geronimo

domenica 23 ottobre 2011

San Gregorio di Nazianzo

Il teologo per santità di vita
Originario della Cappadocia, Gregorio (330 ca/390), illustre teologo e difensore della fede, si formò ad Alessandria d'Egitto e ad Atene, le metropoli culturali dell'epoca. Denominato il "teologo" non in virtù di erudite speculazioni, ma per santità di vita, san Gregorio era un uomo mite e di profonda interiorità, in un tempo di forti tensioni e lacerazioni all'interno della Chiesa. Fu ordinato vescovo di Costantinopoli durante il concilio Ecumenico del 381 e ne assunse la presidenza ma, a causa delle forti ostilità, rassegnò le dimissioni. Si ritirò nella terra natia dove si dedicò allo studio e alla vita ascetica.
Con la sua sensibilità di poeta egli proclama l'importanza della preghiera definendola l'incontro della sete di Dio con la nostra sete. Gregorio sottolinea che Dio ha sete che noi abbiamo sete di lui. Afferma Benedetto XVI: " Gregorio, dunque ha sentito il bisogno di avvicinarsi a Dio per superare la stanchezza del proprio io. Ha sperimentato lo slancio dell'anima, la vivacità di uno spirito sensibile e l'instabilità della felicità effimera. Per lui, nel dramma di una vita su cui pesava la coscienza della propria debolezza  e della propria miseria, l'esperienza dell'amore di Dio ha sempre avuto il sopravvento. Hai un compito, anima dice San Gregorio anche a noi, il compito di trovare la vera luce, di trovare la vera altezza della tua vita. E la tua vita è incontrarsi con Dio che ha sete della nostra sete.

Tiziana M. Di Blasio (storica della Chiesa)



==============================================================
LE SUORE APOSTOLINE
Appartengono alla famiglia Paolina (del beato Giacomo Alberione) . La loro missione è per tutte le vocazioni, con particolare attenzione al sacerdozio e alla vita consacrata. Con la preghiera e l'azione accompagnano i giovani perchè rispondano alla loro vocazione; coloro che hanno risposto siano fedeli; e in tutti si formi una profonda coscienza vocazionale. Organizzano incontri di orientamento per i giovani; collaborano con parroci ed educatori; preparano sussidi vocazionali. Sono in Italia, Brasile e Polonia. "L'apostolato vocazionale è tutto amore".

L'annuncio del Vangelo

                                       L'annuncio del Vangelo, primo servizio all'uomo.
"Come il padre ha mandato me, anch'io mando voi" . La missione fa parte della natura della Chiesa ed è compito di ogni cristiano. Il Vangelo è un dono così prezioso che non possiamo tenere egoisticamente per noi. E metre comunichi agli altri la tua fede, si accresce nel tuo cuore: " La fede si accresce donandola".
Destinatari della missione sono tutti, il mondo intero: quelli che non conoscono Cristo e quelli che hanno rifiutato Cristo vivendo in una società scristianizzata, cristiani solo di nome e popoli che professano altre religioni. Perchè Cristo è venuto a salvare tutti . Perche Cristo non è semplicemente "una" via, ma "la" via; non è semplicemete "una" verità, ma "la" Verità.
La missione verso gli uomini di altre religioni comincia con l'ascolto, la comprensione, il rispetto, il dialogo. " Il dialogo intereligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa". Con il dialogo la Chiesa intende scoprire i germi del Verbo, i raggi della verità che illumina tutti gli uomini. E a partire da questi bagliori bisogna presentare Cristo, che ne è la fonte perchè è "la luce del mondo".
Infine l'evangelizzazione non va mai disgiunta dala promozione umana e dalla testimonianza di vita cristiana: non basta essere credenti, bisogna essere credibili.

