geronimo

lunedì 12 dicembre 2016

GIUSTO SBAGLIATO

Giusto e sbagliato *





Le parole "giusto" e "sbagliato" sono tra le più frequentemente usate per indicare la correttezza o meno di un procedimento, di una risposta, di un enunciato, ecc. Qui le analizzeremo in relazione all'uso che ne viene fatto nell'ambito certamente più ambiguo e problematico: quello morale. Infatti, se da un lato la moralità viene spesso considerata universale e dotata di un carattere cogente, dall'altro vi è un ampio disaccordo su cosa è giusto e cosa è sbagliato. La facile constatazione che giusto e sbagliato non sembrano essere gli stessi per tutti induce a credere che in ambito morale il punto di vista migliore sia il relativismo; in effetti - se non sappiamo dire perché certe azioni come la tortura, l'omicidio, il furto, lo stupro ecc. sono sbagliate - quale giustificazione possiamo addurre per opporci ad esse? La moralità è solo una questione di preferenze, o possiamo fornire valide ragioni a sostegno delle nostre convinzioni morali? 

La parte della filosofia che tratta questioni simili è in genere conosciuta come
 etica o filosofia morale. Questa disciplina risponde dunque a domande del tipo: "che cosa significa che un'azione è giusta o sbagliata?", "come bisogna vivere?", "come dobbiamo comportarci con le altre persone?". A tali interrogativi sono state fornite risposte diverse, che permettono di parlare di almeno tre tipi di teorie morali: deontologiche, consequenzialiste e basate sulla virtù. 

Le
 teorie etiche deontologiche pongono l'accento sul fatto che ciascuno di noi ha certi doversi (azioni che deve o non deve compiere) e affermano che agire moralmente consiste appunto nel rispettare tali doveri, qualunque conseguenza ne possa derivare. A questo tipo appartengono l'etica cristiana e l'etica kantiana. 
Le
 teorie etiche consequenzialiste giudicano se un'azione è giusta o sbagliata non in base alle intenzioni della persona che la compie ma, appunto, alle conseguenze dell'azione stessa. La teoria etica consequenzialista più conosciuta è l'utilitarismo, il quale ha le sue radici più antiche nell'edonismo (ricerca del piacere) e nell'eudemonismo (ricerca della felicità). 
La
 teoria etica della virtù si basa in larga misura sull'Etica nicomachea di Aristotele, e per questa ragione è talvolta chiamata neoaristotelismo. A differenza delle altre due, che (seppure in modo diverso) concentrano la loro attenzione sul carattere giusto o sbagliato delle singole azioni, questa teoria si interssa al carattere e alla vita degli individui nella loro interezza, sostenendo che si deve vivere coltivando sempre la virtù, intesa come la realizzazione delle proprie potenzialità. 

Consideriamo rapidamente le teorie citate, rilevandone, accanto ai caratteri generali, le possibili obiezioni che ad esse possono essere rivolte.
 

1. L'etica cristiana
 
L'etica cristiana, fondandosi sulla
 Bibbia, giudica il giusto e l'ingiusto come derivanti dalla volontà di Dio. Nel decalogo, in particolare, è elencata una serie di doveri e proibizioni ai quali bisogna attenersi per comportarsi giustamente. Ai dieci comandamenti, si affianca il motto del Nuovo testamento: "ama il prossimo tuo". 
Molti hanno pensato che senza Dio non può nemmeno esistere una morale. Il grande scrittore russo Fedor M. Dostoevskij, ad esempio, ha affermato: "se Dio non esiste, tutto è permesso". Tuttavia all'etica cristiana è possibile muovere varie obiezioni, la più grave delle quali è che essa presuppone l'esistenza di Dio e la sua benevolenza, ma in pratica né l'una né l'altra possono essere date per scontate. Sulla prima gravano i limiti conoscitivi dell'uomo; la seconda è posta in dubbio dalla presenza del male nel mondo (presenza che, se giustificata, mette in crisi l'effettiva onniscienza e/o l'onnipotenza di Dio stesso).
 

