili per tutti; e vogliono fermamente che in questo modo ci sia reciprocità, e che ognuno ne benefici insieme agli altri.
Una persona è invece irragionevole (sotto lo stesso aspetto di base)  quando desidera impegnarsi in sistemi cooperativi ma non è disposta a onorare o anche solo a proporre (se non come indispensabile finzione pubblica) alcun principio o criterio generale che specifichi equi termini di cooperazione. Simili persone sono pronte a violare questi termini ogni volta che ne hanno la convenienza e che le circostanze glielo consentano.

 Alessandro Magno , quando invase l’India (325 a.C.) ,In un confronto dialettico con filosofi giainisti chiese perché si rifiutassero di dedicargli attenzione. La sua domanda ricevette una risposta d’intonazione democratica:
“ O re Alessandro, a ogni uomo può possedere tanta parte della faccia della terra quanta è questa su cui stiamo. Non sei che un uomo come noi, salvo che tu sei sempre indaffarato, ma per cose da cui non viene alcun bene e, lontano tante miglia dalla patria, rechi disturbo a te stesso e agli altri …. Presto sarai morto, e allora possiederai solo quel tanto di terra che basterà a seppellirti”.

L'idea della GIUSTIZIA


1)
Nulla è tanto acutamente percepito quanto l’ingiustizia.
2)                              
In una società l’idea di equità precede quella di giustizia e le facoltà morali delle persone, in riferimento alla loro capacità di provare il senso di giustizia e di formarsi un concetto del bene, rimangono relegate ai propri interessi personali.
Gli esseri umani non guardano che all’interesse personale  e non mostrano alcuna capacità di concepire le idee di equità e di giustizia, ne alcuna inclinazione verso di esse. Si sarà equi solo quando  smetteremo di anteporre l’interesse personale a quello di tutta la comunità nella quale viviamo.
3)
La libertà, tra l’altro concorre con altri fattori a determinare il vantaggio complessivo della persona, quindi va inclusa nei beni primari. L’eliminazione della povertà, misurata in termini della privazione dei beni primari, deve essere alla base di qualsiasi società civile. Ma l’eliminazione della povertà deve essere nei fatti non solo nei principi. Se riusciremo a non pensare solo a noi stessi e ci convincessimo che la società è formata da una comunità di esseri umani  che si riconoscono nei valori di civiltà, di giustizia e di Libertà, avremmo effettivamente contribuito a formare una società giusta nella quale ci si possa riconoscere a pieno titolo.
4)                                                                  
In una società civile si parla di identificare “istituzioni giuste”, dimenticandosi che prima bisogna formare “società giuste” che facciano assegnamento su istituzioni efficaci e si misurino con i comportamenti effettivi. D’altronde sappiamo quanto sia difficile presumere che in tutti i membri di una società germogli spontaneamente una condotta in tutto ragionevole. Quindi è attraverso il dialogo ed il confronto delle idee fra i membri di una società che si arriverà a concordare delle sintesi che potranno concorrere alla formazione di una società giusta.


COSA E' LA DEMOCRAZIA


Cosa è la Democrazia?

