geronimo

giovedì 5 luglio 2018

AMILCAR CABRAL


Amilcar Lopes Cabral, principale artefice dell'indipendenza della Guinea-Bissau e delle isole di Capo Verde, è uno dei più importanti ideologi e politici dell'intero processo di decolonnizazione dell'Africa.
Nasce nel 1924 da genitori capoverdiani nella Guinea allora nota come Guinea portoghese; studia a Lisbona e ritorna in Guinea nel 1952. E' in questi anni che matura il suo dissenso nei confronti del regime portoghese. Dopo un periodo trascorso in Angola, nel 1956 torna in patria per fondare un partito clandestino, il PAIGC (Partito africano per l'indipendenza della Guinea e Capo Verde); successivamente crea il FLGCV (Fronte per la Liberazione della Guinea e di Capo Verde), aperto a tutti i partiti politici, che stabilisce come obiettivo l'immediata conquista dell'indipendenza e che dà vita a un conflitto con il regime portoghese.
Cabral muore nel 1973, assassinato da un membro del PAIGC a Conakry, nello stesso anno in cui la Guinea portoghese diventa indipendente come Guinea Bissau. È stato ucciso quando ormai stava per raggiungere l'obiettivo di tutta la vita: la fine del colonialismo portoghese, la conquista dell'indipendenza di Guinea e Capo Verde.

