geronimo

mercoledì 21 luglio 2010

MARCHESE UGO DI FUSCIA

Dicembre

IL MARCHESE UGO DI FUSCIA
( Fondatore della Toscana Moderna)

Il suo emblema vive per sempre nei colori dello stemma della città di Firenze


La Firenze contemporanea può ammantarsi dell’onore di essere il capoluogo della Regione Toscana grazie, in un certo senso, a quanto decise un “ antico toscano” , vissuto in un periodo storico lontano, in cui l’Europa moderna ha radice trovando numerosi assetti politici e territoriali fondamento denominato convenzionalmente Medioevo.
In epoca alto medioevale insieme a tanti papi, Imperatori, Re e Cavalieri operò un uomo d’alto lignaggio, fra i più illustri e autorevoli del suo tempo, quale Ugo Marchese di Tuscia, della Toscana (953-54/1001) , nome un tempo leggendario nella memoria dei fiorentini, a differenza d’oggi, i quali, fino a circa duecento anni fa, solevano radunarsi al cospetto del sepolcro del Marchese alla Badia fiorentina nel giorno dell’anniversario della sua morte avvenuta il 21 dicembre del 1001.
I cittadini di Firenze furono infatti, per lungo tempo grati al loro signore non solo per il buon governo che seppe instaurare ma anche per avere fatto della loro urbe la sua sede, trasferendovi la corte da Lucca, tradizionale città dei Marchesi di Toscana, i quali, prima di lui, si intrattenevano a Firenze soltanto per le sedute del tribunale e per altri incarichi amministrativi.
Il Marchese Ugo, al quale piaceva la Toscana tutta, ebbe una predilezione per Firenze: “ e a costui piacque la stanza di Toscana, e massimamente nella città di Fiorenza, fececi venire la moglie, e in essa fece suo dimoro, siccome Vicario di Otto Imperatore “ , come ricorda lo storico Malespini.
Un legame stretto e indissolubile con la città lo leggiamo nei colori dello stemma del Marchese appartenente al casato tedesco dei von Brandenburg, il bianco e il rosso, che da allora sono divenuti i colori di Firenze.
A buon diritto , il Marchese Ugo deve essere considerato l’antenato storico della moderna Firenze che allora toccava il punto più basso della sua lunga storia; poco più di tremila abitanti ritiratisi all’interno dell’antica cerchia romana; una città piccola e in decadenza che all’alba dell’anno 1000 , grazie anche al suo nuovo status politico, iniziò a dare segni di ripresa. Con il passaggio al secondo millennio incominciò un periodo di fioritura culturale che ebbe le sue stupende espressioni nel Battistero e nelle chiese di San Miniato e dei Santi Apostoli, primissime testimonianze di una peculiarità creativa tipicamente fiorentina, alla quale fecero riferimento gli architetti del Rinascimento.
Dalla Toscana la storia del Marchese Ugo, figlio di Umberto e di Willa di Bonifacio Duca di Spoleto e Marchese di Camerino, nipote di Ugo di Arles re d’Italia, imparentato con le più nobili famiglie dell’epoca e discendente di Carlo Magno, si intreccia con gli stessi rapporti con questa regione ebbe con l’impero di Germania e col papato.
In un tempo di torbidi e di violenze quale il secolo decimo passato alla storia come il “ secolo di ferro” , quando crisi economiche e politiche si sovrapposero a crisi morali e religiose, il Marchese scelse di non essere soltanto, come il suo alto ruolo imponeva, un valente uomo d’arme. Ugo di Toscana eccelse ancor di più per le sue doti diplomatiche e per la sua equità nelle cose del governo, verso i sudditi. A lungo, dopo la sua morte, venne considerato il prototipo del perfetto principe.
Al governo della toscana fu uno dei principi laici più potenti del tempo e per un certo periodo uno dei primi personaggi dell’impero, schierandosi apertamente con il programma politico della dinastia sassone. Profondamente convinto del primato imperiale su quello del papa, divenne un fedelissimo degli Ottoni schiacciando nel proprio territorio, la recalcitrante feudalità, privandola di molti privilegi. Restaurando comunque e dovunque l’autorità imperiale accanto all’Imperatore Ottone III, viene considerato il fondatore della compagine della moderna Toscana.
Fecero parte integrante della sua strategia politica il riconoscimento di alcune attribuzioni laiche alle più “ duttili “ autorità ecclesiastiche, che si impegnò a riformare , e le numerose fondazioni monastiche che volle nel territorio, poiché esse non divennero siti monastici sotto tutela personale di importanti famiglie, com’era solito, bensì furono abbazie marchionali o imperiali, costituite, quindi, per riaffermare il potere dei sovrani e non per indebolirlo. La riforma ecclesiastica era per lui di precipuo interesse politico oltre che religioso. Legato alla figura di San Romualdo, iniziatore dei camaldolesi, fondò ben sette abbazie a partire da Firenze con l’erezione della Badia, i cui monaci, fino oggi cultori della sua memoria e a lui devoti e riconoscenti, ogni anno, a partire dal primo anniversario della sua morte, il 21 dicembre, celebrarono, e ancor celebrano, una messa in suo ricordo, in antico con il concorso di molto popolo ed ora alla presenza di Autorità e di una rappresentanza in costume rinascimentale del Corteo della Repubblica di Firenze.
Per la sua saggezza nel governare, caso piuttosto unico fra i potenti di quell’epoca, lasciò per molti secoli di se grata memoria ai fiorentini; la fama di Ugo di Toscana si dilatò presso i posteri e su fatti accertati si innestarono numerose leggende a testimonianza di quanta ammirazione aveva suscitato e continuava a suscitare. Lo stesso dante, che componeva in versi due secoli dopo la sua morte, collocò “ il gran Barone” , come lo appellò, nel suo paradiso( XVI,127-129) e Mino da Fiesole, nel 1481, per lui fu l’artefice del monumento funebre, tuttora visibile alla Badia fiorentina. Ancora alla Badia, ad emblema del sempre vivo ricordo, Raffaele Petrucci nel 1618 scolpì la statua con le sembianze del Marchese che venne allocata nel chiostro grande.
Qualche anno prima, nel 1590, l’effige di Ugo di Toscana venne dipinta ad olio da un giovanissimo Cristofano Allori per volere dei monaci di Badia, i quali, nel giorno a lui dedicato, solevano mostrarla al popolo come attesta una nota di padre Placido Puccinelli nel 1664, secondo la quale “ li monaci fiorentini sono stati si zelanti di ciò verso Ugo lor Principe, che hanno voluto s’esponghi in tal mattina dirimpetto alla cattedrale dell’Oratore il ritratto di tanto eroe dipinto… in abito regale, tenendo la destra sopra il campanile di fabbrica della Chiesa”.
L’interessante dipinto ai nostri giorni è custodito nei depositi della Galleria degli Uffizi, in attesa di ritornare dove fu visibile per oltre due secoli, in quella stessa Badia che si vuole eleggere, come è stata, fulcro religioso e insieme civile di Firenze.
La Badia, dunque, è stata scelta nuovamente come teatro per le celebrazioni del 21 dicembre , giorno da deputare alla commemorazione del marchese, secondo il volere dell’Amministrazione Comunale, in concerto con coloro che continuano a mantenere viva l’attualissima figura del Marchese Ugo; la festa del 21 dicembre vuole coinvolgere con una serie di iniziative, di anno in anno, i luoghi in città e nel contado legati alla figura del Marchese, proponendo seminari, studi e itinerari a carattere storico religioso e turistico nelle “ Terre di Ugo “ alla ricerca delle tracce lasciate dal suo operato.
Ed ancora, la Badia viene riproposta come luogo della memoria per una città che ha ereditato il suo emblema dai colori araldici del “ Gran Barone” , per rinnovare il ricordo di un uomo da cui ci separano mille anni di storia Toscana, per rinnovare il ricordo delle nostre radici.


(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

martedì 20 luglio 2010

FESTA DELLA REGIONE TOSCANA

Novembre

FESTA DELLA REGIONE TOSCANA

Alle radici della nostra moderna coscienza civile


Dall’anno 2000 il Consiglio Regionale della Toscana ha approvato una legge per celebrare, il 30novembre, la “ Festa della Regione Toscana “ , una festa che vuole essere un omaggio a tutti coloro i quali si riconoscono nei valori della pace, della giustizia e della libertà, la cui voce echeggiava alle cinque della sera del 30 novembre del 2000, giorno della prima celebrazione della festività, quando le campane hanno suonato a festa in tutta la Toscana per un laico rito della memoria.
La Regione, con in testa il suo capoluogo, infatti ha istituito la festa commemorativa del 30 novembre, per ricordare il giorno in cui ricorre l’anniversario della Riforma Penale promulgata, a quella data nel 1786, da Pietro Leopoldo di Lorena, Granduca di Toscana dal 1765al 1790.
Con tale riforma, che nel Granduca fu “monumento e gloria “ , secondo uno storico del primo novecento, la Toscana divenne il primo Stato al mondo in cui abolì la pena di morte , uno degli atti più incivili perpetuati fino ad allora da tutti i governi, “ conveniente, secondo Pietro Leopoldo, solo ai popoli barbari” .
Il 30novembre, pertanto, non è una data fondamentale solo per l’antico Granducato di toscana o interessante per coloro che si occupano di storia, è il primo giorno di una storia nuova per tutti gli uomini dal XVIII secolo ai nostri tempi. Fu il principio di una rinnovata vita per l’intera umanità, una vita che nacque lungo le sponde dell’Arno.
“Abbiamo veduto, leggiamo al LI articolo della Riforma, con orrore con quanta facilità nella passata legislatura era decretata la pena di morte per delitti anco non gravi, ed avendo considerato che l’oggetto della pena deve essere la soddisfazione al privato, ed al pubblico danno, la correzione del reo figlio anche esso della Società e dello Stato, della cui emenda non può mai disperarsi, la sicurezza nei Rei dei più gravi ed atroci Delitti che non restino in libertà di commetterne altri, e finalmente il pubblico esempio; che il governo nella punizione dei Delitti, e nel servire agli oggetti ai quali questa unicamente è diretta, è tenuto sempre a valersi dei mezzi più efficaci con il minor male possibile al Reo… avendo altresì considerato , che una ben diversa legislazione potesse più convenire alla maggior dolcezza, e docilità di costumi del presente secolo, e specialmente nel popolo Toscano, siamo venuti nella determinazione di abolire come abbiamo abolito con la presente legge per sempre la pena di morte contro qualunque Reo…” .Con l’abolizione della pena di morte aveva anche termine l’uso della tortura e della mutilazione delle membra..
La fine dell’orrore era sancita e non poteva che esserlo “ per sempre “ , come legifera il Granduca, figlio di un secolo che tanta luce portò agli uomini. Questa legge , in parte ispirata al Codice giuseppinio, trovata la sua fonte principale nelle concezioni filosofico che dell’ Illuminismo e soprattutto nell’opera più famosa dell’illuminismo italiano, “ Dei delitti e delle pene” , che Cesare Beccarla ebbe in Toscana la possibilità di pubblicare per la prima volta, a Livorno, nel 1764.
“ La legge del 30 novembre 1786, scrisse l’esimio F. Forti, ha ottenuto una celebrità europea. Opera più generosa non ebbe mai la sensazione di un monarca. Le idee filosofiche allora predominanti sono accolte con fede e con onore nella legge criminale di Leopoldo “ (Antonio Zobi) .
A suggello di quanto stabilito con la riforma Leopoldina, comandando il Granduca , la demolizione delle forche ovunque si trovino (art. LIV) , con perfetto contrappasso finirono al rogo le forche e gli strumenti di tortura, segno tangibile, volutamente spettacolare ,, della nascita di una nuova epoca, della morte della pena di morte che in Firenze ebbe teatro nelle Prigioni del bargello come ricorderà più tardi, nel XIX secolo, il pittore Giovan Battista Silvestri, dipingendo in acquerello i falò dei patiboli fra le severe bugne del Palazzo del Podestà..
Ai giorni nostri, nel cortile della Dogana di Palazzo Vecchio, il Comune di Firenze ha voluto collocare una lapide dove riprodurre un testo redatto subito dopo la promulgazione della legge, nel dicembre del 1786, proprio per una targa marmorea commemorativa. L’epigrafe settecentesca, composta dal georgofilo Giuseppe Pelli Bencivenni su richiesta di Francesco Seratti, il quale aveva curato la stesura finale della Riforma, così recita: “ Per memoria della Toscana felicità quando Pietro Leopoldo con legge dè 30 novembre 1786 la pena di morte, l’infamia, la tortura, ogni delitto di lesa maestà colla confiscazione delle sostanze cancellò per primo in Europa dalla vecchia legislazione” ; motivazioni che rendono Firenze orgogliosa del suo passato.
Se a chiusura del Settecento era stato auspicato di porre la lapide nel punto esatto dove fino alla metà di quel secolo, a quanto ancora testimoniano un dipinto e una nota stampa di Giuseppe Zocchi, si eseguiva il supplizio della fune, ovvero all’esterno del Bargello , per ricordare, con altrettanta pubblicità , la fine dell’antico e duro sistema penale, oggi, una più serena visione storica e politica, che il passare del tempo ha permesso, ha suggerito all’Amministrazione Comunale di allocare la targa in un posto di onore , nel palazzo da sempre sede del governo cittadino.
La cessazione delle antiche barbarie e la volontà che abbiano termine quelle che, in tutto il mondo, non si sono ancora placate è stata ribadita dal rogo e dal patibolo e dagli strumenti di tortura che si è consumato in piazza della Signoria in occasione della prima “ Festa della Toscana” per volere dell’Amministrazione della città di Firenze che desidera riproporre, di anno in anno, nel giorno dedicato alla festa, delle iniziative, di vario genere, che coinvolgono, insieme agli studiosi, agli storici, ai politici della Toscana tutta e non solo, i cittadini di Firenze.
Con l’istituzione della Festa della Toscana si vuole ricordare la grandiosità dell’atto di civiltà messo a punto da Pietro Leopoldo, per non cancellare dalla memoria di tutti l’origine del cammino lungo e tortuoso per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che ha visto la Toscana e i suoi governanti del passato svolgere un ruolo da protagonisti e non da comprimari o, più semplicemente, da spettatori; un camino che continua incessantemente come “ La Carta dei Diritti dell’Unione Europea” del 2000 ha sottolineato sentendo la necessità di ribadire, ancora oggi, il diritto di ogni uomo a non essere condannato a morte da altri uomini.
Una festa, quindi, istituita per riproporre un momento saliente della storia moderna e per aggregare i toscani attorno ad una data di grande significato civile, ricordandoli che per primi al mondo i loro antenati hanno visto abolita la pena di morte.
Quello di Pietro Leopoldo è uno degli atti fondanti di questa terra e dello stato cui appartiene (Mario Luzi).