Mons. Giuseppe Greco

domenica 9 ottobre 2011

I COSACCHI

IL POPOLO DEI COSACCHI
I ribelli venuti dalla Steppa:
De cossaquibus, Domine, liberas nos (Liberaci, o Signore, dai Cosacchi). Secondo quanto riporta Robert Thomas Wilson, un ufficiale inglese che lottava a fianco dei russi contro le armate napoleoniche, questa era una delle invocazioni che si potevano ascoltare in mezza Europa agli inizi dell’ottocento. Temutissimi e feroci combattenti, i cosacchi ebbero un ruolo fondamentale nella storia dell’Impero russo, diedero molto filo da torcere a tatari e turchi, conquistarono il Caucaso, l’Asia centrale, la Siberia e l’estremo oriente, quindi inflissero il colpo mortale alle truppe di Napoleone durante la Campagna di Russia, passarono alla storia come indomiti difensori della propria libertà, ma anche come rozzi soldatacci indisciplinati e ubriaconi, piuttosto propensi al saccheggio e alla gozzoviglia. Ma chi erano veramente?
Di etnia slava, stanziati soprattutto in Ucraina, il loro nome proviene con ogni probabilità dal turco qazaq con il quale venivano indicati i nomadi e che significa “ uomo libero” o “avventuriero a cavallo”. In lingua Ucraina il termine kozak apparve invece per la prima volta nel 1395 per designare guerrieri mercenari esenti dagli obblighi feudali.
I Cosacchi costituirono all’inizio comunità organizzate con riti d’iniziazione molto severi, ma disposte ad accogliere tutti coloro che sfuggivano al giogo del servaggio feudale. Di solito insediati in prossimità di corsi d’acqua come il Don, il Dnepr o il Volga, questi gruppi tendevano ad essere autosufficienti e si dedicavano alla caccia, alla pesca, all’allevamento del bestiame e all’apicoltura.
Molto diversa era, invece, la vita nelle comunità stanziate tra il XVII e il XVIII secolo in Siberia, lungo la frontiera con le vaste terre dell’antico impero mongolo che, per la loro sopravvivenza, dipendevano in larga misura dalle derrate di grano inviate dal governo centrale in cambio di una sorta di servizio militare, per il quale ricevevano anche una paga. Che spesso i cosacchi siberiani arrotondavano con i bottini o i prigionieri (poi venduti come schiavi o scambiati dietro riscatto con le famiglie) conquistati e catturati  durante le incursioni in villaggi nemici.
Nei dipinti che hanno alimentato il loro mito, i cosacchi sono uomini rudi dai lunghi baffi e con i capelli rasati, a parte una lunga ciocca. Il loro abbigliamento era costituito da un caftano (una sorta di casacca) o dalla cerkessa (tunica lunga con le cartucciere). Quelli che furono inquadrati nell’esercito indossavano pantaloni blu con una fascia rossa, che indicava la loro esenzione dal pagamento delle imposte.
Il loro armamento classico prevedeva il kindjal (pugnale ricurvo), la saska (sciabola) e la nagaika (frusta). Maneggiavano con molta perizia anche una lancia più lunga di quella normalmente utilizzate dagli squadroni di lancieri polacchi o francesi, che in battaglia, soprattutto a distanza ravvicinata, provocava grandi stragi.
La loro abilità nell’allevare e montare i cavalli, probabilmente ereditata dai Mongoli, fu sviluppata fino  a divenire un’arte acrobatica. La stessa danza cosacca chiamata gopak o hopak (quella che nei film si vede fare accovacciati, a braccia conserte) faceva parte della preparazione militare dei giovani cosacchi: si trattava di una disciplina a metà strada tra il ballo e l’arte marziale, un po come la brasiliana capoeira. Soprattutto nella variante denominata boyovy hopak, era un metodo per allenarsi all’uso delle armi bianche e nella lotta corpo a corpo.
Urrà! “ Datemi 20 mila cosacchi e conquisterò l’Europa e perfino il mondo intero” avrebbe detto Napoleone. Li considerava poco meno che selvaggi, ma riconosceva la superiorità bellica degli squadroni di cavalleria cosacca, che inflissero ingenti perdite alle sue armate durante la Campagna di Russia, nel 1812. In effetti erano cavalieri formidabili, che si lanciavano all’assalto con coraggio al grido di “ Gu-Rai!”, che nella loro lingua era più o meno “Verso la beatitudine del cielo”  e da cui si pensa derivi il grido di battaglia “ urrà “, diffuso nel mondo dai soldati della prima guerra mondiale  che lo avrebbero sentito durante  gli attacchi cosacchi.
Il giudizio di Napoleone sul popolo delle steppe rozzo ed incolto era solo un pregiudizio. I cosacchi erano piuttosto organizzati. Le comunità vivevano in accampamenti fortificati o villaggi nei quali costruivano , prima di tutto, la chiesa e la scuola, quest’ultima frequentata dai maschi e femmine (cosa che non avveniva, per esempio, tra i contadini russi). L’istruzione era considerata così importante  che nel XIX secolo l’indice di analfabetismo nelle comunità cosacche sembra fosse appena del 5%, mentre in altre aree della Russia raggiungeva l’85%.
