geronimo

giovedì 28 aprile 2011

Le Porticine per il Vino

Le Porticine per il Vino  (12)
Camminando per le strade di Firenze si possono incontrare lungo i muri degli antichi palazzi patrizi delle piccole finestre che hanno la forma “ad arco” tipica dei portoni fiorentini; alcuni conservano l’originale porticina  di legno, altre sono state murate, comunque sia rappresentano una caratteristica architettonica unica rispetto alle altre città italiane.
Si tratta delle finestrelle attraverso le quali avveniva la mescita del vino, la cui produzione veniva effettuata per uso privato da parte delle antiche famiglie notabili, proprietarie di vasti appezzamenti di terreno al di fuori delle mura delle città.
Le eccedenze del vino venivano messe a disposizione di chi ne facesse richiesta e la mescita veniva effettuata, per espresso volere della Signoria , esclusivamente attraverso quelle porticine.
La più singolare tra tutte queste porticine è certamente quella che si trova in via Delle Belle Donne, all’angolo con via della Spada, sulla cui estremità si può leggere la seguente iscrizione: “ La cantina resta aperta alla vendita dal primo novembre a tutto aprile dalle ore 9 ant. Alle ore due pom. E dalle ore 5 alle ore 8 pom., dal primo maggio a tutt’ottobre dalle ore 8 ant. Alle 3 pom. E dalle 6 alle ore 9 pom., nei giorni festivi resta aperta alla vendita fino a ore 3 pomeridiane”.

domenica 10 aprile 2011

"IL BUON SAMARITANO"

“IL BUON SAMARITANO”

Oggi 10 aprile 2011 si è svolto nella chiesa di San Biagio a Petriolo la solenne vestizione dei nuovi confratelli della Fraternita di Misericordia San Martino Firenze Ovest di Brozzi. Uno dei nuovi confratelli ero io, e posso testimoniare che è stata una cerimonia emozionante. La chiesa era gremita, ed il parroco Don Gilbert Shahzad è stato un ottimo direttore d’orchestra: ha saputo ,sinceramente, entrare nei nostri cuori.
Oggi si celebra anche  il XXIII anniversario della nascita della Confraternita di Misericordia San Martino FI- Ovest di Brozzi.
Dopo un anno di intenso servizio fatto come volontario presso questa misericordia, posso testimoniare che quanto ho potuto fare nei confronti di chi ha bisogno, è niente di fronte a quanto i bisognosi hanno saputo dare a me.
Questa è stata un’esperienza incredibile, che mai avrei potuto immaginare. Invito tutti a fare volontariato, va bene qualsiasi associazione, perché le persone che hanno bisogno sono davvero tante.
Purtroppo c’è tanta sofferenza nelle persone, la società in cui viviamo non si rende conto di quanto bisogno esiste  nelle persone.
 Si parla di andare a bombardare con aerei popolazioni della Libia per affermare la libertà e la democrazia, nonché salvaguardare le popolazioni che si sono ribellate ai vari regimi. Queste sono cose fuori da ogni logica e fuori dal mondo. Non vi fate ingannare da quanto vi dicono i nostri governanti, in quanto la vera salvaguardia della dignità umana dobbiamo farla in Italia, perché ci sono innumerevoli persone che soffrono, che vivono, o meglio sopravvivono,  con poco più di 500 euro al mese. Questa è la vera guerra da combattere nella nostra società.
Il male della nostra società si chiama SOLITUDINE, che non vuole dire essere soli. In tante famiglie, specialmente gli anziani, pur avendo i figli, sono rimasti soli. La cosa meravigliosa è che queste persone ci dicono: sapete i nostri figli purtroppo sono troppo impegnati, devono lavorare, come possono pensare a noi, poverini c’è da capirli!!!
Questa è la società ingiusta in cui viviamo, dove l’edonismo e il Dio denaro a preso il posto della solidarietà. Meno male che ci sono numerose associazioni di volontariato che cercano di rimediare ai danni effettuati dai nostri politici, sono sempre a litigare per il potere, perdendo di vista quali sono le necessità di questo bellissimo paese in cui viviamo.
Rivolgo un invito a chi leggerà questo post, fate volontariato, dedicate una piccola parte del vostro tempo libero agli altri, e Dio ve ne renderà merito!
Io credo sinceramente nell’amore come l’unico sentimento che possa risolvere tutti i problemi di questo mondo, e termino con un precetto che io ritengo fondamentale per costruire una società più giusta e più solidale con il prossimo.
Questo precetto è tratto dal vangelo di Luca, e così riferisce:
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona , pigiata, colma  e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate , sarà misurato a voi in cambio.
Gesù, disse loro una parabola : “ Può forse un cieco guidare un altro cieco?  Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro ; ma ognuno , che sia ben preparato , sarà come il suo maestro”
Perché guardi la pagliuzza  che è nell’occhio del tuo fratello  e non ti accorgi della trave  che è nel tuo occhio?  Come puoi dire al tuo fratello : “ Fratello lascia che io tolga la pagliuzza  che è nel tuo occhio “, mentre tu stesso  non vedi la trave  che è nel tuo occhio ? Ipocrita ! Togli prima  la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per toglier e la pagliuzza dell’occhio del tuo fratello.
Quanto sopra scritto vuole essere una riflessione per tutti noi, che ci possa servire per intraprendere nuove vie al servizio del prossimo. Cioè l’esempio datoci dal Buon Samaritano!!!!!