(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

lunedì 19 luglio 2010

SANTA REPARATA

Ottobre

SANTA REPARATA
“Prima titolare della cattedrale fiorentina, nume tutelare della cultura classica”

Anticamente a Firenze le feste si celebravano con coscienza e rispetto tanto che, in generale, pur non scegliendole dall’oggi al domani, quando queste si affermavano rimanevano durevoli nel tempo. Sembra proprio che il popolo fiorentino, dopo aver deciso di festeggiare un dato evento, lo rispettasse con passione in modo duraturo. La nostra città, pertanto, è stata caratterizzata da un notevole patrimonio di tradizioni e feste che l’hanno resa, anche per questo aspetto, un punto di riferimento non solo per isuoi abitanti, ma pure per i turisti che da sempre la visitarono e la visitano.
Fra queste feste, di primaria importanza, è quella celebrata l’ 8 ottobre, dedicata a “ Santa Reparata vergine e martire, protettrice del popolo fiorentino” Infatti la ricorrenza ha conservato tutto il suo profondo significato laico e religioso, legato a quella santa a cui i fiorentini dedicarono la loro primitiva cattedrale, significato che oggi si vuole ancor più sottolineare con una serie di manifestazioni.
Tutto ebbe origine da un cruento avvenimento storico dopo il quale si ebbe l’affermazione definitiva in Firenze del cristianesimo, religione introdotta principalmente da mercanti dell’Asia Minore che portarono con la fede anche i santi loro più cari fra cui Reparata, vergine di Cesarea martirizzata nel III secolo.
Nell’anno 406 la città venne sconvolta dovendo subire il suo primo assedio dopo quasi cinquecento anni di storia. Già diversi mesi prima,torme di barbari, provenienti dalle foreste del settentrione,, dopo avere oltrepassato le Alpi si erano riversate sulle campagne e sulle città italiane portando ovunque desolazione e morte. L’orda di barbari Ostrogoti, comandati dal Re Radagaiso era, naturalmente, preceduta dalla paura, accompagnata dalla distruzione e, dopo il suo passaggio, dalla fame e dal dolore. Le popolazioni barbare nomadi scendevano lentamente verso Roma con carri carichi fino all’inverosimile del bottino dei saccheggi e delle razzie che avevano compiuto, sulle ali del terrore, durante il loro tragitto. Impiegarono, perciò, circa nove mesi prima che le loro avanguardie giungessero sotto le mura di Firenze dove, con la solita ferocia, devastarono subito tutta la campagna d’intorno. Quando poi sopraggiunse l’intera torma dei barbari, con l’ingombrante bottino che si trascinavano dietro, la città era chiusa e ben preparata alla difesa. Radagaiso la pose sottoassedio nella speranza di arrivare quanto prima a poterla saccheggiare ed oltrepassare, perché ostruiva, di fatto, il passaggio dell’Arno.
Non conoscendo strategie militari e non possedendo neppure macchine per abbattere e scalare le mura, gli Ostrogoti più che assalire la città la circondarono pensando di farla capitolare per fame. Ma l’approvvigionamento, che doveva far crollare subito la difesa fiorentina, mancò assai prima alle orde dei barbari, composte da oltre duecentomila unità fra uomini, donne e bambini, accampati in una terra già devastata e priva di raccolti.
Correva un’estate torrida e la sete, oltre alla fame, attanagliò più gli assedianti che gli assediati, sostenuti dalle parole del loro vescovo Zanobi, dalle “ preghiere di San Zenobio e dei suoi santi cappellani” (Matteo Villani) . Radagaiso decise, quindi, di dividere in tre schiere il suo numeroso esercito, lasciandone una al piano per continuare l’assedio, e le altre spostandole sulle più fresche colline nei dintorni di Fiesole. La situazione, critica da ambo le parti, era vissuta in città con terrore e sempre più tenui erano le speranze di sopravvivere , nonostante che i fiorentini fossero riusciti a respingere tutti gli attacchi dei nemici.
Un bel giorno d’agosto, dalla cima della colina di San Gaggio, alcuni ragazzi videro arrivare l’esercito romano comandato dal generale Silicone: era la salvezza ! Corsero come saette a dare la notizia, perché la liberazioneera prossima. E fu così. Infatti Silicone impegnò subito gli Ostrogoti che assediavano la città con una minima parte del suo esercito, e fece dislocare il grosso della cavalleria e della fanteria nascondendolo sulle colline di Montorsoli e della Torre a Buiano. Quando Radagaiso seppe dell’attacco dell’esercito romano sferrato contro i suoi nella piana fiorentina, decise di scendere in loro aiuto per la valle del Mugnone, dove venne attaccato e annientato dalle truppe romane. Il nome della località in cui il re barbaro trovò la morte pare sopravvivere nel toponimo Montereggi da “ mons regis”. Fu una strage: centomila barbari furono uccisi ed i sopravvissuti vennero venduti come schiavi all’irrisorio prezzo delle pecore.
I fiorentini, secondo la storiografia non solo locale, subito attribuirono ad un intervento celeste la serrata di Radagaiso e del suo numeroso esercito “ in faesulanos montes” e la facile vittoria romana che avvenne il 23 agosto del 406. Il volere divino aveva le belle sembianze della vergine Reparata che, in base a una leggenda presto sorta, il giorno della battaglia era stata veduta librarsi protettrice sopra Firenze.
La città decise, pertanto, di ricordare la sua liberazione festeggiandola no nel giorno in cui in realtà accadde bensì l’ 8 ottobre, giorno dedicato a Santa Reparata, amata dai molti cristiani di origine orientale che si stabilirono a Firenze diffondendone il culto.
Per lungo tempo la storiografia cittadina arriverà perfino a ricordare l’ 8 ottobre come giorno della battaglia legando indissolubilmente l’avvenimento al nome della santa, a cui i fiorentini del Vsecolo avevano deciso di intitolare la cattedrale che avrebbero eretto, le cui vestigia si leggono al di sotto dell’odierna cattedrale, a partire dalla sua edificazione nel 1296, andò ad inglobare il precedente edificio di culto. L’antica Basilica di Santa Reparata tuttavia, com’è noto, fino dal 1354 venne utilizzata per il servizio religioso fintanto che il cantiere dell’erigenda Santa Maria del Fiore lo rese possibile. Nel corso dei secoli non solo il primo edificio culturale cittadino mantenne viva la memoria della gloriosa vittoria sui Goti per la miracolosa intercessione di Santa reparata ma anche, come già accennato, il suo ricordo venne perpetuato dalle cerimonie religiose e popolari che avevano teatro attorno alla cattedrale stessa, dove nel giorno della santa incedevano in processione i fiorentini.
Le cerimonie ad concursum populi erano spettacolari. Un testo del XIII secolo ricorda a noi moderni come nulla venisse lasciato al caso. La cattedrale di Santa Reparata si presentava agli occhi dei fiorentini non solo splendente per i ceri copiosamente accesi sugli altari e per le luminarie che abbellivano la volta centrale e il coro ma fulgida, rigogliosa per il fasto delle ghirlande di mirto e di alloro che la adornavano in ogni dove, antesignane delle “ robbiane” con cui gli uomini della Rinascita avrebbero ornato la cattedrale arnolfiana. Per la facciata del suo edificio, fra l’altro, lo stesso Arnolfo di Cambio scolpì, a chiusura del XIV secolo, la bella e possente effige della santa (attualmente al museo dell’Opera del Duomo di Firenze).
La novella basilica, di cui Santa Reparata divenne contitolare insieme alla Vergine, ereditò, per così dire, la festa nel che nel corso dei secoli, per l’aspetto strettamente religioso, era caratterizzata, tenendo fede alle testimonianze degli storici del XVIII e del XIX secolo, dall’intervento di “ tutti i priori, e i rettori delle chiese della Città” , i quali assistevano in coro, dove venivano esposte le reliquie della santa, “ alla Messa, e Vespro solenne”.
Una solenne cerimonia di culto medioevale che, attualmente, ritorna a noi per volere dell’Amministrazione Comunale, in concerto con l’Arcivescovado fiorentino, e che ha teatro nelle suggestive rovine della prima cattedrale.
Il giorno di santa reparata, inoltre, “ per unire ai sacri riti pubbliche feste popolari” , come si soleva dire, i reggitori di Firenze (sicuramente a partire dal XIV secolo ma probabilmente da un tempo più antico) decisero che si svolgessero una corsa con i cavalli dalle Fonticine, sotto San Gaggio, fino a Porta Romana e una corsa podistica, detta “bravio” cioè palio, da Porta Romana fino a Mercato Vecchio (l’antico foro romano, l’odierna piazza della Repubblica). Riorganizzare oggi, per volontà della Pubblica Amministrazione cittadina, tale usanza, rimasta per secolilegata alla storia della città e in seguito caduta per un lungo periodo nell’oblio, porta tutti i cittadini a riappropriarsi di un bel momento di aggregazione. Ai nostri giorni la gara podistica, preceduta dal Corteo della Repubblica Fiorentina, che sfila dal Palagio di Parte Guelfa fino alla Cattedrale di Santa Maria del Fiore (dove alla cappella del crocefisso viene benedetto il bravio) , parte, per poi ritornarvi, dalla piazza di San Giovanni e vede partecipi venti concorrenti, scelti fra i calcianti delle quattro associazioni di colore della città.
Nel nome di Santa Reparata, riproponendo nuovamente la celebrazione religiosa al cospetto delle pubbliche autorità e, insieme, il “ bravio” , si vuole rendere tangibile il ricordo di una pagina importante dell’antica Firenze che contribuì a non recidere fra le sue mura quel filo conduttore con la cultura e con i valori dell’età classica, per altro mai sopiti e rifiorenti, in tutto il loro splendore, in epoca rinascimentale.