I cosacchi, al contrario di Napoleone, erano anche democratici. Le decisioni fondamentali  erano prese in assemblee chiamate Krug. Inoltre sia i giudici che le massime autorità militari (gli atamani) venivano rieletti ogni anno e, aspetto ancor più importante, non provenivano da una casta economica o nobiliare, ma erano scelti tra tutti, per i loro meriti.
Sia il modello sociale “ aperto” sia l’efficacia in battaglia si possono spiegare con l’ambiente tipico dei cosacchi: la steppa. Qui le più antiche comunità erano costituite da membri senza vincoli di parentela, diverse quindi dai clan. “ In questi circoli l’unione nasceva dal bisogno di raggiungere obbiettivi comuni, e vi potevano partecipare gli uomini di qualsiasi appartenenza sociale,etnica o religiosa . Questi gruppi avevano dunque un carattere temporaneo e si scioglievano una volta raggiunto l’obbiettivo, che poteva essere una stagione di caccia o una campagna militare, per poi riunirsi per la stagione successiva.
“ Nelle instabili condizioni della frontiera siberiana queste piccole unità militari divennero l’organizzazione locale più efficiente per proteggere i trasporti delle merci preziose (come le pellicce) dagli attacchi dei predoni”.
Compiti di tutela dalle incursioni dai nomadi che non avrebbero potuto essere  seguiti con altrettanta efficacia dall’esercito regolare: il gruppo cosacco era infatti composto da uomini liberi consapevoli di dovere la loro sopravvivenza  all’unità e alla collaborazione. I cosacchi furono dunque una pedina importante per mantenere l’ordine nelle provincie più remote dello sterminato Impero Russo. A loro furono affidate la raccolta dello iasak (l’imposta dovuta allo Zar) e la difesa delle frontiere. Fedeli al sovrano, i cosacchi entrarono però spesso in conflitto con i rappresentanti locali del potere centrale, i voivoda, i governatori scelti tra la nobiltà militare russa. Se da un lato il codice di comportamento cosacco ammetteva il saccheggio, dall’altro puniva con la morte chi si appropriava indebitamente di risorse destinate alla comunità. Cosa che i voivoda facevano spesso. Così scoppiavano rivolte  anche molto cruente contro governatori giudicati infedeli , come dimostrano le molte petizioni  che i cosacchi inviavano allo Zar con le proprie rimostranze.
Alla fine del XVII secolo la dinastia Romanov riuscì ad inquadrare questi potenziali ribelli nell’esercito, ottenendo da loro il giuramento di fedeltà e convertendosi così da liberi alleati a sudditi. E nel corso del settecento i cosacchi persero gradualmente le loro prerogative e la loro autonomia, fino a quando lo Zar Pietro il Grande (1672-1725) abolì definitivamente  le elezioni degli anatami, da allora in poi designati  dal potere centrale.
Il tramonto definitivo dei cosacchi  avvenne nel novecento. Già durante la prima guerra mondiale le nuove tecniche belliche avevano dimostrato come l’uso di grandi reparti di cavalleria fosse superato l’uso dei grandi reparti di cavalleria fosse superato e i signori delle steppe avevano perduto la loro gloriosa funzione di baluardo delle frontiere, ridotti spesso a soffocare le rivolte interne.
Durante la Rivoluzione d’ottobre, nel 1917, in un primo momento i cosacchi si schierarono con i bolscevichi, ma dopo la presa del potere da parte di questi ultimi, la maggioranza di loro passò al fianco delle guardie “bianche” (gli zaristi): solo il dieci per cento (i cosacchi più poveri e senza terre) militò nell’Armata Rossa.
Forse per questo già il governo bolscevico attuò una serie di misure di “decosacchizazione”, per lo più deportazioni in regioni lontane da quelle di insediamento. Il colpo di grazia venne alla fine della seconda Guerra Mondiale, durante la quale diversi reggimenti cosacchi si allearono con i nazisti e si distinsero per la crudeltà nelle operazioni antipartigiane nei Balcani e anche in Italia. I tedeschi promisero loro in cambio un territorio in cui crare, dopo la guerra, uno stato cosacco indipendente: sarebbe dovuto essere proprio la Carnia, nel Friuli, dove i cosacchi compirono diverse azioni repressive.
Nel 1945, per decisione degli Alleati, i cosacchi “d’occidente”” furono però rimpatriati in Russia, dove vennero fucilati o deportati nei gulag.
In seguito al disfacimento dell’Urss (1991) molti di loro vennero in parte riabilitati in quanto vittime dello stalinismo. Accanto alle associazioni culturali volte alla conservazione delle tradizioni, della musica, del folclore, sono nati dagli anni 90 diversi circoli il cui scopo dichiarato è rifondare antiche comunità cosacche del periodo zarista, caratterizzate però da forti tendenze scioviniste e xenofobe. E con le ultime leggi i cosacchi attuali (ridotti a circa mezzo milione) possono essere nuovamente integrati nell’esercito russo.