Evy

venerdì 8 aprile 2011

SACAGAWEA

SACAGAWEA

Sacagawea : (donna uccello) della tribù Shochoni , nata nell’anno 1786 circa sull’alto corso del Salmon River, stato Idaho, morta il 9 aprile 1884 a Fort Washakie, Wyoming.
Dicevano di lei: Era intelligente, gioiosa, svelta, conosceva sempre ogni espediente ed era cara e preziosa come oro (diario di Lewis e Clark)

La vicenda di Sacagawea ebbe inizio quando era una ragazzina di soli dodici anni. Era accaduto che, mentre ella accompagnava la sua tribù alla caccia al bisonte, guerrieri dei Piedi Neri l’avessero rapita . Dopo essere stata con i Piedi Neri, Sacagawea venne venduta come schiava agli Hidatsa. . All’età di quattordici anni venne rivenduta dagli Hidatza a un uomo dei boschi franco-canadese, Toussaint Charbonneau, che viveva insieme a quella tribù, e Sacagawea divenne così sua moglie.
Nel 1805 Charbonneau venne assunto da  i capitani Lewis e Clark, in qualità di interprete, durante i preparativi che si stavano facendo per la loro spedizione. I due, in questo modo, vennero a conoscere anche Sacagawea, che si dimostrò, nel corso del viaggio, persona di valore, essenziale per la spedizione quanto suo marito.
Sacagawea fu estremamente importante per i capitani Lewis e Clark. Conosceva i territori di caccia della sua tribù a est e a ovest del passo Lemhi, ma anche i territori fino a Three Forks, che aveva imparato a conoscere fin da bambina quando vi si recava tutti gli anni con la sua tribù per la caccia al bisonte. Era proprio da Three Forks che Sacagawea era stata portata via dagli Hidatsa  e condotta al loro villaggio sul fiume Missuori.
Charbonneau aveva spesso partecipato con lei alla caccia del bisonte nella striscia di terra a ovest del Missouri, e insieme alla moglie andava ogni anno  a visitare almeno una volta , il punto commerciale britannico sull’Assiniboin River. Lewis e Clark si resero subito conto che per la loro impresa ardimentosa avevano un’assoluta necessità di cavalli. Trovarne in gran numero era possibile  soltanto presso la tribù indiana degli Shoshoni . Per questo fu ovvio quanto sarebbe riuscito utile l’impiego di Sacagawea come interprete e mediatrice.Inoltre la donna era anche una garanzia per rapporti pacifici con gli Shoshoni . Ed ella era perfettamente in grado di eseguire tutti quei lavori che le competevano  come moglie: fabbricava  indumenti, utilizzando pelli , sapeva preparare mocassini  e si dava sempre un gran daffare . In più si occupava  con grande impegno, anche durante il viaggio, del suo bambino “Pomp” di soli due mesi, che era diventato il pupillo di quei rozzi uomini. Il 7 aprile 1805 si trova scritto nel giornale della spedizione:
-          La donna di Charbonneau ci accompagna con il suo bambino ancora piccolo; speriamo che ci possa essere utile come interprete per gli Snake.
Si afferma spesso che Sacagawea avrebbe condotto Lewis e Clark attraverso le montagne Rocciose. Ma pare eccessivo, perché le sue conoscenze del territorio non si spingevano fino a tanto. Ella fu certo utile alla spedizione, invece, per quanto riguarda il passo Lemhi e per i sentieri di montagna di quelle zone.
Lewis e Clark alzarono un autentico canto di lode a sacagawea, che si era resa più volte preziosa per la riuscita della spedizione.
Quando Charbonneau, poco pratico con i corsi d’acqua, rovesciò la barca, fu infatti proprio sua moglie che con grande coraggio riuscì a mettere in salvo il prezioso carico con i campioni raccolti. Al di sopra delle grandi cascate del Missouri il viaggio si fece poi sempre più arduo e difficile. Sacagawea si ammalò gravemente e, per darle un po’ di sollievo   , la si condusse presso le vicine sorgenti sulfuree. Durante quella sosta, che durò più di quattro settimane, dal 15 giugno fino al 16 luglio, gli uomini stabilirono di muoversi con le barche e di trasportare, contro corrente, per quasi trenta chilometri e con grande fatica , l’equipaggiamento in dotazione.