(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

venerdì 16 luglio 2010

LA RIFICOLONA

Settembre

LA RIFICOLONA
“ Ona, ona, ona ma che bella rificolona”

Il 7 settembre , per il calendario liturgico vigilia della natività di Maria. L’Amministrazione Comunale organizza la “ Festa della Rificolona” , autentica ed originale festa fiorentina ancora sentita, tradizione popolare di antico folklore.
Ma a quando risale l’origine di questa festa che conserva e tramanda fra i ragazzi di Firenze l’uso di portare in giro quei lampioncini di carta colorata, modellati nelle forme più varie e bizzarre, con tanto di lumicino all’interno, appesi in cima ad una canna? Con tutta probabilità alla metà del seicento, ed è da ricollegare all’arrivo in città di tanti contadini e montanari che, con le loro donne, provenienti sia dal vicino contado che dalle zone più impervie del Casentino e della montagna Pistoiese, venivano in città per festeggiare la natività della Madonna nella Basilica della Santissima Annunziata, ancor oggi famosa in tutto il mondo cattolico per l’antica, miracolosa e venerata immagine della Madonna madre di grazie , divenuta la rappresentazione più diffusa e più copiata del mistero dell’annunciazione.
Oltre ad essere spinti dal devoto pellegrinaggio, quella simpatica gente approfittava dell’occasione per venire a vendere la propria mercanzia alla fiera mercato che si svolgeva l’indomani sulla piazza antistante la basilica, in via dei Servi e nelle loro immediate adiacenze. Per poter trovare , un buon posto che consentisse un sicuro e totale smercio dei filati, pannilini, funghi secchi e formaggi che avevano portato, questo coloni partivano dalle loro abitazioni molto tempo prima e, nella notte, si rischiaravano l’insicuro cammino con lanterne di varia forma appese in cima a bastoni, canne e pertiche. E proprio con queste multicolori lanterne di carta o tela , aperte in cima per consentire alla candela o al sego dello scodellino di bruciare, giungevano a Firenze la sera prima della fiera, bivaccando la notte nei chiostri della Chiesa della Santissima Annunziata e sotto i loggiati dell’omonima piazza dove, alla tremula luce dei loro lampioncini, cantavano laudi alla Vergine finché,a tarda notte, non arrivava il sonno ristoratore. Questi stanchi pellegrini a volte non riuscivano però a chiudere neppure occhio per il fracasso fatto dalle brigate di giovani fiorentini che si riversavano nella piazza, divertendosi un mondo alle spalle dei campagnoli con una sfrenatezza indisciplinata che spesso rasentava l’insolenza. I contadini borbottavano, brontolavano, subivano ma in cuor loro si riproponevano di mettere tutto sul conto dei profitti l’indomani mattina alla “ Fiera della Nunziata” rincarando adeguatamente i prezzi della mercanzia. La gente del contado, goffa ed incerta nel camminare, anche perché carica di prodotti contenuti in ingombranti ceste e panieri e scioccata dall’impatto con la città, vestiva in modo rustico e certamente non doveva essere un modello di eleganza e di buon gusto. Le donne, specialmente, erano oggetto di particolari e allegre canzonature e di salaci commenti da parte dei giovani fiorentini, già per natura predisposti al frizzo e allo scherzo. Per questo giovani , il 7 settembre , era diventato un appuntamento obbligato al quale non si poteva e non si doveva mancare; le strane fogge dei ruvidi vestiti indossati dalle brave e inesperte campagnole, dai larghi fianchi e dagli abbondanti seni e posteriori, provocavano allusioni, dileggio e quindi matte risate. Era un divertimento, a volte smodato, diretto quasi totalmente alle povere “ fierucoloneo “ fieruculone” come essi così le chiamavano, sia perché partecipavano alla “ fierucola” e sia per i loro vistosi deretani . Infatti se la radice “fieru” ha attinenza con fiera o fierucola, la desinenza “colone” o “ culone” dovrebbe oggettivamente riferirsi a colone in quanto di campagna o, piuttosto, ai loro floridi posteriori.
Da” fieruncola” si ebbe in seguito, per corruzione, la parola “rificolona” che tuttora si usa comunemente quale espressione critica, allegra e scanzonata verso una donna vestita e truccata senza gusto, in modo vistosamente eccentrico.
Con l’andare del tempo, per l’appuntamento notturno del 7 settembre, in città, per dare un tono più fantasioso e canzonatorio a quella che era divenuta una vera e propria tradizione, si cominciarono costruire lanterne, ispirandosi a quelle dei contadini ed alle forme delle loro donne, raffiguranti appunto goffe figure femminili con un lume sotto la sottana, appese a lunghe canne e portate in giro con gran baccano di campanacci, sibili (emessi con certi fischietti di coccio che assordivano), urla e motteggi vari. In queste pittoresche e confusionarie scene popolari, veniva cantata e ricantata la caratteristica cantilena “ ona,ona,ona ma che bella rificolona…” , immortalata anche dal commediografo fiorentino Augusto Novelli nella famosa commedia musicale in vernacolo “ L’acqua cheta “ , divenuta popolare come l’altrettanto popolarissimo stornello rimasto in uso fino ai nostri giorni, cantato in allegria da grandi e piccini durante la festa. Un’altra tiritera, quasi dimenticata, diceva: “ Bello,bello,bello, chi guarda l’è un corbello”.
Al colmo del baccano succedeva poi che alcuni gruppetti di giovani tirassero bucce di cocomero contro le rificolone per farle incendiare, cosa che si verifica immancabilmente dato il materiale infiammabile col quale venivano fabbricate. Con questa spietata caccia alle rificolone, la festa, dopo la mezzanotte, volgeva al termine, con la tacita intesa che l’anno dopo avrebbe nuovamente allietato la sera del 7 settembre.
La festa anche ai nostri giorni continua a vedere protagoniste le rificolone, anche se laloro forma non è più quella di una volta. Dalle classiche sagome delle goffe montanine si passò poi a raffigurare fette di cocomero, mezzelune, fanali, che molto spesso gli stessi ragazzi realizzavano con carta coloratasi un telaio di stecche di canna e fil di ferro. Adesso il fai da te non è quasi più di moda, e l’acquista e getta ha dato mercato alle rificolone cinesi d’importazione e a quelle più sofisticate rappresentanti aerei, missili e personaggi tipici dei fumetti, costruite industrialmente. Comunque, comprati o no, i lampioncini variopinti si vedono ancora appesi un po’ ovunque, alle finestre dei palazzi, nelle case popolari, sui lungarni e per le strade dove risuona sempre l’antica cantilena di “ona, ona….” , e si consumano i consueti incendi delle rificolone, provocati non più da smodati lanci di succedi cocomero ma da precisi tiri effettuati con raffinate cerbottane . Negli anni Cinquanta questa pittoresca festa fiorentina si svolse anche sull’Arno e precisamente a monte del fiume , nel tratto fra Bellariva e la pescaia di San Niccolò. Si assisté così alla sfilata delle “ rificolone in edizione fluviale” : allegorie in cartapesta su maestosi barconi infiorati e illuminati da centinaia di multicolori lampioncini di carta che scivolano lenti sull’acqua assieme a piccole barchette amorevolmente artigianali,riscuotendo , nel breve viaggio, applausi dall’una all’altra riva dell’Arno.
Attualmente la festa vive di nuovo vigore sia sul fiume che sulla terra ferma grazie ad un impegno organizzativo che richiede tantissima passione ed un costante lavoro nell’assoluto rispetto della tradizione. Tradizione che contribuisce a fare amare Firenze anche dai forestieri che quando si allontanano dalla nostra città portano in cuore un po’ di nostalgia che induce al ritorno. Nostalgia dei colli, dei lungarni, delle Cascine, delle piccole stradine medioevali ma soprattutto nostalgia dei fiorentini che rimangono, pur con i loro “interno “ fazioso stile, nell’animo dei forestieri come un popolo schietto, genuino, dalla battuta sempre pronta e salace, dall’intuito sottile e, soprattutto, intimamente legato alla propria storia alle quali non vuole rinunciare.

(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

SAN LORENZO

Agosto

SAN LORENZO
La festa del santo in uno scenario di storia, di arte e di cultura fra i più cari ai fiorentini

La festa di San Lorenzo e della chiesa fiorentina di cui è titolare, che cade il giorno 10 agosto, è stata per molti secoli una festività fra le più amate a Firenze, solennemente celebrata con funzioni religiose e insieme con iniziative laiche e popolari a testimonianza della forza aggregante che seppe avere per i clerici come per i laici, per i signori e per il popolo.
La Basilica di San Lorenzo in Firenze , sorta nel IV secolo su una piccola altura nella strada d’uscita verso Fiesole al di fuori dello mura romane e che una tradizione non fondata vuole consacrata nell’anno 393 da Sant’Ambrogio vescovo di Milano, è da sempre, fin dalla sua origine, legata alla città e a quanti ne hanno retto le sorti. Benché la chiesa sia ovviamente da molti rapportata, a partire dal XV secolo, alla famiglia medici che la elesse a suo mausoleo, rintracciamo ricordi più antichi dell’interesse civile oltre che religioso per essa, un interesse che aveva il momento di maggiore visibilità il 10 agosto, giorno dedicato dalla chiesa al santo principe dei martiri e diacono romano morto nel 258. Tale cura deve essere fatta risalire, come antichi documenti comunali motivano, al rispeto della basilica quale luogo in cui ebbero sede i primi vescovi fiorentini facendone, a buon diritto per l’alto Medioevo, centro di un potere anche politico.
Nei confronti della insigne basilica di San Lorenzo, “ mater et caput florentinae ecclesiae” come recita una bolla di papa Celestino III del 1191, la Signoria diFirenze delibera il 10 febbraio 1394 (stile fiorentino; 1395 stile moderno) con una provvisione, il proprio impegno per i festeggiamenti che, in epoca medioevale , includevano, in omaggio all’antica sede episcopale, una processione di grande valore simbolico che si svolgeva fra la Cattedrale di Santa maria del Fiore e la basilica laurenziana dove i consiglieri dell’ Arte dei mercanti, il Proconsolo e i Consoli di tutte le arti offrivano “torcetti di cera”. In San Lorenzo, infatti, ogni 10 di agosto, secondo quanto si legge nell’antico documento comunale, il governo della città era tenuto “in perpetuum” ad “ offerre, et dimettere torchiettos de cera” .
La festività iniziava di buon mattino nell’aula ecclesiale, abbellita con ricchi decori , dove le reliquie del santo lì conservate (fra cui secondo antichi testi, insieme ad altre, “un dente ed un pezzetto di graticola”) , tutte custodite in preziosi reliquiari, venivano esposte con gran pompa, sistemate su un altare effimero allocato a bella posta “ in mezzo alla chiesa” . Il priore celebrava “ pontificalmente”, cominciando con una messa cantata “ ad concorsum populi” a cui faceva seguito un’altra cerimonia religiosa nel corso della quale veniva impartita la “ benedizione alla città di Firenze” alla presenza del Magistrato civico.
Con l’inizio del XVII secolo dopo l’erezione, sul modello di Don Giovanni dé Medici (1602) , della Cappella dei Principi, per commemorare il rapporto strettissimo fra la basilica e i Medici, la famiglia granducale decise di concedere “libero accesso alla Cappella dei Principi” . L’usanza, in seguito, era divenuta ormai parte integrante della festività di San Lorenzo al punto che venne rispettata anche in epoca lorense.
Come le celebrazioni maggiormente care alla città, la Signoria e, più tardi, il governo granducale, fino al XIX secolo , organizzavano una corsa di cavalli che si snoda da Porta San Gallo fino al borgo di San Lorenzo, “alla volta dell’Arcivescovado” come ricorda un testo del XIX secolo , con un palio che, nell’ottocento, consisteva in lire 60 elargite dalla comunità di Firenze.
Fra i fiorentini che in tal giorno accorrevano festosi alla basilica di San Lorenzo dobbiamo ricordare, in particolare, i membri dell’arte dei Fornai, la cui residenza era posta in via Lambertesca nella parte poi rimasta incorporata nel fabbricato degli Uffizi, i quali avevano eletto il santo a loro patrono, dedicandogli un immagine, quasi a grandezza naturale, dipinta su un pilastro all’interno di Orsammichele (scuola di Taddeo Gaddi, attr; San Lorenzo che tiene l’insegna dell’Arte (una stella bianca a otto punte in campo rosso) mentre alla piccola scena sottostante egli viene rappresentato sulla graticola del martirio:
Il 10 agosto i Consoli dell’Arte dei Fornai non solo si recavano solennemente a fare l’offerta rituale in Orsammichele ma erano anche fra i cittadini maggiormente impegnati nelle celebrazioni che avevano luogo nella basilica dedicata al santo. Nella zona intorno alla chiesa laurenziana, fra l’altro, abitavano ed avevano forni e botteghe un gran numero di fornai e di negozianti di pasta da minestra. Le mostre di queste botteghe venivano approntate per la festa d’agosto con molta fantasia; i fornai usavano, a tale fine, “i prodotti del mestiere” , presentando il pane in varie fogge, attirando così una gran folla. Ed ancora, oltre al pane dalle forme più insolite, una particolare pasta che era uso mangiare per la festività di San Lorenzo era la lasagna, “ sorta di pasta di farina di grano, sottile e in forma lunga striscia o nastro, leggermente increspata da un lato per lo più adoperarsi per minestra ( dal vocabolario della Crusca).
I fornai fiorentini erano associati fra di loro anche in compagnia di carattere religioso , denominata compagnia di San Lorenzo dei Fornai, nei festeggiamenti del 10 agosto, prendeva forma principalmente nel corso della distribuzione dei pani benedetti, a cui seguiva alla sera, un’allegra “cocomeraia” con cui si concludeva la calda giornata estiva .
La festa di San Lorenzo coinvolgeva non soltanto il centro di Firenze, ma anche parte dei “ contorni” della città, come si solevano appellare le rigogliose campagne alla sua periferia , in cui i segni del vivere e del lavorare dell’uomo ben si sposavano con l’elemento naturale.
Una grande festa d’estate, infatti animava con molta allegrezza la Certosa fiorentina del Galluzzo, essendo la sua chiesa intitolata a San Lorenzo.
Se la festa del 10 agosto è sempre viva nel suo aspetto culturale grazie ai reggitori della basilica che si sono succeduti fino ad oggi, o , con altre valenze, tramite manifestazioni volute dai singoli gruppi oppure dagli abitanti del quartiere intorno ala basilica ,volerla riproporre da parte del Comune di Firenze è storia recente.
L’amministrazione comunale attraverso la partecipazione del Corteo Storico Fiorentino alle celebrazioni presso la Basilica di San Lorenzo, rende omaggio “ alla antica sede civica”, organizzando inoltre , per tal fine, conferenza a tema e visite guidate ai luoghi laurenziani in città.
Ripristinare la festività con tutte le sue implicazioni , oltre che religiose anche politiche e sociali, all’attenzione dei fiorentini e di coloro che, giovani o meno giovani, studiano e visitano la città, vuole essere un omaggio a quelle tradizioni proprie di Firenze che permettono, forse più dei libri o di tante parole, una conoscenza puntuale della storia cittadina, delle sue origini, comprensibili anche perché rivissute, attualizzate.