2. L'etica kantiana
 
La teoria etica di Kant, sebbene egli fosse un cristiano devoto, non si basa sull'esistenza di Dio ma sulla convinzione che vi sono dei doveri "categorici", cioè assoluti, universali. Per Kant, infatti, un'azione è morale solo se è compiuta per "senso del dovere", e non perché mossi da un'inclinazione o per compassione. Egli pensava che la morale fosse un sistema di
 imperativi categorici (ad es.: "bisogna sempre dire la verità", "non si deve mai uccidere"), riconducibili comunque a un solo imperativo fondamentale: "agisci solo seguendo massime che tu possa al tempo stesso volere come leggi universali". In altre parole, bisogna agire solo seguendo massime che vorremmo si applicassero imparzialmente a tutti. Questo principio è conosciuto come principio di uiversalizzabilità, che è in fondo una versione della regola d'oro del cristianesimo: "fai altri altri ciò che vorresti fosse fatto a te". Un'altra delle versioni kantiane dell'imperativo categorico è: "tratta le altre persone come fini in sé, e mai come mezzi per un fine". 
Anche per l'etica kantiana si possono sollevare obiezioni. La prima riguarda la perplessità in cui essa lascia nel caso in cui due doveri entrino in conflitto. La seconda è il ruolo secondario che essa assegna a emozioni come la simpatia, la pietà, ecc. La terza è che essa non tiene conto delle conseguenze delle azioni, ma solo ed esclusivamente conto delle intenzioni. Coloro che trovano convincente quest'ultima critica alle teorie deontologiche apprezzeranno probabilmente il tipo di teoria etica consequenzialista.
 

3. L'utilitarismo
 
Come detto, la forma di teoria etica consequenzialista più conosciuta è l'utilitarismo. Esso si fonda sull'assunzione che gli scopi ultimi di tutta l'attività umana siano il piacere e la felicità. Poiché una felicità universale pare implausibile, per un utilitarista un'azione giusta sarà quella che produce la massima felicità complessiva: tale principio è detto
 principio di utilità. 
La critica principale che si può rivolgere all'utilitarismo è che in sostanza è molto difficile misurare la felicità e confrontare la felicità di persone diverse. Ad esempio, chi può confrontare il piacere provato da un tifoso di calcio per la vittoria della sua squadra con i brividi provati da un appassionato lettore di fronte a un idillio di Leopardi? E come si possono paragonare queste esperienze con sensazioni di piacere fisico quali quelle suscitate dal sesso o dal cibo? Un'altra obiezione all'utilitarismo è che esso può giustificare molte azioni che normalmente consideriamo immorali: se per esempio si dimostrasse l'effetto deterrente prodotto dall'impiccagione di un innocente, un utilitarista sarebbe obbligato ad affermare che tale azione è moralmente giusta (ma una simile conclusione può sembrare a molti assolutamente ripugnante).
 

4. Teoria della virtù
 
Solo coltivando la virtù, dice Aristotele, si "fiorisce" come esseri umani. Ma che cos'è la virtù? Si tratta di uno schema di riferimento in base al quale regolare il proprio comportamento e in virtù del quale si possono provare determinate sensazioni. Ad esempio, chi possiede la virtù della generosità proverà sentimenti generosi e agirà di conseguenza nelle situazioni appropriate. Dunque, a differenza di Kant, Aristotele riteneva che il provare determinate emozioni sia un fattore determinante per condurre una vita buona e giusta.
 
Una seria critica che possiamo rivolgere alla teoria della virtù è che essa presuppone l'esistenza di una
 natura umana, e perciò l'esistenza di schemi di comportamento appropriati per tutti gli uomini (ma una simile concezione è stata messa in dubbio da molti filosofi, come ad esempio Sartre). Un'altra obiezione è che essa induce a pensare che ci siano virtù più desiderabili di altre, per cui ogni elenco di tali virtù rischia in realtà di derivare dai pregiudizi, dai gusti e dal modo di vivere di chi lo compila. 

5. Relativismo
 
La coesistenza conflittuale delle teorie etiche induce molti a un atteggiamento relativistico. Appare infatti evidente che persone appartenenti a società differenti abbiano idee ed usanze diverse riguardo a ciò che è morale; che insomma non c'è un consenso universale su quali azioni siano giuste o sbagliate. Altrettanto chiaro appare il fatto che le concezioni morali cambiano da luogo a luogo e da un periodo storico all'altro, di modo che la morale sembra appunto relativa alla società in cui si è cresciuti. Tali constatazioni fanno pensare che non ci sono valori morali assoluti, e che pertanto l'ottica più corretta, in etica, sia quella relativistica.
 
Una prima obiezione al relativismo morale è che esso pecca di incoerenza: esso infatti sostiene che tutti i giudizi morali sono relativi, ma al tempo stesso considera la propria posizione come "assolutamente" vera. Ancor più serie appaiono le sue conseguenze pratiche: infatti, esso non lascia spazio per la critica dei valori morali di una data società (per esempio, in una società in cui sia dominante la concezione secondo cui alcuni crimini vanno puniti con la pena di morte, chiunque contestasse la pena di morte commetterebbe un'azione immorale).
 