Il 10 agosto essi raggiunsero finalmente lo spartiacque tra il Golfo del Messico e l’Oceano Pacifico. Fu a quel punto del viaggio che si imbatterono in un villaggio Shoshone, al quale si avvicinarono lasciando sventolare la bandiera americana. La diffidenza degli Shoshoni, che temevano un assalto da parte dei loro nemici secolari, i Piedi Neri,scomparve del tutto quando riconobbero in Sacagawea una donna appartenente alla loro tribù. Si scoprì che il fratello di Sacagawea, Cameahwait, era proprio un abitante di quel villaggio. Per Lewiz e Clark non c’erano più difficoltà: avrebbero avuto cavalli a sufficienza.
Gli Shoshoni si mostrarono quanto mai ospitali e amichevoli con i nuovi arrivati. Offrirono loro, tra l’altro, anche salmone arrosto e questo fu per Lewis e Clark un chiaro segno del fatto che era stato raggiunto lo spartiacque, giacché i salmoni possono risalire la corrente solo dal versante  dell’Oceano Pacifico. Tuttavia il fiume “ dei salmoni” non risultò praticabile. Non vi si potevano usare né le barche né le canoe. Gli Shoshoni aiutarono allora Lewis e Clark a percorrere un’altra strada, per via di terra.
Il 12 settembre Lewis e Clark attraversarono il Passo Lolo; dieci giorni più tardi arrivarono ai villaggi Nez Percè, dove vennero nuovamente accolti con molta cordialità. Navigando per lo Snake River e il Columbia River, i due esploratori giunsero finalmente, il 15 novembre 1805, alla loro meta: davanti a loro si apriva l’Oceano Pacifico.
In una casamatta, che divenne poi Fort Clatsop, si trascorse l’inverno e in primavera si iniziò il viaggio di ritorno. Fu ancora una volta Sacagawea a guidare la spedizione attraverso i passi di montagna quasi impraticabili. In seguito, la pubblicazione del resoconto di viaggio di lewis e Clark contribuì a rendere popolare quell’indiana dai costumi tanto semplici.
-          Fu sempre insieme con il piccolo figlio ancora lattante. Viaggiò con noi uomini. Ci condusse, sicura della meta, attraverso passi di montagna e terre desolate; era intelligente , gioiosa, svelta, conosceva sempre ogni espediente ed era cara e preziosa come oro; fu lei a trascinare tutti noi.
Dopo la conclusione della spedizione, la donna si separò da Charbonneau e rimase con suo figlio presso gli Shoshoni in Wyoming e sposò quindi un Comanche, con il quale visse fino alla morte di questo. In seguito sposò un francese, che però rimase quasi subito ucciso. Fu Clark, allora, che si occupò del figlio di lei Baptiste, al quale intanto era stato reso possibile frequentare la scuola di S. Louis. Negli anni 1822 al 1824 il duca Paul Wilhelm von Wuttemberg, l’ardimentoso esploratore, intraprese il suo primo viaggio in America settentrionale. In quell’occasione decise di adottare Baptiste e lo portò quindi con se a Wuttemberg. Nel suo secondo viaggio, nel 1829, si fece accompagnare dal giovane fino all’alto Missori. Nel 1830, quando ormai aveva venticinque anni, anche Baptiste  fece ritorno alla sua tribù d’origine.
Nel 1871 Baptiste portò  sua madre fino alla neo costituita riserva degli Shoshoni, dove si prese cura di lei fino al giorno della sua morte, avvenuta nell’anno 1884. Solo un anno più tardi morì anche Baptiste.
Il parco Sacagawea, uno dei campi della spedizione di Lewis e Clark, che sorge alla confluenza dello Snake River nel Columbia River, è un tributo alla memoria della più famosa tra le donne indiane dell’America settentrionale, dopo Pocahontas.
Col nome di suo figlio “Pomp” fu battezzato il celebre Pompey’s Pillar, una grande roccia, sulla quale, nel corso degli anni, sono stati incisi numerosi nomi e messaggi, anche in caratteri pittografici indiani.
Nell’Estate del 1905, cento anni dopo la formidabile impresa di lewis e Clark, venne ulteriormente celebrata la popolare donna indiana. In suo onore, infatti, venne eretta una statua di bronzo a City Park a Portland, Oregon.
Se Sacagawea è stata anche spesso idealizzata e, in parte, anche romanzata, ha in ogni caso incarnato l’emblema della donna indiana, semplice e diligente.
Aveva trascorso gli ultimi dieci anni della sua vita presso un gruppo di Shoshoni, noto anche come Washakie’s Band. Condottiero di questo gruppo era Washakie, un capo che per tutta la vita si mantenne amico degli americani, che sostenne con determinazione. Si comprende come egli sia alla fine assurto, per gli americani, a immagine ideale del “buon” indiano.