(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

martedì 13 luglio 2010

SANT'ANNA

Luglio

SANT’ANNA

Protettrice della libertà di Firenze

Da un episodio di carattere politico, fra i più importanti per la Firenze repubblicana del XIV secolo, traggono origini la venerazione per la figura di Sant’ Anna in Firenze e la festa che la città gigliata volle tributarle, una delle più solenni, per molto tempo, fra quelle che i fiorentini solevano allestire , connotata, pur nel novero delle cerimonie sacre, di motivazioni e di uno spirito fortemente laici.
Villani termina il racconto “ S’ordinò per lo comune, che la festa di Sant’ Anna si guardasse come Pasqua sempre in Firenze” . Con queste parole, che racchiudono un’aulica comparazione. Giovanni della cacciata da Firenze di Gualtieri di Brienne, noto come Duca d’ Atene , che ebbe inizio con una sollevazione popolare il giorno di Sant’ Anna, il 26 luglio del 1343 , con cui si metteva fine alla tirannia in città dello straniero, incominciata l’anno precedente.
Dopo l’accaduto i fiorentini videro in lei una “ partigiana della causa della Repubblica” e la innalzarono a protettrice di Firenze; il suo giorno venne dichiarato giorno di pubblica solennità.
Il Villani, dunque, paragona il 26 luglio alla Pasqua poiché in tale giorno ebbe luogo la resurrezione dei fiorentini finalmente liberi come nel giorno della Pasqua la resurrezione del cristo segna la vittoria del Figlio di Dio sulla morte.
Il tema di Sant’Anna venne ad assumere un valore civico oltre che religioso in ricordo della cacciata del Duca al punto da creare una nuova iconografia per la santa, impostando nelle arti la sua immagine in veste di protettrice della città. Le Arti fiorentine hanno lasciato testimonianze di grande valore a riguardo, a partire dall’affresco commissionato dalla Signoria, subito dopo l’accaduto per commemorare l’avvenimento, e un seguace dell’Orcagna , dipinto nel dirupo Carcere delle Stinche e, dopo lo strappo, allogato al Museo di palazzo Vecchio. Nell’affresco con sant’Anna e la cacciata del duca d’ Atene, autentico manifesto civile , una indomita Sant’ Anna è raffigurata in un gesto di protezione verso il Palazzo della Signoria, mentre caccia dal trono il Duca d’ Atene e consegna i vessilli del Comune al popolo in armi inginocchiato davanti a lei.
Da allora la Santa protegge la sua città abbracciandone amorevolmente la sagoma, come possiamo ammirare, fra l’altro, nell’affresco di Mariotto di Nardo (fine secolo XIV) in una vela dell’Oratorio di Orsammichele, l’oratorio innalzato dalle Arti cittadine dove, subito dopo la cacciata del Duca in ringraziamento per la fine della tirannia, proprio i rappresentanti di tutte le Arti si recarono a rendere omaggio alla Vergine e a sua madre Anna.
A causa della discordia delle sue classi dirigenti Firenze aveva voluto il Duca; dopo la cacciata di Gualtieri di Brienne “ la Signoria nuova, ricorda il Villani, in uno col popolo riferendo alla intercessione di S. Anna, di cui ricorreva il nome in quel giorno, l’avvenimento felice, corse all’altare della Madonna in Orsammichele, e porse in quel luogo rendimento di grazie”.
Con questo concorso di popolo all’oratorio ebbe genesi la celebrazione annuale che la Signoria decise di bandire, negli anni a venire, in onore di Sant’ Anna, proclamando il 26 luglio festa solenne. La Signoria stessa, inoltre, commissionò un altare ligneo da erigere in Orsammichele per esporvi “ un’immagine di Sant’ Anna” come si legge nelle provvisioni del Comune, un’immagine inizialmente dipinta e poi, al tramonto del XIV secolo, scolpita nel legno.
L’aver voluto porre in Orsammichele l’effige della santa fu un gesto estremamente significativo: l’oratorio,sovvenzionato da una tassa pubblica, era insieme chiesa e granaio per la città: fu una delle costruzioni più importanti dell’età comunale a Firenze: Allocarvi l’icona della santa stava, quindi, ad indicare l’ufficialità e la natura civica del “ nuovo culto” , della venerazione che le si voleva tributare. L’altare divenne fulcro della festa, intorno ad esso si affollavano i fedeli offrendo doni alla figura di Sant’ Anna, per la quale venne coniato il fiorentinissimo appellativo di “ Santa avvocata della Libertà cittadina” . Difatti il Governo deliberò che “” nel dì della beata Anna, madre della Vergine gloriosa, per la liberazione della città e dei cittadini e per la liberazione del giogo pernicioso e tirannico, nella ricorrenza della festività di S. Anna, dai priori, dagli altri Rettori della città e dai Consoli delle Arti si dovessero fare offerte di ceri e danaro davanti all’immagine di detta Santa in San Michele”” (provvisione dell’ 11 gennaio 1344, stile fiorentino, 1345 stile moderno) . E ancora, “ s’ordinò, per unire ai sacri riti pubbliche feste popolari, che in quel giorno medesimo si corresse un palio del valore di 32 fiorini d’oro e che si cavassero fuori le bandiere delle Arti e venissero appese a Orsammichele” Niente doveva turbare il giorno deputato dalla Signoria alla commemorazione della santa e, insieme, della rinnovata libertà e pertanto venne decretato che “ nessuno dovesse essere preso per debito, né i magistrati rendere giustizia, ne verum artefice tenere aperte botteghe o uffici pena lire 25 a chi trasgredisce” .
Gli oboli donati alla Santa nel suo giorno, per volontà del governo del Comune, venivano consegnati ai Capitani di Orsammichele, i quali , “ prelevatene le spese occorrenti a festeggiare quella solennità” , destinavano quanto rimaneva per due terzi ai poveri e per un terzo al Monastero di Sant’Anna già sorto nel 1318, in oltrarno, in località Verzaia. Un monastero femminile benedettino al quale per celebrare i fatti del 1343, la Signoria decise nel 1359 di edificare una nuova chiesa.
A partire dal 1370 una imponente processione interessò la Firenze di qua e di là d’ Arno poiché si snodava fra Orsammichele e il Monastero di Verzaia; una processione giocosa, resa immortale , più tardi, dai superbi colori di Jacopo Pontormo che la dipinse, fra il 1528 e il 1529, in un cammeo all’interno di una grande tavola per l’altare maggiore della chiesa di Verzaia. Il dipinto con sant’Anna Metterza e Santi (oggi al Museo del Louvre) fu voluto per rinnovare un’immagine divenuta “fuori moda” così come i Rettori di Orsammichele avevano gia stabilito per il loro Oratorio, commissionando nel 1522 a Francesco da Sangallo la scultura in marmo della Sant’ Anna Metterza (1522-1526) che tutt’ora possiamo ammirare sull’altare di Sant’ Anna.
Nel corso del XIV e del XV secolo il culto di Sant’ Anna protettrice di Firenze divenne sempre più importante a quanto testimoniano ulteriori leggi promulgate a favore di Orsammichele e in omaggio alla santa. “ Il Gonfaloniere servendo d’esempio a tutti a mezza messa offriva un regalo di frutte , d’allora il popolo inventò figure e uomini ritratti al naturale con teste e mai di cera colorata per regalarli in omaggio alla santa”.
L’iconografia di “ Santa Anna dei fiorentini “ rimase radicata fino al primo Cinquecento quando la famiglia Medici al potere volse l’effige civica della santa a vantaggio della propria politica, facendola divenire protettrice del casato, e, insieme, quando i dettami della Controriforma ridettero alla sua figura la sola connotazione di madre della vergine come il linguaggio artistico coevo attesta.
Con il ritorno dell’icona tradizionale della santa anche la festa che si svolgeva in città il 26 luglio iniziò a perdere lo sfarzo che la connotava per poi smarrirsi nelle pagine della storia. Dell’antico splendore sopravvisse pallidamente, per la caparbietà di pochi,l’esposizione dei vessilli delle arti all’esterno di Orsammichele fino a quando, alcuni anni fa, l’Amministrazione Comunale di Firenze decise di riproporre la festa del 26 luglio attraverso un corteo storico, che si dipana fra Palazzo vecchio, la Cattedrale ed Orsammichele, nuovamente fulcro della città per un giorno, e dando vita, di anno in anno, a conferenze, e a convegni e a manifestazioni con l’intento di non far sopire i contenuti storici, oltre che culturali, di tale giorno nei fiorentini e in tutti coloro che popolano la città nella bella stagione.
Ha , dunque, nuova vita una festività da intendere come un giorno consacrato alla libertà voluta dagli operosi fiorentini del medioevo, senza la quale non avrebbe avuto origine la grandezza economica, culturale e morale della Firenze del Rinascimento , eredità forte per la Firenze contemporanea.