I Cosacchi più famosi:

Ermak Timofeevic: Condottiero delle truppe Cosacche al servizio dello zar che invasero il Khanato di Sibir, tra il 1579 e il 1585. La sua campagna diede inizio all’espansione russa in Siberia. Morì il 6 agosto 1585, in un’incursione tartara nel suo accampamento . La sua vita avventurosa fu fonte d’ispirazione per canzoni, poemi epici e dipinti.
Ivan Sirko (1610-1680). Atamano dello Zaporoze (Ucraina), si dice appartenesse al gruppo degli sciamani cosacchi, cui si attribuiva il dono della preveggenza, il potere di fermare le pallottole e curare le ferite; si dice anche che conoscessero l’ipnosi.
Stenka Razin:  (1630-1671). Membro della comunità dei Cosacchi del Volga, guidò la rivolta contro lo Zar Alessio I. Proclamò la repubblica cosacca in cui furono aboliti i privilegi e la schiavitù. Organizzò un esercito popolare ed estese la rivolta alle regioni settentrionali della Russia. Nel 1671 fu tradito e consegnato alle forze dello zar, che lo giustiziarono pubblicamente dopo averlo torturato.
Ivan Mazeppa (1645-1709). Atamano cosacco che si schierò dalla parte degli svedesi di Carlo XII contro lo zar Pietro il Grande , in occasione della guerra fra il regno scandinavo e la Russia.
Emeljan Pugacev (1740-1775). Falso pretendente al trono russo (sosteneva di essere il defunto zar Pietro III) e istigatore di un’insurrezione contadina contro Caterina II, durante la quale si proclamò lui stesso Zar.

L’atamano  (dal turco ata, “padre”) era il loro capo. Era eletto ogni anno tra tutti, democraticamente.

San Basilio

Di nobile famiglia da cui aveva ricevuto una solida formazione cristiana, san Basilio (330 ca 379), perfezionò gli studi a Costantinopoli e ad Atene, fu attirato dall'ideale monastico e, dopo avere rinunziato ai propri beni, si dedicò alla vita ascetica e all'esercizio della carità.
Basilio, definito il padre del monachesimo orientale, grazie anche ai suoi scritti teologici e ascetici, fu un "equilibratore" del monachesimo del suo tempo. Egli condusse il monachesimo all'affermazione del pieno cenobitismo (parola che in greco significa "comune" e "vita" vita comune) con l'apertura delle "fraternità", concepite come cellule stesse della chiesa, alla vita ecclesiale e alla comunità civile. Per lui la comunità era l'espressione dell'unità della vocazione cristiana e dell'unità ecclesiale ma anche il compimento della naturale socialità dell'uomo.
Nel 370 fu ordinato vescovo di Cesarea di Cappadocia dove si adoprò  per ricomporre le divisioni all'interno della chiesa e per ridonare ad essa il volto delle comunità apostoliche con l'impegno a favore dei più poveri testimoniato  anche dalla costituzione di una città denominata "Basiliade".
Fu inoltre un sapiente  riformatore liturgico e formulatore della dottrina trinitaria. Ebbe una cura particolare per i giovani e con grande equilibrio gli consigliava di attingere, nel perseguire la verità, anche alla cultura pagana con la celebre immagine delle api che colgono dai fiori solo ciò che è necessario per il miele.