GO-KHLA-YEN

APACHE
( Gokhlayeh )

GO-KHLA-YEN)  nato in Arizzona nel 1929, chiamato Geronimo dai suoi nemici Messicani, è sicuramente il più famoso capo pellerossa. Dopo una vita spesa a combattere i messicani e bianchi, fu deportato con i resti della sua tribù, in una riserva militare in Oklahoma dove morì nel 1909.

Geronimo non è mai stato un capo tribù ma piuttosto  il più grande capo di guerra degli Apache Chiricahua. Da alcuni libri si evince che gli Apache erano la più aggressiva tribù indiana, votata alla guerra. Dentro una più grande ed armoniosa idea della natura, è vero che però prevede il conflitto da sempre fino dal mito e dalla religione. Le continue razzie e uccisioni di Geronimo sono narrate ,da lui stesso, con assoluta tranquillità; per lui erano del tutto naturali. Gli Apache straordinari guerrieri e cavalieri marciatori in grado di percorrere a piedi per chilometri con la bocca piena d’acqua senza né inghiottire né fare uscire una goccia, erano nomadi abituati ad appropriarsi, nei loro immensi territori, di tutto ciò che la natura metteva loro a disposizione; però solo e sempre a seconda delle necessità, senza sprecare nulla, in accordo con un ciclo naturale divenuto ormai un perfetto mistero per noi, cittadini di un mondo stanziale abituati all’idea di possedere e accumulo di beni e alla recinzione di terreni e case.
Al contatto con i coloni bianchi, una civiltà ancora più aggressiva di agricoltori e allevatori affamata di terra e fondata sulla proprietà privata , la tragedia era inevitabile; il razziatore, colui che usa i beni della natura liberamente secondo le proprie necessità, diventa un bandito, un criminale.E’ innescata la spirale delle vendette, e alla vendetta degli indiani segue il loro sterminio.
La presunta civiltà civile non si è voluta convincere della ragione degli indiani, un popolo alla ricerca delle proprie origini e della propria felicità in armonia con tutta la natura esistente nei loro territori. La civiltà civile si è insediata violentemente in quei territori, che non gli appartenevano, ed hanno distrutto tutto ciò che gli impediva di lucrare e di appropriarsi delle terre che rendevano denaro. Naturalmente hanno imposto le proprie leggi incuranti che su quelle terre esistessero, da molti anni prima del loro arrivo, un popolo di Pellerossa che aveva le proprie leggi ed usanze. Questo modo di fare viene denunciato oggi come appropriazione indebita e violazione di domicilio. Quindi i cosiddetti civilizzanti uomini bianchi dovrebbero se pur in ritardo riconoscere i loro crimini verso un popolo di Pellerossa, fatti oggetto di barbarie e stermini in nome della civiltà. Mi domando chi erano gli incivili?, mi domando chi erano i le persone aggressive?. I numerosi film in cui hanno fato apparire gli indiani d’America come selvaggi e assassini, oggi rimane solamente propaganda a cui solamente persone guerrafondaie riescono a crederci.