(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

sabato 10 luglio 2010

CALCIO IN COSTUME FIORENTINO

Giugno

IL CALCIO IN COSTUME FIORENTINO

Un capitolo di storia della città


Oggi nei prestigiosi locali del Palagio di Parte Guelfa, dove si respira ancora, senza rendersene forse ben conto, un’atmosfera particolare, ha la sede il Calcio Storico Fiorentino, istituzione che perpetua l’uso antichissimo di giocare al pallone legato tradizionalmente alla vita cittadina.
Difatti, come ci tramandano le cronache, il calcio è un gioco di palla a cui, da tempi remoti, partecipavano due schiere di giovani intenti a cercare di far passare, oltre la delimitazione finale del campo avversario, un pallone fatto di stracci o composto di involucro riempito di fieno, paglia, capelli e piume o, nella maggior parte dei casi, da una vescica di animali gonfia d’aria e ricoperta di pelle cucita a spicchi per ricavarne la rotondità.
Secondo antiche testimonianze “ il gioco del calcio” è nato " sulla cara, felice, inclinata riva dell’Arno " e soltanto dopo secoli è trasmigrato su quella del Tamigi dove, mutato il nome in Foot- Ball (gioco della palla a piede) ed affinate le regole, ha conseguito quella fama, oggi, universalmente riconosciuta.
Il calcio fiorentino, detto anche “ calcio in costume” o “calcio in livrea” , è un gioco che affondale sue radici in tempi remoti. Il primo vocabolario italiano del 1612, degli Accademici della Crusca, avvalora la tesi fornendo la seguente definizione: " … è calcio anche il nome di un gioco, proprio e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinato, passato da’ Greci a’ Latini a noi" Quindi gioco " proprio e antico" di Firenze le cui origini, remotissime, vanno però cercate prima dai Greci e poi dai latini.
Il calcio fiorentino non fu altro che uno dei tanti modi per allietare la balda gioventù, felice di giocare con quel corpo sferico di varie grandezze, che sappiamo essere stato usato in tutte le parti del mondo. Nell’antica Grecia venivano comunemente effettuate ludiche ricreazioni con la palla organizzando gare dai nomi di “Feninda” , di “Episciro” , e, più conosciuto, di “Sferomachia” (che traeva il nome proprio della sfera in gioco) , nel quale due gruppi di pari numero di giocatori, contendendosi accanitamente la palla, offrivano uno spettacolo più vario ed agonistico che, al tempo stesso, comprendeva l’esercizio della corsa, del salto e della lotta. Dai Greci, questo ludo, passò ai Romani i quali, con il nome di Harpastum (strappato a forza) lo giocavano sui terreni sabbiosi (per cui il nome harpastum era spesso aggettivato con pulverulentum) praticando precise regole alle quali le due squadre, sempre uguale il numero di giocatori, dovevano attenersi.
La competizione aveva carattere virile e aspro. Lotte serrate e continui “corpo a corpo” per il possesso della palla (che sollevavano un gran polverone) tempravano lo spirito e sviluppavano il fisico dei giocatori: Soprattutto per queste caratteristiche fu il divertimento preferito dai legionari dell’esercito Romano,i quali abitualmente lo praticavano. Quindi gioco che potremo definire”militare” per eccellenza e pertanto volutamente introdotto nell’addestramento dei reparti. E’ proprio l’Harpastum , radicato nel costume di vita dei romani, venne sicuramente esportato da quei legionari che stanziarono nella colonia Florentia da loro fondata l’anno 59 avanti l’era cristiana. Sull’Arno poi, dal divertimento militare capitolino, come ormai tutti concordano, prese vita il “ calcio fiorentino” . Infatti l’Arpasto divenne più tardi il gioco tipico della città, come affermano dagli scrittoriche ne hanno narrato usi e costumi.
A Firenze l’antico gioco romano cambiò nome da “Arpasto “ a quello di “ calcio” (termine che indica chiaramente uno dei modi con cui veniva colpita la palla) e, con il nome, anche alcune regole fondamentali. Si mantenne però inalterata la disposizione in campo dei giocatori come l’ordine dei reparti in battaglia dell’unità tattica della legione romana, suddiviso in quattro linee orizzontali parallele: i “ Veliti” (fanti armati alla leggera e perciò molto veloci) , gli “ Astati” (armati di lancia che dovevano ostacolare l’avanzata dei nemici) , i “ Principi” (componenti forti e robusti armati pesantemente, considerati i migliori soldati di protezione) ed infine i “Triari” che rappresentavano l’ultima riga di difesa, scelti fra i più anziani e valorosi. Queste quattro linee di battaglia furono esattamente mantenute nel Calcio fiorentino dagli “ Innanzi” o “ Corridori” (in numero di quindici) , dagli “ Sconciatori” (cinque) chiamati così perché spintonavano gli avversari per frenare l’impeto, dai “ Datori innanzi “ (quattro) e dai “ Datori addietro” (tre) e poi erano gli estremi difensori sui quali ricadeva l’ultima speranza di respingere o bloccare il palone degli avversari nell’intento di segnare la “ caccia” (goal) vincente.
A questo punto , degno di rilievo e d’interesse, appare evidente come pure nel moderno schieramento in campo delle squadre di foot-ball, , di derivazione inglese, la disposizione sia ugualmente sulle solite quattro linee: cinque attaccanti, tre mediani, due terzini e un portiere. Effetto dell’Arpasto sicuramente introdotto anche in Inghilterra dai legionari di cesare ? Oppure suggerimento dei mercanti e banchieri fiorentini che per ragioni di commercio e d’affari vi soggiornavano ?
Il calcio veniva praticato a Firenze quotidianamente ed in maniera estemporanea da tutti direttamente per le vie e le piazze, con palle o palloni: giocavano i giovani e gli adulti durante le soste del lavoro e in occasione di qualche festa di rione, giocavano i nobili disputando partite “ organizzate” particolarmente suntuose e curate nella messa in scena. Ma la partita più celebre, passata agli onori della cronaca per il critico momento storico in cui si verificò, fu quella giocata il 17 febbraio 1530 durante l’assedio di Firenze, un po’ per non interrompere l’usanza del gioco nel periodo di Carnevale, un po’ come sfida al nemico assediante.
Il calcio in Livrea continuò a svolgersi senza interruzioni fino al Settecento quando le partite, almeno quelle organizzate caddero in disuso. L’ultima gara ufficiale si svolse nel gennaio del 1739 in piazza Santa croce e dopo questa il secolare gioco si spense del tutto, almeno come pubblica manifestazione di spettacolo solennemente preparato, per riapparire solo più tardi nel 1898 e nel 1902.
In contemporanea, la palla, scomparsa con il gioco del calcio fiorentino, veniva riportata in auge attraverso il nuovo fott-ball che gli inglesi stavano esportando in tutto il mondo, anche se la sua origine sportiva attuale, come abbiamo visto, era tutt’altro che iniziata in Gran Bretagna.
Attualmente il calcio storico Fiorentino è più di una affascinante e spettacolare manifestazione a livello mondiale! E’ una grande rievocazione storica che anima una tradizione locale contribuendo a tenere vivo, anche in clima moderno, il carattere fiero della città, conservando l’antico volto di Firenze contro le inevitabili ingiurie del tempo, degli uomini e dei mutati costumi.
Ogni anno i consensi e le acclamazioni di entusiasmo si rinnovano da parte del pubblico presente alle tradizionali partite: basti dire che la manifestazione suscita sempre quell’entusiasmo e quell’ammirazione che raramente rievocazioni storiche riescono ad ottener in maniera così favorevole specialmente da parte di migliaia di turisti italiani e stranieri che accorrono a Firenze per godere non solo del suo patrimonio artistico ma anche per assistere alle partite del calcio in Livrea.
La rievocazione viene organizzata ogni anno nel mese di giugno per la festività di San giovanni Battista, patrono della città, e nel giorno a lui dedicato, il 24, le celebrazioni in suo onore, che hanno termine con i coloratissimi e gioiosi fuochi di artificio che , al piazzale Michelangelo, illuminano Firenze tutta, coinvolgono in primo luogo il Calcio Storico. Riproporre le partite del Calcio in Livrea per la principale festività cittadina oltre a voler documentare l’origine prettamente fiorentina del gioco del calcio, dimostra anche l’intimo legame che questa partita ha con la storia e la cultura di Firenze.
Il multicolore corteo, composto da 550 “ figuranti “ , con le “ livree “ dei calcianti, le cinquecentesche divise dei nobili fiorentini (scelti fra i discendenti delle famiglie storiche cittadine) e dei fanti, con le armi e le bandiere dell’epoca, ci riporta come per incanto nell’eccitante, allegra e festosa atmosfera del Rinascimento. Tutto è come allora: costumi, armi, armature, insegne, musiche e comandi.

Quando la partita ha inizio, subito i 54 calcianti ( 27 per squadra) accesi da spirito di parte e ansietà di vittoria, intrecciano trame di fitti passaggi, prese aeree del pallone, zuffe, plateali placcaggi e mischie dando vita a un gioco vivo e serrato che ha qualcosa del moderno foot-ball, del rugby e della lotta libera.
Ad ogni “caccia “ (goal) segnata, lo sparo delle colubrine sancisce il punto per l’una o l’altra squadra; solo allora si inverte il campo. I giocatori della squadra che ha marcato con il sorriso sulle labbra e la bandiera del proprio quartiere spiegata al vento, i vinti con la faccia seria e l’insegna bassa ed avviluppata all’asta.
L’accanimento dei contendenti rende, via via più cruenta la lotta ed accresce, per conseguenza, l’ansia del pubblico e delle rispettive tifoserie accorse a sostenere la squadra del cuore. Alla fine, dopo cinquanta minuti, la formazione vincente riceve in premio una bianca vitella ritirata festosamente dai calcianti ormai con le maglie a brandelli o a torso nudo . Come è noto niente di niente è corrisposto ai giocatori come paga venale monetaria. Niente di mercenario in queste battaglie combattute solo per fare vincere il colore del proprio Quartiere. Unico compenso la vitella o, meglio un quantitativo di bistecche ad essa equivalente, da consumarsi in un lieto banchetto finale.
Dopo la consegna dell’ambito premio, il corteo ricompone lo schieramento iniziale: gli ultimi squilli di tromba e il rullare di tamburi si dissolvono cadenzando il rutilante gioco dei vessilli magistralmente giostrati dai Bandierai degli Uffizi. Il corteo sfila imponente e gagliardo come al tempo della repubblica fiorentina: anche i giocatori,veri rappresentanti del popolo escono di scena.
Questo è il Calcio Storico Fiorentino che vive e si svolge nell’agonismo di quartiere e con fiorentinissimo spirito, manifestando a tutti la fisionomia antica e sempre nuova della città , facendola ricordare, oltre che per il suo immenso ed ineguagliabile patrimonio artistico, anche per questo gioco che ogni anno si rinnova sotto gli occhi di una folla sempre più varia, riportata come in un sogno nel fascinoso periodo rinascimentale.
Il Calcio Storico è organizzato, nel rispetto dell’antica tradizione, con specifico Comitato che ha i propri uffici e sede nel Palagio di Parte Guelfa.



(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

venerdì 9 luglio 2010

LA MAGGIOLATA

Maggio

LA MAGGIOLATA

I profumi, i colori gli spettacoli della primavera fiorentina fra antico e moderno