Democrazia è una forma di governo in cui la sovranità risiede nel popolo che, o esercita direttamente i suoi poteri (Democrazia Diretta), o per mezzo delle persone e degli organi che elegge per rappresentarlo, ovvero un corpo politico rappresentativo come parlamento, assemblea, camera (Democrazia rappresentativa). Secondo questa definizione, quasi tutti gli stati contemporanei, non escluse le defunte democrazie socialista e i regimi autoritari, dovrebbero essere considerati democratici.
Una definizione più ristretta e rigorosa prevede che i sistemi rappresentativi siano elettivi e basati sul suffragio universale (con il solo vincolo di età minimi per l' elettorato). Anche questa caratteristica però non è sufficiente. Secondo un' opinione più diffusa, perchè un regime politico possa essere definito democratico, deve basarsi, oltre che sul vincolo delle elezioni universali, su alcune condizioni formali e materiali: la divisione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario (già enunciata da Montesquieu), il ricambio e la possibilità di revoca dell' esecutivo, la collegialità del governo, il primato del potere civile su quello militare. Questa definizione permette di escludere dal novero delle democrazie non solo i regimi assoluti, tipici dell' età prerivoluzionaria e oggi presenti in qualche monarchia o regime dinastico del terzo mondo, ma anche forma di dittatura come quella fondata sul potere assoluto di un Führer, Duce o Caudillo, che pure, in termini formali si basavano su costituzioni che prevedevano qualche forma di sistema rappresentativo.
Anche in queste restrizioni, il termine democrazia designa più una costellazione o famiglia di sistemi politici che non un ambito rigorosamente delimitato (per esempio la IV Repubblica Francese, fondata dal generale De Gaulle con un colpo di stato costituzionale ra democratica di fatto, mentre il primo governo Hitler che sopprimeva la repubblica di Weimar si era insediato in seguito a procedure formalmente democratiche).
Una via per sciogliere la complessità del termine è risalire alle sue origini. Sotto ogni punto di vista la patria del concetto è l' Atene "democratica" del VI eV secolo a.C., ma la prima che effettivamente ci sia nota è quella che sorse nel corso del VII secolo a Chio, ed è, per quanto ci consti, la prima volta in cui il popolo ebbe il riconoscimento degli attributi della sovranità.Solone, nella creazione degli ordinamenti ateniesi, ebbe presente il modello della costituzione di Chio.
Secondo le definizioni più o meno neutrali di Aristotele e quelle più polemiche di Platone, del sofista Trasimaco e dell' oligarca noto come pseudo-Senofonte, la democrazia ateniese era caratterizzata dal coinvogimento dei dêmoi nella gestione del potere politico.
Benchè dêmos indicasse in origine ogni distretto (urbano o rurale) in cui era suddivisa Atene, in seguito, con la riforma antioligarchica di Clistene, il termine indicò genericamente "il popolo che agisce congiuntamente". Con Clistene, la partecipazione dei cittadini alle deliberazioni dell' assemblea ateniese e alle funzioni esecutive divenne indipendente dal censo. Così, benchè dalla democrazia fossero esclusi gli schiavi e gli stranieri, Atene realizzo il primo esempio storico di partecipazione politica estesa ai ceti meno abbienti (come i contadini poveri, i marinai della flotta). Nel momento di massimo sviluppo i cittadini attivi di Atene non superarono i 40-50.000. La democrazia era perciò una forma di democrazia diretta in cui era possibile, in ogni momento della giornata udire la voce dell' araldo che chiamava i cittadini alle pubbliche deliberazioni. 
Poichè è principio necessario che tutti abbiano uguale diritto di voto nella democrazia, la maggioranza è sovrana.Principi fondamentali sono l' isonomia, la libertà, l' isocrazia e l' isegoria. Per l' isonomia la legge è uguale per tutti; la libertà è condizione necessaria e scopo della democrazia; l' isocrazia e l' isegoria ("eguaglianza di potere" e "libertà di parola") variamente intese nei tempi, sono i mezzi per la realizzazione del governo democratico.
Scomparso in epoca romana, feudale e assolutistica, il termine democrazia rinacque con la Rivoluzione francese e con l' ala più estrema dei rivoluzionari, i giacobini. Il comune di Parigi che, fino alla caduta di Robespierre, rappresentava la democrazia diretta del popolo parigino rispetto a quella elettiva della convenzione, costituisce una sorta di riattualizzazione dell' antica pólis ateniese.Si deve notare tuttavia che il termine democrazia non giocò un ruolo decisivo nei dibattiti dottrinari della Rivoluzione francese, e neppure di quella americana, che pure, date le caratteristiche straordinarie della nuova repubblica, realizzò la prima forma veramente moderna di democrazia.