BERLINO 1884


 Berlino 1884-85: la spartizione dell’Africa Diretta conseguenza della crescita dell’economia internazionale e dello sviluppo industriale è l’emergere, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, di forti tensioni politiche tra le principali potenze europee. Lo sviluppo industriale, che dal primo avvio in Inghilterra si è allargato alle nazioni continentali, aumenta a dismisura la loro forza economica, facendo crescere la competizione per l’allargamento delle sfere di influenza, e trasforma i caratteri del colonialismo europeo. Da un lato, i territori colonizzati, che sino ad ora hanno assicurato la fornitura di materie prime e assorbito la popolazione in sovrannumero, diventano importanti anche come mercati; dall’altro, una crescente presenza militare e politica è considerata una condizione necessaria per la tutela degli investimenti. L’espansione coloniale si trasforma così in uno dei fattori decisivi delle relazioni internazionali, e parallelamente si intensificano le sue ripercussioni sulla politica interna dei paesi colonizzatori. Sull’esempio della Gran Bretagna, che dal 1877 ha rafforzato i legami politici e istituzionali con i suoi domini d’oltremare, tutte le potenze europee puntano a dare un assetto “imperiale” alle loro relazioni con i paesi extraeuropei nei quali hanno in precedenza conquistato possedimenti o acquisito un forte potere di influenza a scopi economici o strategicocommerciali. Tale tendenza comporta ovunque l’esaltazione dei sentimenti di potenza nazionale e di superiorità della razza bianca. Il carattere decisivo che distingue gli anni dal 1880 fino alla prima guerra mondiale dal periodo precedente non va dunque individuato semplicemente nell’inedita estensione geografica raggiunta dall’espansione coloniale, che pure giunge a interessare quasi la metà della superficie terrestre, ma piuttosto nelle nuove forme assunte dal dominio coloniale stesso. Da questo punto di vista, la caratteristica principale è la tendenza da parte delle potenze europee a pianificare la spartizione del mondo e ad accordarsi a tavolino sulla creazione di sfere di influenza, nel tentativo di risolvere sulla base di negoziati diplomatici gli immancabili conflitti derivanti dal sovrapporsi delle rispettive direttrici di espansione coloniale. La manifestazione più eclatante delle tendenze imperialistiche interessa l’Africa. Ancora intorno al 1840 la conoscenza del continente africano da parte degli europei è assai imprecisa, e del tutto ignota risulta la maggior parte delle zone interne. Negli anni tra il 1850 e il 1870 una serie di spedizioni geografiche – guidate da esploratori come David Livingstone ed Henry Stanley – hanno consentito di individuare le sorgenti del Nilo e il percorso dei fiumi Congo, Niger e Zambesi. Frizioni sulla conquista delle regioni africane cominciano a emergere nel 1877, quando il governo britannico della provincia del Capo, nell’Africa del Sud, decide di annettere lo Stato minerario e diamantifero del Transvaal, governato da coloni boeri (di origine olandese); il conflitto anglo-boero sancisce, nel 1881, la sconfitta inglese e il riconoscimento dell’autonomia del Transvaal, che diviene repubblica Sudafricana. Tensioni ancora più aspre si sviluppano nel 1882 tra Gran Bretagna e Francia in seguito all’occupazione dell’Egitto da parte di truppe del governo di Londra; la creazione di un protettorato militare britannico sul paese, giustificato dalla necessità di sedare la rivolta della popolazione egiziana contro le pesanti interferenze straniere, pone fine al controllo congiunto anglo-francese sulle finanze egiziane e soprattutto sul canale di Suez. La penetrazione francese in Algeria (conquistata nel 1830), in Tunisia e dal Senegal verso il Niger, l’ingresso di altre potenze nella competizione coloniale (il Belgio cerca di affermare il proprio dominio 2 sul bacino del Congo scontrandosi con interessi portoghesi e francesi sulla regione, mentre la Germania acquisisce il controllo del Togo e del Cameroun, e poi del Tanganica in una zona che ha già visto affermarsi il dominio britannico su Kenya e Uganda) moltiplica le aree di frizione. Proprio in relazione al problema del Congo, il Portogallo lancia la proposta di una conferenza internazionale per la spartizione di questa regione. La proposta viene immediatamente ripresa dalla Germania con il cancelliere Bismarck che aspira a proporre il governo tedesco come arbitro delle rivalità internazionali. La conferenza si apre a Berlino il 14 novembre 1884 e vede la presenza di 14 potenze: Germania, Austria-Ungheria, Belgio, Danimarca, Impero Ottomano, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Russia, Svezia. Si scontrano due posizioni: da un lato Bismarck intende garantire la libertà di navigazione e di commercio in tutta la zona, dall’altro il Portogallo, sostenuto dalla Francia, concepisce le colonie come un monopolio commerciale detenuto dalla metropoli. Alla fine, il 23 febbraio 1885, vengono approvati i punti seguenti: • Ogni potenza europea presente sulla costa può estendere il suo dominio verso l’interno fino a dove incontra un’altra « sfera d’influenza »( nozione che compare per la prima volta in un trattato internazionale). • Non vi può essere annessione se non per mezzo dell’occupazione effettiva del territorio. Viene quindi escluso il principio dell’hinterland che permette l’annessione automatica dell’interno sepmplicemente occupando la zona costiera. • Libertà di navigazione sui fiumi Niger e Congo e libertà di commercio nel bacino del Congo. • una risoluzione contro la schiavitù, che divenne illegale, ma restò ampiamente applicata in tutta l'Africa. • La Conferenza prende atto dell’esistenza dello Stato indipendente del Congo, potenza sovrana e territorio di proprietà personale del re Leopoldo II del Belgio (che diventerà colonia belga nel 1908). La Francia si vede riconosciuta l’autorità sulla riva destra del fiume Congo. La conferenza poneva in tal modo fine agli effetti destabilizzanti che l’espansione coloniale in Africa minacciava di avere sulle relazioni internazionali. Con due importanti conseguenze: da una parte lo spostamento delle tensioni e dei conflitti d’interessi europei fuori dell’Europa, con il parallelo tentativo di ristabilire gli equilibri di potenza attraverso una frenetica “corsa” dei diversi paesi alla colonizzazione militare ed economica del mondo; dall’altra la trasformazione del concetto stesso di colonialismo, che da sistema di egemonia prettamente commerciale passa a indicare il controllo politico diretto sulle colonie e lo sfruttamento massiccio delle loro risorse. Le regioni sottoposte al controllo europeo diventano colonie, oppure protettorati, con locali governi-fantoccio sostenuti dal paese dominante, la “madrepatria”. La ricerca di nuovi mercati non è più limitata solamente a imprese e compagnie, ma diventa una politica nazionale sostenuta fortemente dagli Stati centrali, finanziata con fondi pubblici e gestita da appositi apparati amministrativi. Ovunque, gli europei investono somme crescenti di denaro, ricavano quantità sempre maggiori di materie prime, impongono i loro modelli culturali e politico-istituzionali, guidando la politica economica e la vita interna dei paesi dominati. Gli obiettivi economico-produttivi dell’imperialismo europeo si confondono peraltro molto spesso con l’affermazione di una presunta “missione civilizzatrice” dei bianchi, che avrebbe dovuto portare la civiltà alle popolazioni indigene, ritenute ben lontane dal raggiungerla. Alcuni fattori sono stati determinanti nel consentire una occupazione territoriale dell'Africa che includesse anche le zone più interne: 3 • Malattie: verso la seconda metà dell'Ottocento la mortalità degli occidentali in Africa, legata a malattie, è scesa da un 25-50% al 5%, misura comunque considerevole, grazie alla scoperta delle proprietà antimalariche del chinino; altre conoscenze riguardo alla gestione delle malattie hanno consentito di porre un freno alla mortalità estremamente elevata dovuta alle malattie tropicali. • Armi: è in questi anni che si riscontra il maggior gap tecnologico tra i vari paesi africani e l'occidente; con la sostituzione del moschetto con i più efficaci fucili (a percussione e poi a retrocarica) ed il miglioramento delle tecnologie dell'artiglieria, l'Occidente aumenta il vantaggio tecnologico nei confronti del continente africano. • Esplorazioni: dal 1850 vari paesi occidentali finanziano numerose esplorazioni geografiche ed istituti geografici per acquisire informazioni sulle parti più interne dell'Africa che erano totalmente sconosciute. Le spedizioni geografiche (famosi esploratori furono Livingstone, Burton, Stanley e Brazzà) si avventurarono in zone sconosciute, scoprendo aree fertili e miti (i grandi laghi), e fornendo conoscenze geografiche, culturali ed economiche di varie regioni remote. • Giustificazione morale e intellettuale: un valido contributo alla corsa per la spartizione dell'Africa arrivò dal mondo intellettuale, che fornì, grazie al razzismo pseudoscientifico suffragato dai contemporanei studi di biologia, genetica, antropologia etc., il pretesto di fornire civilizzazione e conoscenze alle popolazioni africane, che in quanto meno evolute, non erano in grado di accedere autonomamente alla civiltà. Per concludere, l’Africa è l’area che fa maggiormente le spese di questa competizione tra le nuove potenze industriali europee. La Conferenza di Berlino (1884-1885), si svolse sotto l’ideologia che assegnava solo alle potenze europee e ai popoli bianchi d’oltreoceano il diritto alla sovranità: le altre aree erano considerate territori vuoti liberamente occupabili e spartibili. La divisione del continente africano fu fatta sulla base di una terribile violenza geografica e ideologica, seguendo cioè le coordinate geografiche o il corso dei fiumi e l’orografia, ma non tenendo minimamente conto delle caratteristiche storiche, culturali, antropologiche, economiche dei popoli che vi abitavano. Intere formazioni nazionali vennero così smembrate, mentre altre, da sempre rivali, vennero costrette a convivere, scatenando contrasti sanguinosi che stanno anche alla radice dei conflitti del nostro secolo. L’Africa diventò uno spazio “europeo”. 4 Lo scramble for Africa tra il 1885 ed il 1914