Il Maggio musicale fiorentino è una delle manifestazioni artistiche fra le più prestigiose, a livello mondiale, come tutti ben conoscono. Pochi, tuttavia, si soffermano sulle motivazioni che , in origine, hanno indotto ad organizzare a Firenze un festival musicale in un determinato periodo dell’anno da cui derivarne addirittura il nome: Il “ Maggio musicale fiorentino” altro non è che il frutto moderno di una antica gioia di vivere che in primavera vede cadenzare annualmente la sua ciclica rinascita e che una Firenze antica, inondata di fiori, onorava principalmente con balli, musiche e rappresentazioni teatrali.
Il “ Calendimaggio” , antica festa della primavera, si celebrava infatti a Firenze, “città del fiore” , il primo giorno di Maggio con festeggiamenti che si prolungavano praticamente per tutto il mese. La festa cominciava il 30 di Aprile con la sospensione di ogni attività mercantile ed artigiana e l’inizio di sfilate e cortei per le vie cittadine fra l’allegria della folla che colmava le strade, le finestre e i balconi, ornati per l’occasione da festoni di alloro, arazzi e bandiere. Per lungo tempo la festa, di origine pagana, ebbe anche un impronta religiosa tanto che era usanza inghirlandare tutti i tabernacoli e alla Compagnia del Ceppo si offrivano addirittura fiori benedetti.
A Calendimaggio l’Arte dei Calzolai onorava solennemente San Filippo suo protettore, allestendo un altare sul quale si celebravano messe all’aperto davanti alla statua del santo eretta in un edicola all’esterno di Orsanmichele e tutto addobbavano con la propria bandiera , con fiori, con alloro e lumi, nonché con la consueta “fiorita”, un tappeto per terra di foglie e fiori primaverili.
I lieti tradizionali conviti di Calendimaggio accoglievano intorno alle mense, di popolo e di signori, parenti amici e vicini che vi intervenivano. Nel Calendimaggio del 1274, come ricorderà più tardi il Boccaccio, Dante, allora fanciullo di nove anni , incontrò per la prima volta Beatrice.
Le canzoni dette “ maggi” , erano cantate da brigate di giovani e di ragazze che, in quel giorno, ornata la testa da ghirlande di fiori e intrecciando danze sotto la direzione della neoeletta “ regina di maggio” o “ sposa di maggio” andavano di casa in casa presso le fanciulle fidanzate, ricevendo in cambio fiori. Le comitive dei “ cantamaggio”, che usavano arricchire le loro melodie con rifioriture e ritornelli, e dei “ maggiaioli” , cioè colore che cantavano le “ maggiolate” e serenate, erano precedute da un giovane che portava” il majo” ramo fiorito ed infioccato che rappresenta la primavera. Altri rami fioriti venivano appesi alla finestra e alla porta di casa dell’innamorata e delle fanciulle più belle. Di queste celebrazioni primaverili numerose sono le testimonianze poetiche, anche dotte, fra le quali quella famosa di Agnolo Poliziano e le ballate del Magnifico Lorenzo dè Medici. Al Poliziano si deve una delicata descrizione della festa: “ Ben venga maggio, E il gonfalon selvaggio, Ben venga primavera, che vuol l’uomo s’innamori. E voi donzelle a schiera, con li vostri amadori, che di rose e di fiori, vi fate belle in maggio, Venite alla frescura delli verdi arboscelli”.
Al “maggio lirico” si affianca il “maggio teatrante” una vera e propria rappresentazione teatrale:di argomento religioso , famoso il “ maggio di sant’uliva” , romanzesco , storico e classico era scritto e diretto dal capomaggio. Il Calendimaggio era, in sintesi, tutto ciò che rende lieto l’animo dell’uomo: canto, gioca, danza, amore,mensa e spettacolo. Uno spettacolo che continua ad altissimo livello nei maggiori teatri fiorentini nel corso del “ maggio musicale fiorentino” e che prende via anche in altre forme.
Nel mese di maggio regnavano e regnano sovrani i profumi e i colori dei fiori nelle campagne intorno a Firenze così come ancora oggi il cuore della città, piazza della Signoria, si apre ad una miriade di colori che fluttuano con armoniosa eleganza . I colori del maggio cittadino sono quelli dell’antico ed affascinante “ gioco delle bandiere” Le bandiere svolazzano con maestria e con impegno nel corso del prestigioso “ Trofeo Marzocco” una importante gara quadrangolare fra gruppi di sbandieratori di città Italiane che da circa vent’ani si svolge a Firenze la prima domenica di maggio. Per molti anni la vittoria è stata appannaggio di fortissimi Bandierai degli Uffizi Fiorentini ormai noti non solo al pubblico fiorentino e di varie parti d’Italia ma anche oltre i confini grazie alle loro applaudite manifestazioni in diversi paesi di tutto il mondo. Nella disputa fiorentina i Bandierai degl’uffizi, di volta in volta, tengono testa ai gruppi prestigiosi come gli sbandieratori della città di Asti o quelli della Quintana di Ascoli Piceno o della giostra del Saracino di Arezzo.
Il Trofeo si articola in due distinte discipline: la cosiddetta “Piccola squadra” , che impegna un gruppo limitato di sbandieratori selezionati da ogni gruppo in gara, e la “ Grande squadra” , con esercizi solitamente articolati e di grande effetto spettacolare eseguiti da un minimo di otto alfieri. Sempre nell’ambito della manifestazione viene assegnato un premio speciale al migliore dei quattro gruppi di Musici che accompagnano gli esercizi , che per i colori fiorentini sono i “ Tamburini e Trombetti degl’Uffizi”. Dalla comparazione di queste tre classifiche viene infine assegnato dalla giuria il trofeo.
I colori e i fiori del maggio cittadino, sono inoltre, i protagonisti del ricordo ancora oggi di un avvenimento storico che segnò, forse più di ogni altro, il passaggio di Firenze dal XV al XVI secolo.
Il 23 maggio di ogni anno ha luogo la cerimonia della “Fiorita” . Celebrata una messa nella Cappella dei priori in Palazzo Vecchio, si forma un corteo di frati domenicani e di cittadini, con alla testa le Autorità comunali, civili e religiose, che scende nella sottostante piazza della Signoria dove sparge petali di rose, tra rami di palme, sulla lapide circolare situata sul lastrico della piazza, che segna il punto dove fu impiccato e arso Fra’ Girolamo Savonarola assieme ai suoi due confratelli, Fra’ Domenico Buonvicini da Pescia e Fra’ Silvestro baruffi da Firenze. Questa odierna cerimonia prende origine dalla pietosa, spontanea iniziativa popolare che vide, la mattina dopo la morte del predicatore, il luogo del supplizio coperto di fiori.
Girolamo Savonarola, nato a ferrara nel 1452, iniziò la sua vita religiosa nel Convento di San Domenico a Bologna. Nel 1482 giunse a Firenze e nel 1491 fu eletto priore del Convento di San marco. Dotato di parola persuasiva e trascinante, predicò una riforma del costume nel Clero e nel popolo sostenendo, contro la signoria dei Medici, la Repubblica fiorentina costituita sotto l’egida del Cristo.
In occasione delle feste di carnevale , per riportare i costumi dei cittadini all’antica austera semplicità e moralità, mettendo al bando ogni sorta di frivolezze, il Savonarola organizzò il “ bruciamento delle vanità” cioè la distruzione dei libri ritenuti " disonesti, lascivi, e vani" , presi dalle abitazioni e bruciati sulle piazze in grandi falò. Ben presto fu accusato dai suoi nemici di indisciplina ecclesiastica e di intemperanza religiosa, per le sue accese prediche contro la corruzione dei costumi, per le apocalittiche profezie di futuri flagelli a Roma e a Firenze per erigersi a riformatore di uno stato Repubblicano: Il Savonarola fu quindi sottoposto a vari interrogatori, processato e condannato con i suoi due confratelli all’impiccagione e al rogo.
All’alba del 23 maggio 1498, alla vigilia dell’Ascensione, i tre religiosi dopo avere ascoltato la santa messa nella Cappella dei Priori nel Palazzo della Signoria, furono condotti sull’arengario del palazzo stesso dove subirono la degradazione da parte del tribunale del Vescovo. Nello stesso luogo vi era anche il Tribunale dei Commissari Apostolici e quello del Gonfaloniere e dei Signori Otto di Guardiae Balia, questi ultimi i soli che potevano decidere sulla condanna. Dopo la degradazione i tre frati furono avviati verso il patibolo, innalzato nei pressi della Fontana del nettuno in seguito compiuta dal Giambologna , e collegato all’arengario del palazzo da una passerella alta quasi due metri da terra. La forca, alta cinque metri, si ergeva su una catasta di legno e scope cosparse di polvere da sparo per bombarde. Fra le urla della folla fu appiccato il fuoco q quella catasta che in breve fiammeggiò violentemente, bruciando i corpi ormai senza vita degli impiccati. Le ceneri dei tre frati,del palco e d’ogni cosa arsa furono portate via con delle carrette e gettate in Arno dal Ponte Vecchio, anche per evitare che venissero sottratte e fatte oggetto di venerazione da parte dei molti seguaci del Savonarola mescolati fra la folla. Dice infatti il Bargellini che “ci furono gentildonne, vestite da serve che vennero sulla piazza con vasi di rame a raccogliere la cenere calda, dicendo di volerla usare per il loro bucato” La mattina dopo, come già detto, il luogo dove avvenne l’esecuzione apparve tutto coperto di fiori, di foglie di palma e di petali di rose. Nottetempo, mani pietose avevano così voluto rendere omaggio alla memoria dell’ascetico predicatore, iniziando la tradizione che dura tuttora. Il punto esatto nel quale avvenne il martirio e oggi avviene la “Fiorita” era indicato da un tassello di marmo, già esistente, dove veniva collocato il “ Saracino” quando si correva la giostra. Questo lo si rileva da “ Firenze illustrata” di Del Migliore, il quale scrive così: “ … alcuni cittadini mandavano a fiorire ben di notte, in su l’ora addormentata, quel luogo per l’appunto dove fu piantato lo stile ; che v’è per segno un tassello di marmo poco lontano dalla fonte “. Al posto dell’antico tassello per il gioco del Saracino, v’è attualmente la lapide circolare che ricorda il punto preciso dove fu impiccato e arso “ frate Hieronimo” . La lapide, in granito rosso, porta un’iscrizione in caratteri bronzei


(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

mercoledì 7 luglio 2010

LO SCOPPIO DEL CARRO

Aprile
SCOPPIO DEL CARRO

Questa nota cerimonia fiorentina risale addirittura ai lontani tempi della prima crociata, indetta per liberare il Santo Sepolcro dalle mani degli infedeli.
Nel 1097, al comando di Goffredo di Buglione, duca della bassa Lorena,, i crociati, il cui nome derivò dalla croce rossa cucita sulla spalla destra della tunica bianca che ricopriva l’armatura, partirono per la Palestina, e nell’estate del 1099 posero l’assedio alla città di Gerusalemme che espugnarono il 15 luglio.
Secondo la tradizione fu il fiorentino Pazzino dè Pazzi a salire per primo sulle mura della città santa dove pose l’insegna bianca e vermiglia. Per questo atto di valore, Goffredo di Buglione gli donò tre schegge del Santo Sepolcro.
Rientrato in Firenze il 16 luglio 1101, il valoroso capitano fu festeggiatissimo ed accolto con solenni onori. Le tre pietre rimasero inizialmente conservate nel palazzo dè Pazzi e quindi consegnate alla chiesa di Santa Maria Sopra in Mercato Nuovo, per poi passare nell’adiacente Chiesa di San Biagio fino a quando , nel 1785, questa fu soppressa. Dal 27 maggio di quell’anno le sacre reliquie vennero definitivamente trasferite nella vicina chiesa dei Santi Apostoli dove tuttora sono gelosamente conservate.
Gli storici ci hanno tramandato che dopo la liberazione di Gerusalemme, nel giorno del sabato santo, i crociati si radunarono nella Chiesa della Resurrezione e, in devota preghiera, consegnarono a tutti il fuoco benedetto come simbolo di purificazione. A questa cerimonia risale l’usanza pasquale di distribuire il fuoco santo al popolo fiorentino. Difatti, dopo il ritorno di Pazzino, ogni Sabato Santo i giovani di tutte le famiglie usavano recarsi nella cattedrale dove, al fuoco benedetto che ardeva, accendevano rispettivamente una fecellina (piccola torcia) per poi andare , in processione cantando laudi, per la città a portare la fiamma purificatrice in ogni focolare domestico. Il fuoco santo veniva acceso proprio con le scintille sprigionate dallo sfregamento delle tre schegge di pietra del Santo sepolcro.
Con l’andar del tempo lo svolgimento della festa divenne sempre più articolato per cui venne introdotto l’uso di trasportare il fuoco santo con un carro dove, su un tripode, ardevano i carboni infuocati. Non si conosce quando, in sostituzione del tripode, si usarono i fuochi artificiali per lo “scoppio del carro” ma si ritiene che ciò risalga alla fine del Trecento (1300).
Alla famiglia Pazzi era affidata l’organizzazione del carro e l’onere delle relative spese. Il privilegio di questa antica famiglia cessò nel 1478, per una provvisione della Repubblica che cacciò i Pazzi dalla città a seguito della famosa congiura ordita da essi contro i Medici. I cospiratori vennero uccisi e la Signoria, per cancellare tutto ciò che era legato alla famiglia caduta in disgrazia, ordinò che non si facesse più lo scoppio del carro mantenendo solo, per tradizione, la distribuzione al popolo del fuoco benedetto, che doveva avvenire fra il Battistero e la Cattedrale.
I fiorentini però, non gradirono l’abolizione spettacolare dello "scoppio” e cercarono con tutti i mezzi di far revocare la provvisione del governo della Repubblica, e ciò non tanto per rispetto della famiglia Pazzi ma perché non volevano che l’offerta del fuoco pasquale ritornasse ad essere effettuata alla maniera semplice usata anticamente, senza più la caratteristica e fragorosa cerimonia ormai divenuta una consuetudine. Pertanto la Signoria ordinò ai Consoli dell’Arte Maggiore di Calmala, amministratori del Battistero, di provvedere ai futuri festeggiamenti così come si usava fare prima della congiura.
Nel 1494, scossa dalla predicazione di morale cristiana del frate domenicano Girolamo Savonarola, la città i Medici e un’altra provvisione governativa restituì alla famiglia Pazzi i suoi antichi diritti e privilegi, compreso quello dell’organizzazione del carro del Sabato Santo Questo carro era inizialmente molto più semplice di quello attuale, ed a causa delle deflagrazioni e delle vampate che sopportava ogni anno, a cerimonia avvenuta , doveva essere quasi del tutto ripristinato. Parve quindi giusto ai Pazzi allestirne uno molto più solido e imponente che dovesse durare per sempre Fu, dunque, costruito il grande carro del tipo “trionfale” a tre ripiani, che da secoli, se per più volte restaurato (anche dopo la tragica alluvione dell’Arno del 1966), gode ottima salute.
I fuochi di questo carro vengono incendiati da una colomba, o come si dice a Firenze dalla “colombina” , la quale altro non è che un razzo dalle sembianze di un bianco piccione.
L’antica festa ha sempre richiamato una gran folla di turisti, di cittadini e di numerosi contadini della campagna fiorentina che traevano gli auspici per il raccolto dal felice esito della corsa della colombina sulla corda, che doveva svolgersi senza alcun intoppo.
Se la cerimonia religiosa ha conservato nel tempo quasi immutato il medesimo rituale, l’orario dello scoppio è stato, viceversa, più volte variato. Attualmente nella mattina di pasqua, scortato da 150 fra armati, musici, e sbandieratori del Calcio Storico Fiorentino, il carro del fuoco pasquale, detto affettuosamente dai fiorentino “Brindellone”, si muove dal piazzale del Prato trainato da due paia di candidi bovi infiorati ed arriva al solito posto, in piazza del Duomo, fra il Battistero e la Cattedrale. I bovi vengono prontamente staccati ed in più moderno filo di ferro, che sostituisce la corda sugnata, viene teso a circa sette metri di altezza, da una colonna di legno, posta per l’occasione al centro del coro, fino a giungere al carro.
Mentre si procede a questa sistemazione dalla chiesa dei Santi Apostoli, nella piazzetta del Limbo, ha principio il corteo-processione preceduto dal Gonfalone di Firenze e dalla bandiera della famiglia Pazzi, con sacerdoti ed autorità, diretto al Battistero dove incominciano le funzioni religiose. Quindi il corteo si trasferisce in Duomo, e alle ore undici, al canto del Gloria in excelsis Deo , viene dato fuoco alla miccia della colombina che, sibilando, va ad incendiare i mortaretti ed i fuochi d’artificio sapientemente disposti sul Brindellone. Inizia con fragore lo scoppio assordante e , sia pure in maniera simbolica, la distribuzione a tutta la città del fuoco benedetto. L’imponente mole dell’antico carro si avvolge puntualmente di nubi e scoppi come se l’aria stessa emettesse scintille sempre più luminose. Scintille che ad un tratto non parranno più piccole luci distinte ma una vera pioggia di viola, di rosa, di rosso, di verde, di bianco e di blu. Il profilo del Brindellone scompare del tutto in questo caleidoscopico gioco di colori che, pian piano, unitamente al fumo ed agli assordanti scoppi, si dissipa rendendo nuovamente visibili i marmi del Battistero, della Cattedrale di Santa Maria del Fiore e del campanile di Giotto.