Come si può evincere da questa breve discussione, l'etica è una branca della filosofia vasta e difficile. Per questo, e per le sue implicazioni pratiche, le discussioni intorno ai quesiti da essa sollevati sono tuttora al centro del dibattito filosofico.
 



torna all'indice

Riscoprire i valori perduti

RISCOPRIRE I VALORI PERDUTI

Quest’anno , anno santo della misericordia, voglio intrattenere chi legge sull’ importanza, almeno per me, di riscoprire i valori smarriti della vita.
 “Nel mondo di oggi ciò di cui abbiamo bisogno è un gruppo di uomini e donne decisi a schierarsi dalla parte del giusto ed opporsi all’ingiusto, dovunque si verifichi. Un gruppo di persone che abbiano capito che alcune cose sono ingiuste, anche se non vengono mai scoperte. Alcune cose sono giuste, anche se nessuno ti vede mentre le fai.
Voglio dire soltanto che il nostro mondo poggia su cardini del fondamento morale. Dio lo ha fatto così. E’ stato Dio a fare  l’universo fondato su una legge morale…
Questo universo è incardinato sulle fondamenta della morale . In questo universo c’è qualcosa che giustifica queste frasi: “ nessuna menzogna può vivere per sempre” , oppure , “ La verità che è stata schiacciata a terra tornerà a sollevarsi” , ancora,   “ Raccoglierete quel che seminate” .
Quando ero giovane, e avevo davanti a me la maggior parte della vita, decisi di donare fin dal principio la mia vita a qualcosa di eterno e di assoluto. Non a questi piccoli dei, che oggi ci sono e domani non ci sono più. No: a Dio che è lo stesso ieri, oggi, sempre.
Se vogliamo andare avanti, dobbiamo tornare indietro e riscoprire questi valori preziosi: che tutta la realtà è incardinata su fondamenti morali e tutta la realtà è soggetta al dominio dello spirito.”

 Ogni tanto immagino, tutti noi pensiamo in modo realistico al giorno in cui resteremo vittime di quello che è il definitivo comune denominatore della vita: quella cosa che chiamiamo morte. tutti noi ci pensiamo. E di tanto in tanto io penso alla mia morte, e penso al mio funerale. Di tanto in tanto mi domando: “ Che cosa vorrei che dicessero?”.