SMITH ADAM


SMITH ADAM
1723/1790 SCOZIA
Nel suo sistema teorico egli sottolinea i benefici supremi dell'ordine naturale e delle inclinazioni naturali dell'uomo, che sono spesso compresse e distorte dalle istituzioni umane. La condotta umana, secondo S., è determinata da sei impulsi: egoismo/">egoismo, simpatia, desiderio di libertà, senso della proprietà, abitudine al lavoro e tendenza al baratto. Grazie a questi impulsi, ogni uomo sa perfettamente riconoscere il proprio interesse, e quindi dovrebbe essere lasciato libero di soddisfarlo secondo le proprie inclinazioni. D'altra parte, se l'uomo persegue il proprio interesse personale, egli persegue anche, indirettamente, il bene di tutti. La Provvidenza infatti ha impresso alla società un ordine naturale, ha equilibrato armoniosamente gli impulsi che muovono l'uomo, ed ha temperato l'egoismo di quest'ultimo con altri sentimenti, soprattutto con la simpatia. Ciascun individuo perciò, perseguendo il proprio particolare interesse, è "spinto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era stato previsto dalle sue intenzioni", e cioè il bene comune; al contrario, afferma S., "non ho mai avuto occasione di constatare il bene fatto da coloro che affermano di operare per il benessere comune". Le conseguenze economico-politiche di questa filosofia etico-sociale sono assai rilevanti. Se si deve lasciare libero ogni membro della comunità di operare per massimizzare il suo profitto, perché in tal modo egli contribuirà al bene comune, allora l'intervento del governo nella società deve essere rigorosamente limitato. E infatti S. riconosce al governo solo tre compiti: assicurare la difesa da aggressioni straniere, istituire una rigorosa amministrazione della giustizia, provvedere alle opere pubbliche. Qualunque altro intervento del governo risulterà sicuramente dannoso. Ogni ingerenza statale nell'industria, nel commercio, nell'agricoltura altererà quell'ordine intrinseco che regna in questi grandi settori non meno che nell'attività economica individuale. Il pensiero sociale ed economico di S. costituiva così una rigorosa giustificazione teorica del laisser faire. S. criticò infatti aspramente tutti gli ostacoli concreti che si opponevano al trionfo dei suoi principî (privilegi, monopolî, regolamentazioni industriali, dazî eccessivi, ecc.). Per consenso quasi unanime S. è considerato il fondatore della scienza economica moderna (uno dei pochi studiosi che contestano tale affermazione è Schumpeter). È indubbio che l'elegante e organica presentazione dei vantaggi della divisione del lavoro e dello scambio fornita da S. rappresenti il punto di partenza della scuola economica "classica", che doveva avere in Ricardo uno dei suoi più illustri continuatori. La caratteristica più interessante dell'opera di S. è, al riguardo, la dimostrazione del come il mercato rappresenti lo strumento di coordinamento degli interessi individuali, realizzando quella cooperazione fra individui che è alla base di qualsiasi sistema economico. La dimostrazione dei vantaggi degli scambî internazionali, sia pure incompleta e imparziale, sarà, estesa e completata da Ricardo, fino a tutt'oggi, malgrado i suoi limiti, la più eloquente analisi a favore della libertà del commercio internazionale. Sia che si guardi a S. come precursore delle teorie "classiche" del valore-lavoro e antecedente fondamentale dell'opera di Ricardo, sia che si sottolinei invece l'estrema eleganza della sua presentazione della filosofia liberista, sembra indubbio che l'opera di S. costituisca il punto di partenza del pensiero economico moderno.

UNA TEORIA DELLA GIUSTIZIA


UNA TEORIA DELLA GIUSTIZZIA ( John Rawls)


I principi di giustizia sono ispirati a ideali di libertà ed uguaglianza opportunamente combinati tra loro all’interno di una visione democratica della società.


La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite, se sono ingiuste. Ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia, su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggior benefici goduti da altri.


Non si può permettere che i sacrifici imposti a pochi vengano controbilanciati da una maggiore quantità di vantaggi goduti da molti. Di conseguenza, in una società giusta sono date per scontate eguali libertà di cittadinanza; i diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica, né del calcolo degli interesso sociali.
Un’ingiustizia è tollerabile solo quando è necessaria per evitarne una ancora maggiore. Poiché la verità e la giustizia sono le virtù principali delle attività umane, esse non possono essere soggette a compromessi.


Diciamo che una società è bene-ordinata quando non soltanto è tesa a promuovere il benessere dei propri cittadini , ma è anche regolata in modo effettivo da una concezione pubblica della giustizia. Ciò significa che si tratta di una società in cui ognuno accetta e sa  che gli altri accettano i medesimi principi di giustizia, e le istituzioni fondamentali della società soddisfano e generalmente riconoscono , tali principi.
In mezzo a individui che hanno scopi e finalità diverse, una concezione condivisa di giustizia stabilisce legami di convivenza civile.








