Un
giornale dell’India , (nel 1943 sotto il protettorato inglese) “ The Statesman”
in un editoriale dell’epoca, circa il comportamento tenuto dal segretario di
Stato per l’india , uomo curiosamente disinformato, scriveva:
“ Può darsi che le telecomunicazioni
telegrafiche gli abbiano fatto torto, ma giovedì ha riferito al parlamento che,
a quanto gli consta, le vittime in Bengala (persone morte probabilmente per la
fame) sono circa mille la settimana, anche se potrebbero essere di più. Tutti i
dati accessibili al pubblico indicano cifre molto più alte, e lui, considerata
la carica che ricopre, dovrebbe avere tutti i mezzi per rendersene conto….”.
Due
giorni più tardi il governatore del Bengala (sir Thomas Rutherford) scrisse al
segretario di stato per l’India:
“ La
vostra dichiarazione alla Camera sul numero di morti, verosimilmente basata
sulla mia comunicazione al viceré, è stata duramente criticata da alcuni
giornali…. Ora che gli effetti della mancanza di cibo si stanno facendo sentire
in tutta la loro virulenza fisserei il numero delle vittime a non meno di
duemila la settimana”.
Ma
come stavano realmente le cose? Mille o duemila morti , o forse tutt’altra
cifra?
La
commissione di inchiesta sulla carestia, che ne dicembre 1945 comunicò il suo
rapporto su disastro, concluse che tra il luglio e il dicembre 1943 i decessi
erano stati 1.304.303, contro la media di 626.048 registrata per lo stesso periodo
del quinquennio precedente. Concluse quindi che il numero di decessi dovuti
alla carestia aveva superato le 678.000 unità. Ogni settimana , dunque, non
erano morte mille o duemila persone, ma più di 26.000.
Ecco
come una inchiesta fatta da stampa
libera, permetta alla pubblica opinione di saper la verità e valutare il
comportamento dei politici.
In
un sistema democratico il controllo critico esercitato dall’opinione pubblica e
dal Parlamento non avrebbe permesso alle autorità ( inclusi il Governatore del Bengala e il
viceré) di sottovalutare in quel modo una realtà tanto drammatica.
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