Geronimo fu uno degli ultimi capo guerrieri che si arresero all’uomo bianco , ed applicò contro di loro la tattica detta del  mordi e fuggi (oggi leggasi guerriglia) che gli permise di tenere sotto smacco sia l’esercito Messicano che il più potente esercito degli Stati Uniti d’America.
In un libro dove viene narrata la storia auto biografica di Geronimo vi si legge che nell’estate del 1858 mentre la tribù degli Apache viveva in pace con il Messico , si spostò nel sud di questo paese per commerciare. Qui vennero attaccati dall’esercito messicano  e furono uccisi numerosi indiani compreso donne e bambini. Fra queste Geronimo perse la madre, la moglie, ed i tre figli.
Da questo episodio Geronimo cominciò la sua vendetta verso i messicani e l’uomo bianco fino alla resa avvenuta nel 1866 nelle mani del generale Miles. In quel momento finiva il mondo degli Apache Chiricahua. Gli Apaches furono caricati su un treno per la Florida, a raggiungere altri deportati, La tribù passò 10 anni in Florida e nell’Alabama, decimata dal clima ostile, addomesticata, sfiancata. Poi i superstiti furono trasferiti in un quadratino di terra nella riserva militare di Fort Sill, Oklahoma. Geronimo ridivenne contadino, tornò a coltivare le sue angurie. Morì all’interno di una riserva indiana il 17 febbraio1909.

La Croce del Trebbio

La Croce al Trebbio
Nella piazzetta del Trebbio si trova una colonna trecentesca ingentilita con una elegante croce e con un altrettanto raffinato tettuccio.
Il termine Trebbio deriva dal latino “ trivium”; quel luogo infatti si trovava appena fuori di una porta secondaria delle mura romane e da quella postierla  si dipartivano tre strade, da cui il nome “trivium” .
Le tre strade esistono ancora oggi e si dirigono rispettivamente verso santa Maria Novella, verso la chiesa di Ognissanti e verso San Lorenzo.
Il luogo, proprio per la sua particolare ubicazione (tre strade appena fuori le mura), rappresentava un punto di intenso passaggio di mercanti ma anche un luogo di sosta e di incontro tra piccoli truffatori, perdigiorno, prostitute e imbroglioni, dove spesso si faceva  turpiloquio e si tenevano atteggiamenti poco edificanti.
Per questo motivo il termine “trivio” o “ triviale” viene usato ancora oggi per indicare qualcosa di rozzo, volgare e villano, esattamente come doveva apparire allora il trivium.
La colonna, probabilmente di scuola pisana, venne innalzata in ricordo di una sanguinosa battaglia che si svolse nel 1244 nella piazzetta del Trivio e nei vicoli adiacenti.
In quell’occasione divampò una feroce guerriglia in difesa della fede tra i cattolici di San Pietro martire e gli eretici appartenenti a sette dei Manichei e dei Catari.
La battaglia fu violenta e sanguinosa ma alla fine i cattolici ebbero la meglio e cacciarono definitivamente da Firenze le orde degli eretici che stavano minacciando la pace della città.