Tiziana M. Di Blasio storica della chiesa



================================================
Madre Serafina Formai:
La serva di Dio Madre Serafina Formai naque il 28 agosto 1876 a Cascina Petrosa, Massa Carrara. Letizia, questo il nome di battesimo, cresceva piena di amore per Dio e con una forte devozione alla Vergine Maria. All'età di 19 anni entrò nella congregazione delle suore Calasanziane, ma per motivi di salute, ritornò in famiglia. Sentì forte l'impulso di fondare una Congregazione che annunciasse "il Lieto Messaggio" di Cristo agli esclusi, a quelli che non contano, in particolare negli ambienti rurali. Così nel 1932 diede inizio alla Congregazione delle Suore Missionarie del Lieto Messaggio. Morì il 1 giugno 1954. E' in corso il processo di beatificazione. Sono presenti in terra di missione a Wantiguera Centroafricana.
Suore Missionarie del Lieto Messaggio via Madonna del Buon Consiglio 1 54027 Pontremoli (MS)

martedì 4 ottobre 2011

La dura lotta per la sopravvivenza (Indiani d'America)

L’uomo bianco ha ucciso i guerrieri indiani, rubato le loro terre, violentato la loro anima. E non è finita. Le foreste muoiono, i salmoni scompaiono. Ecco perché Jim Hart, artista e capo tribù, non scolpisce più i suoi totem nel legno

La mano che mi si abbatte sulla spalla ha dita come rami di un albero centenario. Ondeggio in avanti sorridendo. Non ho bisogno di girarmi per sapere chi sta dietro alla botta improvvisa. È il capo appena eletto del clan dell’Aquila della tribù degli Haida: Jim Hart. Siamo a Masset, la capitale di Haida Gwaii (Haida Nation), nella zona settentrionale delle Isole della Regina Carlotta, al largo della costa dell’Alaska. È una notte calma e senza luna. Davanti a noi, piantato nella spiaggia, c’è il totem scolpito da Jim per la sua cerimonia d’investitura. È stato eretto a mano, usando corde tirate da tutto il villaggio. Ci sono volute sette ore. Al mattino una breve cerimonia, davanti alla tomba di Chief Edenshaw, lo zio a cui Jim succede come capo, ha dato inizio alle festività. Gli Haida sono governati da due clan: l’Aquila e il Corvo. Le loro politiche sono diverse quanto sono differenti i due volatili.

«Di alberi così ne sono rimasti pochi», mi dice rompendo il silenzio. «La lotta contro il disboscamento l’abbiamo vinta troppo tardi, adesso, quando chiedo a un albero il permesso di farlo diventare un totem, mi risponde che non ha più fratelli, che la foresta è giovane e senza storia. Ha ragione, un albero di 300 anni ha mille leggende da raccontare, è l’anima della foresta». Qualche giorno prima, sorvolando la costa canadese e le isole, avevo visto con i miei occhi lo scempio della deforestazione. Immense macchie aride come crateri di bombe in mezzo al verde. Non commento. In qualche modo mi sento colpevole. Sono l’Uomo Bianco. Che mi piaccia o no. La mia eredità è di distruttore indiscriminato. Nemico della natura. Dai Nativi di queste terre avevamo tanto da imparare. Invece, abbiamo preteso di insegnargli tutto noi. Ora i governi risarciscono e si pentono delle malefatte, ma parliamoci chiaro: le vite umane e le foreste si possono risarcire, ma non restituire. «Ho deciso di non tagliare più alberi», riprende Jim. «D’ora in poi scolpirò totem solo di bronzo. E spero che questo sia un messaggio chiaro».