(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

martedì 6 luglio 2010

CAPODANNO FIORENTINO

Marzo

ANNUNCIAZIONE DI MARIA E CAPODANNO FIORENTINO

Da antichissimo tempo la Chiesa cattolica festeggia l’annuncio dell’incarnazione del Verbo dato a Maria Vergine da parte dell’Arcangelo Gabriele. Dal VII secolo tale ricorrenza viene fissata alla data del 25 marzo esattamente nove mesi prima di Natale, giorno della nascita di Gesù Cristo.
Legandolo a questo importante avvenimento,fino al 1750 Firenze iniziava l’anno civile non come adesso il primo gennaio bensì proprio per la festività di Maria Santissima; infatti l’anno fiorentino aveva principio ab Incarnatione, cioè dal momento dell’annuncio della maternità dato alla Vergine dall’Arcangelo. Quindi il 25 marzo, che coincide anche con l’arrivo della primavera, all’ombra del cupolone del Brunelleschi e in tutte le terre soggette al dominio della città, si festeggia il capodanno, differendo nel computo dell’anno di due mesi e venticinque giorni, anche quando i numerosi territori d’Italia sin dal 1582 era in vigore il calendario gregoriano in base al quale l’anno iniziava il 1 gennaio.
L’Annunziata” era dunque per i fiorentini una festa civile, religiosa e primaverile e a tal proposito un vecchio proverbio, sempre attuale, così recita: " Per l’Annunciazione la rondine è arrivata; e se un’ n’è arrivata, l’è per la strada o l’è ammalata". Ed è appunto in questo periodo d’inizio della primavera che ogni anno le garrule, agili rondini, dopo avere svernato in Africa, ritornano in Europa ai vecchi nidi o a costituirne nuovi, tutti eguali a forma di scodella, fatti di fango, piume ed erba, attaccati sotto i tetti e sui cornicioni delle case.
A Firenze una gran folla, sia cittadina che del contado, il 25 marzo si recava in festoso pellegrinaggio alla Basilica della Santissima Annunziata per venerare la miracolosa immagine in affresco dell’Annunciazione (ignoto toscano; XIV secolo) , il cui sacro volto della Vergine, secondo una antica leggenda, è ritenuto dipinto dagli angeli.
E’ probabile che tanta affluenza di popolo abbia dato origine alla tradizionale “fiera” che si svolge tuttora nella piazza antistante la chiesa, proprio per l’esigenza di fornire viveri e bevande a quella massa di gente giunta devotamente al santuario per festeggiare religiosamente il capodanno e per invocare o ringraziare la Vergine. Difatti, oltre alle bancarelle e alle gerle ricolme di tipici prodotti alimentari, erano venduti anche fiori, candele ed oggetti ex voto da offrire alla Madonna per grazia ricevuta o per adempiere ad una promessa.
Nella stessa basilica, a conclusione delle celebrazioni del capodanno, per la gioia di "un gran numero di persone venute da lontano" padri Serviti, la Signoria e, in seguito, i Granduchi facevano eseguire "bellissime musiche con gli organi".
Con la cosiddetta riforma gregoriana del calendario solare, bandita da Papa Gregorio XIII nel 1582, per l’imprescindibile necessità religiosa e civile di dividere il tempo in eguali periodi, si stabilì che l’anno dovesse incominciare universalmente il primo gennaio. Tale riforma fu decisa con il consiglio di una commissione di astronomi e teologi, secondo un piano elaborato da Luigi Lilio e basato sullo studio dei corpi celesti.
La riforma, che presentava evidenti vantaggi ai popoli della terra, fu preceduta da una importantissima azione svolta da Giovanni dè Medici quando, nel 1513, divenne Papa col nome di Leone X. Questo papa fiorentino, la cui politica fu soprattutto di equilibrio e di avvicinamento con le potenze europee, costituì una commissione di esperti per studiare un calendario universale che mettesse ordine nello svolgimento della vita civile dei vari popoli. L’intento era di eliminare la confusione di date e di tempi che portava sfasamento anche ai fini amministrativi e commerciali. Pertanto inviò in data 8 luglio 1516 a tutti i capi di Stato un suo “breve” con la sintesi della questione, invitando a darne divulgazione, cosa a cui provvidero tutti i paesi, in particolare modo quelli cattolici. Anche Firenze accompagnò con un bando l’esposizione della lettera ufficiale di Papa Leone X, facendola affiggere ai più importanti canti della città, nei vicariati, nelle capitanerie, podesterie e castellanie. L’invito del pontefice ebbe eco e risonanza in tutto il mondo e fu certamente il preludio della definitiva attuazione del successivo noto calendario gregoriano, adottato quasi ovunque, come già detto, a partire dal 1582.
Seppure tanti contributi scientifici erano partiti da Firenze, da menti come quelle del frate eremitano del Convento di San Gallo Antonio Dolciari, di Raggio, del frate domenicano Giovanni Tolosani, del matematico Basilio Lapi e dell’insigne Antonio Albizzi, la città continuò a seguire il tradizionale calendario con lo “stile fiorentino” e non quello attuato dall’importante riforma che offriva vantaggi di rapporti nel mondo. Così facendo il capodanno a Firenze continuò con caparbia tradizione ad essere celebrato il 25 marzo, rinviandolo di quasi tre mesi rispetto a quello ormai divenuto mondiale.
I fiorentini si devono sempre comunque distinguere, e soltanto dopo 168 anni si adeguarono al computo dell’anno secondo il calendario gregoriano grazie al decreto del Granduca Francesco II Lorena, datato 20 novembre 1749, che imponeva per gli usi commerciali e nelle scritture pubbliche, dal primo gennaio 1750, il rispetto della nuova scansione temporale. L’avvenimento fu considerato così eccezionale rivoluzionario nella tranquilla Firenze di quel tempo, che amava ovattarsi nelle abitudini assimilate quotidianamente, che ad immortalarlo fu posta una iscrizione marmorea, dettata da Giovanni Lami, sotto le logge dè Lanzi in piazza Signoria, dov’è tuttora visibile.
Ma ancora oggi nella ricorrenza annuale del 25 marzo festa dell’annunciazione, il Santuario della Santissima Annunziata, non solo famoso per la sua storia e per i suoi gioielli d’arte, è molto frequentato dai fiorentini (anche se non è più il giorno del loro capodanno), con continuo pellegrinaggio alla cappella della sacra effige dell’Annunziata.
Nella bella piazza una delle più eleganti del XV secolo, progettata da Filippo Brunelleschi, la ormai consueta fiera con le solite bancarelle colme di ninnoli, cartocci di brigidini, noccioline ed altre leccornie, seppur non più legata alla festività del primo giorno dell’anno, vede la folla ugualmente permeata dalla devozione mariana e dal brio legato al ritorno della primavera.
La festa del 25 marzo in Firenze, per molti secoli, ha intrecciato motivazioni religiose e laiche insieme. Se unitamente alle funzioni religiose, da sempre, il momento laico delle celebrazioni si esprime attraverso la fiera in piazza, a partire dall’anno 2000 l’Amministrazione comunale di Firenze ha scelto di rendere omaggio ufficialmente alla festa, così cometa Repubblica e il Granducato solevano fare . L’antico capodanno fiorentino viene ricordato con un corteo storico che si sviluppa nel percorso da PalazzoVecchio alla Basilica della Santissima Annunziata per far rinverdire nei fiorentini un significativo momento di aggregazione, con forti radici storici storiche, e per valorizzare la ricca memoria di Firenze, patrimonio di tutti.


(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

venerdì 2 luglio 2010

ANNA MARIA DEI MEDICI

Febbraio
ANNA MARIA DE’ MEDICI

Un patto d’amore fra il casato dei Medici e Firenze, fra Firenze e il mondo

Firenze è ancora oggi per i suoi abitanti e per il mondo intero, lo scrigno di tante gioie d’arte grazie ad una donna, ad una fiorentina di tanti anni fa corredata non dalla mentalità a lei contemporanea, non da una realtà politica a suo favore bensì solamente dalla sua cultura, dalla sua intelligenza e, non ultimo, dal suo sconfinato amore per le arti e per la città di Firenze. Questa donna non è altri che Anna Maria Luisa dè Medici ( 1667 – 1743) , l’ultima gran Principessa di Toscana, unica figlia nata dal matrimonio fra il Granduca Cosimo III e Marguèrite-Louise d’Orlèans , alla quale, dopo la morte del fratello Gian Gastone, toccò in sorte l’arduo compito di dover traghettare il Granducato di Toscana a un governo mediceo ad uno “straniero” con a capo la famiglia franco-austriaca dei Lorena.
Anna Maria Luisa, nota anche col titolo di Elettrice Palatina, che gli spettava a seguito del matrimonio, nel 1691, con l’Elettore Palatino Johann Wilhelm von der Pfalz-Neuburg di casa Wittelsbach (1658-1716), cedette il governo della Toscana ma non i beni d’arte che per secoli i Medici avevano collezionato, plasmando così l’odierna immagine di Firenze.
Da sempre, infatti, era legge e consuetudine che il nuovo casato subentrasse alla guida della città o di uno stato ereditasse dalla precedente famiglia anche le collezioni d’arte che, pertanto, erano soggette all’uso più consono al momento, al trasporto, allo scambio, all’abbellimento di una o dell’altra reggia al seguito degli interessi, delle esigenze o, semplicemente, dei desideri dei nuovi proprietari.
Le vicende del trapasso dei poteri dai Medici ai Lorena e della salvaguardia del patrimonio artistico fiorentino occuparono gli ultimi anni della lunga vita della caparbia Elettrice e segnarono il coronamento di un’intera esistenza dedicata a perpetuare, con tutti i mezzi, la gloria e la memoria della propria famiglia, la quale nel novero dei committenti d’arte vantava un posto d’onore come la città stessa testimoniava.
Agli albori dell’età dei Lumi, per difendere il patrimonio artistico di Firenze, impedendone la dispersione , Anna Maria Luisa decise di usare una nuova arma, l’arma del Diritto, l’unica a lei possibile.
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Così recita, o meglio ordina,l’articolo terzo della Convenzione tra Francesco Stefano di Lorena ed Anna Maria Luisa, firmata il 31 ottobre 1737 e più nota come “Patto di Famiglia” , con cui le collezioni d’arte raccolte dai Medici venivano cedute al nuovo Granduca ma alla condizione che rimanessero vincolate “per sempre” alla città di Firenze e allo stato di Toscana. Il “ Patto di Famiglia” ,confermato dalla Elettrice Palatina nel suo testamento del 5 aprile 1739, entrò in vigore alla sua morte, nel 1743, e salvò, quindi, dalla certa dispersione la gran parte delle celebri e ricchissime collezioni d’arte medicee, che rendono Firenze ancora oggi unica al mondo.
Se Firenze conserva uno dei patrimoni artistici più ricchi fra le città europee lo si deve pertanto alla Elettrice Palatina e alla sua limpida consapevolezza del significato, non semplicemente dinastico ma universale, del mecenatismo e del collezionismo medicei e dell’importanza di mantenere nel loro contesto d’origine le opere d’arte raccolte nel corso dei secoli.
Anna Maria Luisa non poteva trovare modo migliore per trasmettere intatta all’umanità la memoria della sua famiglia.
Alle ricchezze di Firenze noi moderni dobbiamo aggiungere, onorando l’Elettrice, il cammeo di una figura femminile modernissima per i suoi tempi sia come donna che come legislatrice a tutela ed a salvaguardia del patrimonio storico e artistico.
Il suo amore per Firenze e le arti non può essere contraccambiato dai fiorentini e da coloro i quali, da qualsiasi parte del mondo, vengono ad ammirare la città mantenendo vivo ancora oggi dell’ultima rappresentante della dinastia dei Medici. Nel 1743, grazie al suo patto, il 17 febbraio, giorno della sua morte, non vide la dipartita delle arti fiorentine; quel giorno fu comunque lieto per la cultura e dunque è importante che divenga un giorno di festa dedicato alla Elettrice,laicissima vestale di alti ed eterni valori, ed il giorno di riflessione sul suo messaggio antico e moderno, forte ed incisivo.
Ad Anna Maria Luisa va la riconoscenza di tutti, degli amanti dell’arte e di chiunque creda nella cultura attraverso cui un popolo può riconoscere se stesso e la propria storia, come venne compreso nel 1946 quando si vide nell’Elettrice una figura aggregante in nome di tutto quello che negli anni precedenti era stato calpestato e che, invece, doveva essere, necessariamente, a fondamento di una città da ricostruire. In quell’anno venne bandito dal Comune di Firenze un concorso per un monumento in onore di Anna Maria Luisa, in seguito realizzato dal maestro Raffaello Salimbeni, il quale scolpì in marmo di Carrara l’immagine dell’Elettrice oggi collocato all’esterno della Cappella dei Principi della basilica d San Lorenzo dove è custodito il sepolcro dell’illustre dama. L’interpretazione scultorea del Salimbeni ha donato una figura quasi evanescente, lontana dagli interessi e dai beni terreni, indomita e appagata, consapevole di avere salvaguardato l’anima della propria città.
Il Comune di Firenze, attualmente, in ricordo dell’ultima grande figura di Casa Medici ha deciso di dedicare alla generosa e lungimirante dama il giorno 17 febbraio. In tale giorno ha luogo in Palazzo Vecchio, una sua commemorazione che prelude all’omaggio a lei reso con un corteo storico, che si snoda da piazza Signoria alla Cappella dei Principi, e con le visite guidate gratuite alla stessa Cappella e ad alcuni dei maggiori musei cittadini –eventi possibili in collaborazione con organismi pubblici e privati-, le cui opere vivono in Firenze grazie anche ad Anna Maria Luisa de’ Medici.
Il 17 febbraio è quindi un giorno dedicato alla memoria, per fermarsi a riflettere su sull’eredità morale di Anna MariaLuisa, che sublima, in un certo senso, l’eredità di Firenze, il suo messaggio civile e culturale al mondo.


(Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)

giovedì 1 luglio 2010

L'Epifania

Gennaio
FESTIVITA’ A FIRENZE
Tradizioni e ricorrenze

L’ Epifania

L’Epifania è una delle principale feste religiose dell’anno, che la Chiesa cattolica festeggia dodici giorni dopo il Natale, IL 6 GENNAIO.
Questo vocabolo deriva dal greco Epifania cioè “manifestazione” assumendo nella tradizione cristiana il significato del primo manifestarsi dell’umanità e divinità di Gesù Cristo ai Re Magi.
Molti capolavori di pittura fiorentina di mano dell’Angelico, del Botticelli, di Leonardo, di Filippo Lippi, del Bozzoli, furono ispirati dall’Epifania; come pure, nel XII e nel XIII secolo, venivano cantate laudi per essa. Si ha notizia che la stamperia di San Iacopo di Ripoli, ancora nel 1480 e nel 1485, pubblicò delle laudi di Feo Belcari, una delle quali s’intitolava “ Dell’offerta dè Santi Magi” e suonava così “ Offerite tre doni al dolce Dio, Siccome è Santi Magi con gran fede: oro incenso e mirra col cor pio. E troverete Dio pien di mercede”.
Anche monna Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo il Magnifico, compose una laude da cui ci piace trarre alcuni versi: “ E’ Magi son venuti dalla stella guidati, cò lor ricchi tributi, in terra inginocchiati e molto consolati, adorando il Messia”.
Nel secolo XV aveva sede nella Chiesa di San Marco, cara a casa Medici, una compagnia di laici, i cui membri seguivano determinate regole a carattere religioso illuminate soprattutto dalla preghiera e dall’apprendimento dottrinale dei principi della fede cristiana. Essa era quella intitolata ai Santi Re Magi, così appellata per la particolare devozione che i suoi iscritti nutrivano per i tre regali sapienti, dediti all’astronomia, Melchiorre, Gaspare, e Baldassarre, rappresentanti le stirpi giapetica, semitica e camitica i quali, guidati dalla ben nota stella cometa, entrarono a Betlemme ad adorare Gesù Bambino offrendogli rispettivamente oro, incenso e mirra, e ritornando poi ai loro paesi per diffondervi la lieta novella. I tre popolarissimi sovrani sono considerati anche oggi, nel mondo cristiano, patroni dei viaggiatori, dei mercanti e dei cavalieri: Lo stemma della Compagnia, cappato di nero e di bianco, testimoniava quanto detto, mostrando nella parte nera centrale superiore una stella d’oro a sei punte, simboleggiante la cometa che fece strada ai Re Magi.
La Compagnia era famosissima in Firenze per la sua fastosa organizzazione della cosiddetta “Festa dei Magi” che fino a tutto il XV secolo essa per l’Epifania allestiva, con solenne apparato, nel centro cittadino ogni tre anni (dal 1447,ogni cinque).
Della Compagnia, detta anche “La Stella”, fecero parte i maggiori componenti della famiglia Medici. Annoverava pure confratelli di elevata cultura come Donato Acciaiuoli, uno dei più insigni umanisti ed oratori, Gentile Becchi, il notaio e studioso di letteratura latina Cristoforo landino, il quale sosteneva che “ era necessario esser latino chi voleva essere buon toscano” , Giovanni Nesi, Alamanno Rinuccini, Giorgio Antonio Vespucci ed il poeta Luigi Pulci.
L’origine del sodalizio risale probabilmente alla fine del XIV secolo, anche se la prima esplicita menzione della sua effettiva presenza nel panorama devozionale fiorentino si ha soltanto nel 1417: da un documento di quell’anno apprendiamo infatti che la Signoria decise di sovvenzionare la “ compagnia dè Magi que in ecclesia sancti Marci del Florentia congregatur” proprio per rendere ancora più fastoso il corteo da essa da essa organizzato , ogni tre anni, il 6 gennaio. Questa compagnia era certamente fra le più importanti confraternite del Quattrocento sia per la qualificata e imponente presenza dei suoi ascritti , sia perché era soprattutto seguita con particolare attenzione, per non dire gestita (a partire dal 1436), dalla famiglia Medici, amante del sapere e delle belle arti nonché deferente ai Re Magi tanto –solo per citare un esempio – da fare affrescare nella propria cappella del palazzo – oggi Medici Riccardi - di via Larga il celeberrimo e allegorico viaggio dei Magi a Betlemme . La pittura murale venne commissionata direttamente da Cosimo il Vecchio a Benozzo Gozzoli , il quale, nel 1459, lo dipinse prendendo più di un suggerimento dalle celebrazioni che si allestivano in città per l’Epifania,includendovi i membri della famiglia Medici, compreso Giuliano e il più famoso fratello Lorenzo in età giovanile.
Inizialmente fu proprio Cosimo il Vecchio a far si che in San marco avesse sede la Confraternita dei Santi Re Magi, la quale in principio si riuniva addirittura nella splendida cappella della sacrestia, dall’ampia volta a crociera, e poi si spostò nella vicina sala del Capitolo dove il Beato Angelico affrescò la Crocifissione, opera insigne.
La Compagnia dei Magi, la cui festività solenne ricorreva naturalmente il 6 gennaio, fu per anni, come già ricordato, l’organizzatrice dell’attenta rievocazione dell’ultima tappa del viaggio dei Re Magi. Gli scrupolosi confratelli organizzavano “ la cavalcata del Magi” , tre cortei separati che si riunivano poi davanti al Battistero (in seguito, a partire dal 1429, in piazza della Signoria) e proseguivano uniti fino alla Basilica di San marco dove veneravano Gesù Bambino incominciando così a recitare: “ Noi siamo i tre re venuti dall’Oriente , che abbiam visto la stella , annunciare la novella, del Signore . Per monti, piani e valli, lungo è stato il cammino, in cerca del divino, Redentore”. Tale rievocazione, di per se alquanto suggestiva, non pare però che avesse particolare valenza religiosa ma fosse essenzialmente considerata uno spettacolo, sia pure religioso. Nella Compagnia erano nominati appositi “ festaiuoli” i quali, secondo un decreto della Signoria, dovevano ricevere il massimo rispetto dagli altri confratelli.
La Compagnia dei Magi venne soppressa nel 1494, dopo la cacciata dei Medici da Firenze, probabilmente in seguito all’avversione che nutriva per essa il Savonarola, il quale vi vedeva uno strumento e una testimonianza di quel potere a lui cosi inviso. I locali dove i fratelli siriunivano vennero ceduti ai frati di San marco e la confraternita non fu più ripristinata perche la festa dell’Epifania incominciava a prendere un aspetto sempre più profano.
Nella corruzione popolare, infatti, la parola Epifania era divenuta in Firenze “Befanìa “ o “ Befana “ indicando la festa che dava inizio al periodo del Carnevale, con i primi cortei mascherati che derivavano direttamente dalle sacre rappresentazioni medievale, o “ misteri” , dedicati al viaggio dei Magi a Betlemme. In questa antica forma di rappresentazione della “ Befana “, gruppi di giovani appropriatamente vestiti, mimavano scene che si riallacciavano al significato religioso della festa. Col passare del tempo la sacra austerità dei misteri si attenuò, finche essi furono del tutto soppiantati dai profano cortei mascherati. Questi raggiunsero il massimo splendore nel Settecento, con sfilate di carri riccamente addobbati e spesso decorati da artisti che trasportavano varie Befane, figure femminili che significavano la festa, tra le quali una primeggiava per ricchezza e suntuosità di vesti principesche. Per la cronaca diremo che nelle “ Befanate “ del 1766 il carro più ammirato fu quello dei gioiellieri che raffigurava il Trionfo di Bacco. Sull’iniziale splendore delle vesti e dei carri, in seguito prevalse l’aspetto grottesco delle maschere e la festa assunse forme sempre più popolari.
La Befana era spesso attorniata da “ befanotti” o 2 Befani “, giovani dal volto tinto di nero, abbigliati in modo sgargiante e spesso ridicolo, che in qualche modo richiamavano i Re Magi.
Del viaggio e dei doni dai Magi alla capanna di Betlemme divennero simulacri la questua, che veniva fatta da gruppi di giovani la sera della vigilia, prima a vantaggio degli stessi questuanti e poi per pubblica beneficenza, e i cortei mascherati. Le canzoni di questua, dette “ Befanate “, accompagnavano la raccolta si distinguevano in religiose e profane. Queste ultime divennero, col tempo, sempre più numerose e frequenti. In cambio delle canzoni, i Befani ricevevano doni, consistenti spesso in solo vino.
I cortei mascherati provenivano in larga parte dai quartieri popolari : vi partecipava una gran folla rumorosa e schiamazzante che issava su larghe pertiche dei fantocci (“ befane”) fatti con cenci che rappresentavano donne e uomini in atteggiamento grottesco. Spesso questi fantocci erano trasportati su un carretto alla luce di fumose torce, circondati gruppi di giovani che suonavano in stridule e lunghe trombe di vetro ( usanza che si è protratta fino alla fine dell’Ottocento). I cortei convergevano sotto le logge del Mercato Nuovo, dove, in mezzo ad un gran fracasso, veniva dato fuoco alla Befana, come ci documenta un celebre dipinto del pittore macchiaiolo Giovanni Signorini.
In seguito a poco a poco la festa subì un processo di ulteriore, lenta trasformazione. In Firenze, come in gran parte della cristianità perse i suoi chiassosi caratteri pubblici e finì per essere riservata ai bambini. Vennero in primo piano gli aspetti paurosi e più adatti ad incutere timore, forse in questo rifacendosi ad uno dei significati originari degli antichi misteri medioevali, quello della rievocazione delle stragi degli innocenti voluta da Erode: “ Nina nanna , ninna oh! ,questo bimbo a chi lo do?, Lo darò alla Befana , che lo tenga una settimana, lo darò all’omo nero , che lo tenga un mese intero”.
E nello stesso tempo, quasi per esorcizzare e compensare tale effetto di paura, si privilegiò il momento dell’offerta dei doni, adatta anch’essa ai gusti dei piccoli destinatari. Nasceva così il personaggio della Befana, l’immagine di una vecchietta bruna e cadente ma magicamente buona e generosa, che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio passava sulla terra con un gran sacco di regali sulle spalle. Scendeva, mentre nelle case dormivano, attraverso le cappe dei camini per lasciare, ai bambini cattivi, cenere, carbone e grosse cipolle rosse e, ai bambini buoni, dolci, giocattoli e oggetti di uso personale, sistemandoli nelle calze che, prima di andare a letto, i bambini stessi appendevano al camino, prototipi per le calze confezionate ai nostri giorni industrialmente.
Se tale usanza è sempre rimasta viva a Firenze come altrove, la rievocazione dell’Epifania nei suoi aspetti maggiormente culturali, oltre che cultuali, per molto tempo nella città aveva come unico araldo lo sfavillante affresco del Gozzoli finché per volontà dell’amministrazione Comunale di Firenze, in concerto con l’Arcivescovado della città e l’Opera del Duomo, la splendida “ cavalcata dei Magi” non è stata riproposta ai grandi e piccini. Tutti, in tale occasione, possono ricercare in essa, fra i tanti significati (religiosi, culturali, di aggregazione…) che i fiorentini vollero e vogliono darle, quello che più li aggrada I “ Magi” dalle suntuosi vesti, accompagnati dal Corteo della Repubblica Fiorentina, sfilano seguendo un percorso che si snoda, partendo da piazza Pitti lungo le antiche vie cittadine, per raggiungere la piazza del Duomo dove, all’interno della cattedrale di Santa Maria del Fiore e alla presenza delle massime autorità religiose, vano ad offrire doni all’immagine di Gesù Bambino, bambino circondato da tanti bambini della città in un giorno che diviene il loro giorno, fra lanci di palloncini con i messaggi al Bambinello e i doni distribuiti dall’Opera del Duomo di Firenze.

Quanto sopra è stato ripreso da una ricerca fatta da Luciano Artusi – Anita Valentini con il patrocinio dell’Assessorato alle feste e Tradizioni del Comune di Firenze)