giovedì 7 aprile 2011

Il Palio dei Cocchi

Il Palio  dei  Cocchi (10)
In piazza Santa Maria Novella si correva il 23 giugno di ogni anno, vigilia della festa di San Giovanni, patrono della città, il Palio dei Cocchi.
Cosimo I dé Medici volle istituire nel 1563 questa corsa di carri e cavalli per emulare i fasti delle mitiche corse delle bighe che si svolgevano  a Roma nel circo Massimo. A quell’epoca si sfidavano ad ogni corsa quattro bighe (due cavalli) o quadrighe (quattro cavalli), ognuna con un colore diverso (rosso, bianco, verde e azzurro), con ciascun auriga, vestito dello stesso colore del carro, che guidava i cavalli bardati ognuno con il proprio colore e gli antichi romani che scommettevano su un colore o sull’altro.
Volendo riproporre quasi fedelmente quelle antiche corse , anche il Palio fiorentino si componeva di quattro carri, i Cocchi appunto, ogni carro rappresentava un quartiere della città ed ognuno era contrassegnato con un colore diverso: il rosso per Santa maria Novella, il bianco per santo Spirito, il verde per San Giovanni e l’azzurro per Santa Croce.
Si ripresentavano i medesimi colori e quartieri del calcio storico. Ogni cocchiere era vestito con i colori del proprio quartiere ed ogni cocchio era a sua volta trainato da quattro cavalli con le briglie, i finimenti ed i pennacchi del rispettivo colore.
Come a Roma, anche a Firenze la corsa consisteva nel percorrere nel più breve tempo possibile tre giri della piazza girando intorno a due alti obelischi di legno e ritornando al punto di partenza.
Si tratta di un classico Palio “ alla tonda”, come quello di Siena; la carriera veniva infatti percorsa diverse volte in uno stesso circuito delimitato dalla piazza .
La mossa (partenza) veniva data direttamente dal Granduca Cosimo I che sventolava un fazzoletto bianco; il Granduca con tutta la corte assisteva all’evento da un terrazzino, ancora oggi ben conservato, che si trovava sotto il loggiato dell’Ospedale San Paolo, posto dalla parte opposta della chiesa.
Diverso era invece il Palio “alla lunga” che si effettuava a Firenze con i cavalli scossi, cioè senza fantino. Le mosse venivano date sul ponte che si trovava subito al di fuori di Porta al prato e che, per questo motivo, prese il nome di “Ponte alla Mosse”; i cavalli percorrevano al galoppo sfrenato le vie del centro in piena corsa (da cui il nome della strada “Corso”) ed arrivavano fino all’arco di San Piero , quasi dall’altra parte della città, dove era allestito l’arrivo.
Solo diversi anni dopo, il nuovo Gran Duca Ferdinando I dé Medici decise di sostituire i vecchi obelischi di legno con dei nuovi di marmo e volle altresì che gli stessi poggiassero ognuno su quattro tartarughe in bronzo, opera del Gianbologna, che rappresentavano la sua “insegna” personale, significando la pazienza, la forza e la tenacia del popolo toscano.

lunedì 4 aprile 2011

Misericodia di Firenze

                            La Misericordia di Firenze la più antica Misericordia d'Italia
Dalla confraternita madre fiorentina hanno preso vita molte altre associazioni di volontari del soccorso, sul modello evangelico del Buon Samaritano. Dal duecento ad oggi un prodigioso bilancio di lotta contro ogni sofferenza.
La data di nascita della Misericordia di Firenze si legge in un codice scritto nel 1361 e tuttora conservato risulta esere il 1240, ossia, in cifre romane come si usava allora il MCCXL. Ma non è esatta: il tempo o l'acqua hanno cancellato due altre cifre, e la data giusta è MCCXLIV, cioè 1244. Poca differenza, comunque: sono sempre sette secoli e mezzo di vita ininterrotta, fino ad oggi. E che vita: tra decine di pestilenze, carestie, colera, tifo, febbre spagnola, inondazioni, bombardamenti, per parlare solo delle grandi disgrazie collettive. Ma ci sono sette secoli e mezzo di soccorso anche singolo, alla famiglia, accorrendo prima a piedi e ora con le ambulanze attrezzate, sempre per onorae l'impegno all'imitazione di Cristo, nel suo atteggiamento verso ogni sofferenza: la misericordia.
Semre dagli iscritti del 1361 risulta che questa confraternita " fu detta e cominciata per lo beato Messer Pietro Martire dell'Ordine dei Predicatori".
E' questi Pietro da Verona, detto Martire perché assassinato nel 1252 a Barlassina, tra Milano e Como, in un agguato di catari e ghibellini, tipico di quell'epoca fitta di conflitti politico religiosi a mano armata.
E pare che il suo assassino si sia poi convertito, facendosi a sua volta domenicano.
La Misericordia di Firenze nasce dunque, come moltissime altre associazioni laicali di quei secoli, a seguito di una campagna di predicazione, in un clima di risveglio religioso e di stimolo all'iniziativa dei laici. Da esa prendono poi vita le Fraternite della Misericordia di Toscana e di altre regioni, sicché quella fiorentina, col titolo di " Arciconfraternita ", è considerata la madre di tutte le Misericordie d'Italia.