Le società esistenti sono raramente bene-ordinate perché ciò che è giusto o ingiusto è generalmente in discussione. Gli esseri umani sono in disaccordo rispetto a quali principi devono definire i termini fondamentali della loro società. Nonostante questo disaccordo, è ancora possibile dire che ognuno di essi possiede una concezione di giustizia. Ciò significa che essi sono pronti a riconoscere e ad affermare la necessità di uno specifico insieme di principi che assegnino diritti e doveri fondamentali, e determinano quella che essi considerano la corretta distribuzione dei benefici e degli oneri della cooperazione sociale.


Coloro che sostengono differenti concezioni della giustizia possono ancora essere  d’accordo sul fatto che le istituzioni sono giuste quando non viene fatta alcuna distinzione arbitraria tra le persone nell’assegnazione dei diritti e doveri fondamentali, e quando le norme  determinano un appropriato equilibrio tra pretese contrastanti riguardo ai vantaggi della vita sociale.


In mancanza di un certo grado di accordo su ciò che è giusto o ingiusto, risulta più difficile per gli individui coordinare efficacemente i propri piani in modo da assicurarsi il mantenimento di accordi reciprocamente vantaggiosi.
Sfiducia e risentimento corrodono i legami della convivenza civile; sospetto e ostilità spingono gli uomini a agire in modi che altrimenti essi eviterebbero. Ecco perché è importante stipulare un contratto e soprattutto trovare un’accordo su cosa è giusto o ingiusto.


Molti e diversi generi di cose sono considerati giusti o ingiusti; non soltanto leggi, istituzioni e sistemi sociali, ma anche particolari azioni di diversi tipi, tra cui decisioni, giudizi e imputazioni delle persone, e le persone stesse. Ma l’oggetto principale della giustizia è la struttura di base della società, o più esattamente il modo in cui le maggiore istituzioni sociali distribuiscono i doveri e i  diritti fondamentali e determinano la suddivisione dei benefici della cooperazione sociale. Per istituzioni maggiori  si intende la costituzione politica e i principali assetti economici e sociali. Così la tutela giuridica della libertà di pensiero e di coscienza, il mercato concorrenziale, la proprietà privata dei mezzi di produzione e la famiglia, sono tutti esempi di istituzioni sociali maggiori.
Le istituzioni maggiori definiscono i diritti e doveri degli esseri umani e influenzano le loro prospettive di vita, ciò che essi possono attendersi e le loro speranze di riuscita.



Un concetto di giustizia viene definito dal ruolo che i suoi principi hanno nell’assegnazione di diritti e doveri e nel definire l’appropriata ripartizione dei benefici sociali. Una concezione della giustizia è un’interpretazione di questo ruolo.
La giustizia come equità parte da una vera società di persone che possono compiere insieme delle scelte atte ad affermare una democrazia concreta. Come formare un’idea di giustizia? Eliminando sacche di povertà e dando ai cittadini diritti e doveri nei quali credere. Una domanda sorge spontanea: E’ giustizia che una persona guadagni 5000 euro al mese, e molte altre anche di più, ed un’altra 400 al mese?
A questa domanda tanti rispondono che il guadagno deve essere considerato a seconda delle capacità professionali degli individui, altrimenti cresce una società piatta e senza stimoli o addirittura una società di stampo comunista. Nulla di più errato nell’affermare ciò. Una comunità ha bisogno del contributo di tutti; chi stabilisce che il ruolo del medico o dello scienziato, dell’ingegnere, dell’architetto, del grande capitano d’industria, di un politico, sia più importante dell’operaio, del contadino, dell’artigiano, del poliziotto, dell’impiegato, del pensionato ?
Stabiliamo pure diversità di stipendi, ma questi non devono superare una quota eccessiva fra il minimo ed il massimo.
Una società giusta opera per la propria comunità a 360° e non deve lasciare un proprio membro in difficoltà mentre altri sperperano i loro lauti guadagni. In una società giusta tutti i cittadini devono essere complementari come in un pasol nel quale tutti i pezzetti devono essere messi ad incastro altrimenti non si completerà mai.
Dalle diseguaglianze nascono i conflitti; dal conflitto nasce l’odio; dall’odio nasce la violenza; dalla violenza inizia la distruzione della società.
Da una società distrutta chi può dire che nascerà qualcosa di buono?