Qualche anno dopo a New York. Sono le undici di sera, sto bussando alla porta del Museo di Storia Naturale che ovviamente è chiuso. Mi apre una guardia assonnata e fa cenno di entrare. Seduto di fianco allo scheletro di un dinosauro, Jim è intento a osservare la sua scultura di bronzo dei Tre Guardiani Haida. La sera dopo s’inaugura una nuova sezione del museo dedicata ai Nativi della costa occidentale del Canada. Le opere di Jim sono le protagoniste. L’ultimo totem non è ancora finito e gli do una mano. Mi taglio subito un dito e penso a tutte le gocce di sangue che ho lasciato, a diverse riprese, nelle sculture di Jim. «Ho appena parlato con mia madre, non riescono più a trovare i salmoni. Dice che l’acqua è troppo calda e le correnti sono cambiate. Nessuno sa dove siano andati. Questo, per noi, è un problema. Smettila di sanguinarmi sul totem». Sono sparite anche le api - rispondo io - nessuno ci capisce più niente. Vado in bagno a fasciarmi il dito con la carta igienica.
Devo salire un piano e percorrere i corridoi semibui del museo. La storia dell’uomo e della natura mi sfila di fianco come le pagine di un libro sfogliate rapidamente. Mi fermo davanti alla ricostruzione della vita degli uomini primitivi. La scoperta del fuoco. Un uomo tiene una torcia accesa verso il cielo come una sfida. Scavarsi un posto dentro una natura violenta ed esuberante. Sopravvivere e poi vincere una sfida invincibile. Siamo ancora così: due stracci addosso e un pianeta che può spazzarci via con uno scrollone. Questi incontri con Jim mi deprimono. Ho voglia di uscire, mangiare un Big Mac, bere una bibita chimica, buttare la carta per terra e addormentarmi guardando un programma stupido. I simboli della mia civiltà. Torno da Jim e da lontano mi sembra così sereno, così vicino agli uomini primordiali, così in armonia con il pianeta. Sono le tre del mattino. Il totem e la sua storia scolpita sono finiti. Usciamo nella notte fresca e camminiamo lentamente verso casa.

«Tutto questo cemento», dice alzando gli occhi. «Come si fa a leggere il cielo, a sentire il vento, ad ascoltare gli spiriti. Più divento vecchio e più mi preoccupo. Non si può tornare indietro. Possiamo solo tentare di cucire le ferite per arginare questa emorragia ecologica. Ma le cicatrici rimarranno per sempre».

Marzo 2011. Fonderia nello Stato di New York. Jim e suo figlio Carl stanno lavorando ai calchi di cera per una serie di aquile in bronzo. Questa è una delle fonderie preferite di Frank Stella. Jim l’ha conosciuto e si sono scambiati opinioni sulle tecniche reciproche. Jim rifinisce alcuni dettagli delle piume canticchiando una canzone Haida che racconta come il Corvo rubò la luce liberando il mondo dall’oscurità. Usciamo insieme a mangiare un panino. Il cielo è terso e fa freddo. Le opere di Frank Stella sono disseminate un po’ ovunque. Contorte, sofferte, come prigioniere di un tragico destino.
«Ieri ero a Manhattan e ho guardato fuori dalla finestra», dice Jim, tracciando un segno col braccio. «Sembrava una scultura gigante di Frank. Tutto questo dolore, il metallo bruciato e contorto. Le forme che ritornano dentro se stesse senza mai liberarsi. Questi sono i messaggi premonitori degli artisti. Che cosa vuoi che ti dica della mia gente? Ci arrangiamo, tra l’alcolismo e la povertà. Il primo regalo che ci ha fatto la civiltà sono state coperte impregnate di vaiolo: da ventimila siamo rimasti in 600. Questo è terrorismo biologico. Poi ci hanno portato via i bambini per sradicarli dalla cultura tribale. Hanno tagliato il 70 per cento delle nostre foreste. Pescato il nostro pesce fino a esaurimento. Usato le nostre riserve di acqua. Montagne di rifiuti che le correnti portano dal Giappone, arrivano sulle nostre spiagge. Ora saranno anche radioattivi. Che cosa vuoi che ti dica della mia gente?».

Un corvo passa gracchiando nel cielo. Jim e io sorridiamo. I corvi portano sempre un messaggio. Si torna a lavorare. Nella fonderia le aquile di bronzo vegliano severe.


Riflessioni:
Un grande popolo distrutto dall'ingordigia umana del profitto. E' più importante il profitto o l'uomo? Evidentemente per chi ha governato gli Stati Uniti d'America la vita umana non conta, ma contano quanti capitali si guadagnano. L'essere umano sa essere veramente spregevole. Sono riusciti a sterminare un grande popolo che chiedeva solamente di vivere in pace sulla loro terra.... Un giorno verrà la resa dei conti ed allora il popolo rosso avrà la sua rivincita......
Evy