domenica 3 aprile 2011

Il Buco Fasullo

Il Buco Fasullo

Nella Chiesa di Santa Maria Novella, alla destra dell’altare maggiore, c’è la Cappella degli Strozzi  dove si può ammirare una delle ultime opere di Filippo Lippi, affrescata nel 1503.
Filippo Strozzi commissionò il lavoro all’artista che volle rappresentare un momento della vita di San Filippo e di San Giovanni l’Evangelista.
Sul muro di destra si può ammirare San Filippo che esorcizza il diavolo, sotto le sembianze di un dragone sporco e puzzolente, che emana un odore talmente nauseabondo da far morire il figlio del re, poi puntualmente resuscitato dallo stesso San Filippo.
La nota caratteristica è che il diavolo-dragone esce da una fessura apertasi in uno dei gradini dell’altare maggiore, lasciando intravedere una cavità dipinta dall’autore con una magistrale verosimiglianza, ed è proprio questa fessura la protagonista di questa storia.
Durante la lavorazione dell’opera infatti, Filippo Lippi si serviva del lavoro di alcuni allievi della sua bottega per la preparazione dei colori e dell’impasto dell’intonaco che precedeva la pittura “a fresco”.
Come tutti i pittori dell’epoca anche Filippino, durante la lavorazione, era gelosissimo delle proprie opere tanto da coprirle con dei grandi teli di canapa o di cotone per preservare i colori dagli sbalzi di temperatura e di umidità notturni ma soprattutto per evitare gli sguardi inopportuni da parte dei soliti curiosi.
Le opere infatti non dovevano essere mostrate al pubblico fino a che non fossero state ultimate e solamente i ragazzi di bottega avevano il permesso di stazionare liberamente nei paraggi durante i lavori di preparazione.
Filippino era solito ripagare la collaborazione di questi giovani artisti alla fine di ogni giornata con un soldo di paga e quello era sicuramente il momento più atteso da parte dei suoi allievi.
Ma un giorno uno degli allievi si ammalò; una banale influenza che però rischiava di far perdere al ragazzo la “ paga” settimanale.
Il giovane pensò allora di farsi sostituire dal fratellino più piccolo e gli spiegò tutto quello che avrebbe dovuto fare al suo posto: come sciogliere i colori, come impastare l’intonaco, come ripulire i pennelli, ma soprattutto quello che non avrebbe dovuta fare: niente disordine, niente confusione,non mangiare sul posto di lavoro, non danneggiare in alcun modo l’opera; il Maestro era severissimo a questo riguardo, un vero professionista.
Fu una lezione “in tempi brevissimi”, il piccolo ascoltò in gran silenzio e con attenzione tutte le raccomandazioni del fratello, del resto fino a quel momento non sapeva neanche che cosa fosse un pennello o una ciottola di colore.
La mattina seguente il giovane si presentò di buon’ora in Santa Maria Novella piuttosto impacciato e timido mentre Filippo Lippi era talmente assorto nella pittura che non si era neppure accorto di lui.
Una mattina il Maestro non si presentò al lavoro, alcune incombenze di carattere fiscale lo avevano trattenuto a Palazzo Vecchio mentre gli allievi continuavano a fare il loro lavoro come ogni mattina.
Arrivati sull’ora del desinare il piccolo garzone cominciò a sentire un certo languorino, lasciò i compagni e fece un salto a casa, che era poco distante dalla chiesa.
Ritornò poco dopo con una discreta fetta di pane con l’olio, tutta unta e condita con un pizzico di sale. L’olio gli colava lungo la mano ed il braccio fino a terra ed uno dei ragazzi gli ricordò che era assolutamente vietato mangiare e sporcare  sul posto di lavoro e che se fosse arrivato il Maestro sarebbe andato su tutte le furie; ma la fame era più forte e lui dette una scrollata di spalle  come risposta e continuò imperterrito a mangiare e ad ungere il pavimento proprio di fronte all’affresco. Ma proprio in quell’istante la sagoma di Filippo Lippi apparve dalla porta laterale della chiesa avanzando a grandi passi, il maestro sembrava desideroso di riprendere il proprio lavoro.
Il bimbo fu colto di sorpresa e istintivamente nascose il pane unto dietro la schiena sperando che il Maestro cambiasse direzione, ma quello si stava dirigendo a testa bassa diritto diritto proprio verso di lui. In un attimo il giovinetto venne preso dal panico, pensò all’inevitabile rimprovero del maestro ma soprattutto alla perdita del soldo di paga tanto desiderato; Filippo ormai era giunto a pochi passi ed a quel punto il povero ragazzo, con il cuore in gola, cercò disperatamente con lo sguardo intorno a sé un posto dove poter nascondere quella fetta di pane con l’olio per salvare il salvabile.
Per l’appunto vide proprio all’interno dell’affresco una fessura nel muro, un buco che sembrava sufficientemente  profondo per contenere il desinare ed in un attimo vi infilò il pane unto.
Ma quella fessura non era vera, era fasulla; in realtà non era altro che la cavità dipinta in modo molto realistico dal pittore, da dove era uscito il diavolo prima di essere esorcizzato e poi cacciato da San Filippo.
Il pane unto si spiaccicò sull’affresco e l’olio cominciò a colare lungo la parete dipinta, mentre un gelido silenzio calò su tutti i presenti.
Il piccolo si rese subito conto del clamoroso errore commesso e restò paralizzato dalla paura, gli allievi della bottega rimasero ammutoliti mentre il maestro, dopo un attimo di stupore, non riuscì a levare gli occhi dal quel pane e da quell’olio che avevano imbrattato una parte della sua opera.
Fu solo dopo alcuni lunghissimi ed interminabili secondi che Filippo Lippi guardò diritto negli occhi del ragazzo, gli mise una mano sulla piccola spalla e gli disse: “ Se sono stato capace d’ingannare un’anima innocente e pura come te allora vuol dire che l’ho dipinto proprio bene questo buco fasullo” e da quel giorno gli raddoppiò la paga!