La corrente di pensiero utilitaristica risulta essere rigida nel difendere la libertà individuale e quella di pensiero, sostenendo che il bene della società è costituito dai vantaggi goduti dai singoli. Ma la legittima libertà del singolo non può inficiare la libertà dell’intera società.
L’idea principale è che una società è correttamente ordinata, e quindi giusta, quando le sue istituzioni maggiori sono in grado di raggiungere il saldo più alto di utilità possibile, ottenuto sommando quella di tutti gli individui appartenenti ad essa.
Quello che però deve essere valutato è la statistica nella quale viene indicato che ai cittadini  tocca di mangiare un pollo a testa, poi in realtà si scopre che ci sono cittadini che mangiano due polli ed altri nemmeno uno.


I due concetti principali dell’etica sono quelli di giusto e di bene , credo che il concetto di persona moralmente degna sia derivato da essi. La struttura di una teoria etica è perciò determinata in larga misura  nel modo in cui definisce e mette in relazione queste due nozioni fondamentali. Il modo più semplice per farlo è che il bene venga definito indipendentemente dal giusto, e il giusto sia successivamente definito come ciò che massimizza il bene.
Più precisamente, sono giusti quegli atti e istituzioni che in un insieme di alternative disponibili ottengono il maggior bene, o che almeno ne ottengono tanto quanto qualunque altro atto o istituzione che sia dato come possibilità reale.



La convinzione del senso comune è che distinguiamo in linea di principio tra le pretese di libertà  e di giustizia da una parte, e la desiderabilità di aumentare il benessere sociale aggregato dall’altra; diamo una certa priorità, anche se non assoluta, alle prime.
Di conseguenza in una società giusta, le libertà fondamentali sono date per scontate e i diritti assicurati dalla giustizia non sono soggetti né alla contrattazione politica né al calcolo degli interessi sociali.


Gli utilitaristi sono stati rigidi difensori della libertà individuale e della libertà di pensiero, e hanno sostenuto che il bene della società è costituito dai vantaggi goduti dai singoli.
 Ma la libertà individuale non deve mai contrastare con la libertà degli altri, mentre la libertà di pensiero non la si può mai reprimere.


Nella giustizia come equità il concetto di giusto è prioritario rispetto a quello di bene. Un sistema sociale giusto definisce l’ambito all’interno del quale gli individui devono sviluppare i propri scopi, fornisce una struttura di diritti e di opportunità, e i mezzi di soddisfacimento il cui uso e rispetto garantiscono un equo perseguimento di questi fini.











REFERENDUM SUL SALARIO:

Le regole in una società chi le deve scrivere? Le regole si dividono in gruppi e si applicano uniformemente alla regola della giustizia. Esiste un gruppo di regole  che si applica alla questione del  giusto SALARIO , un altro a quella dell’imposizione fiscale, un altro ancora alla pena, e così via.
Per esempio, per ottenere  la nozione di giusto salario, dobbiamo in qualche modo valutare vari criteri concorrenti, quali l’abilità, la formazione professionale, lo sforzo, la responsabilità, i rischi del lavoro, oltre a tenere in debito conto il bisogno.
Probabilmente nessuno deciderebbe sulla base di uno solo di questi criteri, ed occorre quindi delineare un compromesso tra loro.
Tuttavia questa valutazione è influenzata dalle esigenze  di differenti interessi sociali e delle relative posizioni di potere e influenza. Persone con interessi divergenti tendono a privilegiare i criteri che favoriscono i propri scopi. Quelli più dotati di abilità e cultura sono pronti ad accentuare le pretese basate sull’abilità e la formazione professionale, mentre coloro che sono privi di questi vantaggi portano avanti pretese sul bisogno.

Quale deve essere il giusto salario? Questo deve uscire fra un minimo ed un massimo accettabili.
Certamente si parte dal salario minimo, cioè quello che ci vuole per poter vivere dignitosamente. A mio parere questo salario minimo dovrebbe coincidere nella forbice fra i 1000 e i 1500 euro mensili.
Il salario massimo dovrebbe uscire nella forbice fra i 3000 e i 5000 euro mensili.
Ecco, questa potrebbe essere una base di partenza per un contratto sociale in una comunità di cittadini.
Voi cosa ne pensate?



.