E' stato A. de Tocqueville, con la sua grande opera sulla rivoluzione americana (La Democrazia in America, 1835-40), a iniziare il dibattito moderno sulla democrazia. Per lui il vero marchio democratico della società americana risiedeva non solo nella costituzione federale, ma soprattutto nel vasto associazionismo politico, che realizzava una partecipazione diffusa dei cittadini agli affari di interesse comune. Già in questa opera Tocqueville prevedeva una decandenza degli interessi politici, e quindi dell' autentica democrazia politica americana, in favore di quelli strettamente economici.
Per Tocqueville, il passaggio del potere dalle mani dell' aristocrazia a quelle del "terzo stato" era una tendenza di fondo delle società moderne, ed era già in gran parte realizzato anche in Inghilterra e in Francia, nella quale ricevette l' ultima sanzione con l' ascesa al potere di Luigi Filippo d' Orléans. Tutti i paesi precedentemente nominati potevano essere definiti società "democratiche", in quanto in esse il potere non è più nelle mani dell' aristocrazia. Questo però non le rendeva esenti dal rischio di governi autoritari. Anzi, alcui aspetti delle società moderne, in particolare il centralismo amministrativo e la cura esclusiva del proprio interesse particolare da parte dei cittadini, come accennato precedentemente, favoriscono questa degenerazione, realizzando il paradosso di "società democratiche ma non libere": "La frenesia di arricchire a qualunque costo, la passione degli affari e del lucro, la ricerca del benessere e dei godimenti materiali sono le passioni più comuni e diffuse. Esse dilagano facilmente in tutte le classi, (...) perverrebbero in breve tempo a snervare e degradare l' intera nazione, se nulla intervenisse per raffrenarle. 
Orbene, è appunto nella peculiare essenza del dispotismo il favorirle e l' estenderle. Quelle passioni debilitanti gli giovano: esse sviano la mente degli uomini dagli affari pubblici e la tengono occupata altrove, cosicchè essi tremano al solo pensiero delle rivoluzioni. Il solo dispotismo può propiziare per essi quel segreto e quell' ombra che mettono a loro agio le cupidigie, e consentono di inseguire illeciti lucri senza timore di disonorarsi. Senz' esso, siffatte passioni sarebbero state forti; con esso, trionfano.
La libertà sola, per contro, può efficacemente combattere in simili società i vizi che sono ad esse connaturali, e frenarle sulla china dove tendono a scivolare. Essa soltanto, invero, può sottrarre i cittadini all' isolamento dovuto alle loro stesse condizioni di vita, per costringersi a riaccostarsi l' uno all' altro; essa sola li anima, li mette diuturnamente in contatto con la necessità di concentrarsi, di persuadersi, di reciprocamente giovarsi della pratica dei comuni affari. Essa soltanto è in grado di strapparli al culto dell' oro e alle meschine faccende giornaliere dei loro affari privati, per farlo sentire e vedere, in ogni momento, la circostante e sovrastante presenza della patria; essa soltanto può sostituire di tempo in tempo all' amore del benessere passioni più energiche e alte, offrire all' ambizione scopi maggiori che non quello di far quattrini, creare la luce che permette di scorgere e giudicare i vizi e le virtù degli uomini.
Le società democratiche, ma non libere, possono essere ricche, raffinate, ornate, anche magnifiche, potenti per il peso della loro massa omogenea; vi si possono ritrovare doti individuali, buoni padri di famiglia, onesti commercianti, e proprietari stimabilissimi; vi si troveranno pure dei buoni cristiani [...]; ma ciò che non si vedrà mai, oso affermarlo, in simili società, sono i grandi cittadini, e soprattutto un grande popolo; né temo di asserire che il comune livello delle menti e degli animi mai non s' arresterà nel suo abbassamento, fino a che l' uguaglianza e il dispotismo andranno assieme congiunti."
Dopo Tocqueville, il dibattito non ha più riguardato tanto l' essenza filosofico-politica della democrazia, ma le forme giuridiche e le condizioni materiali che consentono ai sistemi politici di salvaguardare i principi costituzionali e democratici formulati da Montesquieu e da Tocqueville e, al tempo stesso, la necessità di razionalizzare le decisioni, e quindi la produttività politica dei sistemi.
Con l' eccezione di pensatori isolati (come Hannah Arendt), il dibattito sulla democrazia include sempre più spesso problemi pratico-dinamicicome il mutamento, il consenso, il ricambio delle élites, le procedure decisionali, e sempre meno la natura della democrazia diretta; oppure il concetto di "democrazia internazionale" che si riferisce alla democrazia come oggetto di rilevanza e interesse internazionali o planetari e la democratizzazione dei rapporti internazionali.