venerdì 1 aprile 2011

San Francesco e San Domenico

San Francesco e San Domenico

In piazza Santa Maria Novella, nel lato opposto alla chiesa, si trova l’antico Ospedale di San Paolo, struttura rinascimentale con un portico che ricorda quello dello Spedale degli Innocenti, in Piazza della Santissima Annunziata, in puro stile brunelleschiano.
In realtà la costruzione è assai più antica e risale al tredicesimo secolo; venne fondata  dai frati francescani dapprima come ospizio per i pellegrini, poi come ospedale.
Sulla facciata dell’edificio sono stati collocati alcuni medaglioni policromi in terracotta invetriata eseguiti da Andrea della Robbia.
Nella decorazione a forma di lunetta, posta in fondo al loggiato proprio sopra il portone della chiesa, si notano due religiosi in atto di abbracciarsi; l’immagine raffigura l’incontro tra San Francesco e San Domenico che la tradizione popolare vuole sia avvenuto proprio in quel luogo nel 1221.
L’Ospedale di San paolo era stato fondato e diretto dai terziari Francescani mentre la Chiesa  ed il Convento di Santa maria Novella erano stati progettati dai Frati Predicatori Domenicani divenendo poi un importante centro di religione e di cultura.
I due Santi pare si fossero incontrati poiché per puro caso si erano ritrovati nel medesimo periodo a Firenze, ognuno ospite dei propri confratelli che condividevano la stessa piazza, gli uni di fronte agli altri.
I due ordini religiosi, così diversi fra loro come ideologie e tradizioni, molto spesso si sono ritrovati nel modo di vivere e nella realtà di tutti i giorni effettivamente gli uni di fronte agli altri.
Quella lunetta immortalata quindi un episodio veramente unico e prezioso nella storia dei Francescani e dei Domenicani.