DEMOCRAZIA DIRETTA - SVIZZERA

Campioni delle urne, la Svizzera è la patria della democrazia diretta
In media, gli svizzeri vanno a votare quattro volte l’anno. Il popolo è sovrano e può votare sulle leggi del Parlamento e le modifiche costituzionali. Fino alle votazioni per alzata di mano in alcuni cantoni
L’ultimo è stato il referendum sul reddito minimo per tutti, bocciato dal 78% dei votanti. Se c’è un Paese dove il popolo è sovrano, questo è la Svizzera. Nella confederazione dei 26 piccoli staterelli, detti cantoni, i cittadini partecipano direttamente al processo decisionale politico. In media, vanno a votare almeno quattro volte l’anno sui temi più disparati, dal raddoppio delle gallerie alla discriminazione della famiglia tradizionale. Le consultazioni propositive o abrogative sono continue, per questioni federali, cantonali o comunali. Le piccole dimensioni del territorio, unite al numero ridotto degli abitanti (8 milioni) e alle grandi differenze interne, hanno favorito questa formula detta di democrazia semidiretta o semirappresentativa.
Significa che democrazia diretta e democrazia rappresentativa convivono. Gli svizzeri eleggono ogni quattro anni i 200 membri del Parlamento, che ha il potere legislativo. Ma il popolo ha la sovranità delle decisioni politiche dello Stato. Per cui può esprimersi su tutte le leggi, e deve votare su qualsiasi revisione della Costituzione. I due strumenti a disposizione degli svizzeri sono il referendum e l’iniziativa popolare.
Ogni modifica della Costituzione federale e ogni adesione dello Stato a un’organizzazione internazionale è sottoposta a referendum obbligatorio. Il quorum non esiste. Ma per essere approvato, il testo deve avere la doppia maggioranza del popolo e dei cantoni. Nel 2001, ad esempio, si votò a larga maggioranza per introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione, in modo da far fronte alla crescita del debito pubblico. L’anno dopo, nel 2002, si votò invece per l’ingresso nelle Nazioni Unite.
In qualità di aventi diritto di voto, se si vuole modificare la Costituzione, ogni svizzero può lanciare un’iniziativa popolare: basta raccogliere 100mila firme in 18 mesi. Contrariamente a quanto succede nei Cantoni, a livello federale però con una iniziativa popolare non si può chiedere una nuova legge o una modifica a una legge già esistente. Le iniziative pendenti di modifica della Costituzione in fase di raccolta firme a fine giugno vanno dal congedo di paternità “ragionevole” al divieto dissimulare il proprio viso, dallo stop alla “dispersione degli insediamenti” all’autodeterminazione contro l‘ingerenza dei “giudici stranieri”.
Prima di essere sottoposta a votazione popolare, l’iniziativa passa al vaglio del governo e del Parlamento. Se la proposta divide il Parlamento, il processo può durare anche diversi anni. Se il Parlamento riconosce la legittimità delle rivendicazioni dell’iniziativa, ma non condivide la soluzione, può opporle un controprogetto. Magari più moderato. Può anche succedere però che il comitato promotore dell’iniziativa sia soddisfatto del controprogetto e decida di ritirare il proprio testo. In questo caso l’iniziativa non è sottoposta a votazione popolare. Dal 1987, nelle votazioni popolari sulle iniziative è possibile approvare sia l’iniziativa sia il controprogetto. E con una domanda risolutiva si stabilisce poi quale dei due testi deve entrare in vigore nel caso in cui entrambi ottengano la maggioranza dei votanti e dei cantoni.
A questi strumenti della democrazia diretta ricorrono spesso formazioni politiche e sociali che faticano a ottenere una maggioranza nel Parlamento. Si tratta spesso della sinistra, sui temi economico e sociale, e della desta più conservatrice, per temi legati all’identità nazionale e agli stranieri. Che spesso assumono derive populiste. Succede però anche che a farne uso siano piccole associazioni o privati cittadini, che difficilmente riescono però nel loro obiettivo.
Le iniziative popolari, però, si rivelano utili per lanciare dibattiti su argomenti che altrimenti non verrebbero trattati dal Parlamento. E in alcuni casi i promotori riescono a veder soddisfatte parte delle loro rivendicazioni, tramite la produzione del controprogetto parlamentare. Ma ci sono anche casi, seppur rari, in cui le iniziative bocciate dalla maggioranza del Parlamento ottengono la doppia maggioranza di popolo e cantoni. Un esempio: l’iniziativa che consente agli azionisti di influire sulle rimunerazioni dei top manager, promossa dal piccolo imprenditore Thomas Minder, è stata approvata nella votazione federale del 3 marzo 2013, con il sì di circa il 68% dei votanti e di tutti i cantoni.
Altra cosa è il referendum facoltativo. Se il Parlamento approva una nuova legge, la popolazione di regola non viene chiamata alle urne. Se però vengono raccolte 50mila firme di aventi diritto al voto, oppure otto cantoni chiedono di votare nell’arco di cento giorni, allora si andrà a votare. Il referendum facoltativo dà la facoltà agli oppositori del testo di farlo sottoporre a votazione popolare. Al momento, ad esempio, sono in fase di raccolta firme 33 referendum facoltativi, che riguardano decreti che vanno dal lavori nei trasporti pubblici alla registrazione delle malattie tumorali.
Ma nonostante il coinvolgimento della popolazione nelle decisioni sia così alta, la partecipazione degli svizzeri agli appuntamenti elettorali tutto sommato è piuttosto bassa. Certo, varia molto in base al tema, ma raramente si supera il 40 per cento. Ma il quorum non esiste. E il risultato del referendum è sempre valido, a prescindere da quante persone abbiano votato.
E poi si arriva anche alle forme più spettacolari di democrazia diretta. Nelle votazioni di piazza nei piccoli cantoni rurali dell’Appenzello Interno e Glarona, tutti i cittadini che godono del diritto di voto si riuniscono in assemblea in una piazza e votano per alzata di mano per eleggere amministratori e deliberare leggi locali.
Ma nonostante la spettacolarità di alcuni casi e le derive populistiche di altri, la democrazia diretta resta uno dei pilastri del modello svizzero. La classe politica sente la pressione della popolazione e procede con attenzione, sia nella spesa del denaro pubblico sia nella produzione legislativa sui temi caldi. I cittadini sono continui controllori della classe politica. In ogni momento una decisione popolare può bloccare i lavori e rimettere in discussione l’operato politico.



LA DEMOCRAZIA DIRETTA

LA  DEMOCRAZIA DIRETTA
La storia della democrazia diretta viene giustamente fatta iniziare con l’esperienza della Grecia di Atene grosso modo dal 400 al 320 a.C. Non ci sono dubbi che i cittadini ateniesi avessero e utilizzassero la possibilità di esprimersi direttamente con la discussione e con il voto sulle tematiche di interesse per la loro città e di decidere. «Direttamente» si esprimevano con un voto per espellere, per periodi più o meno lunghi, ma anche definitivamente, coloro che avessero malmeritato, violando le leggi: l’ostracismo. L’esperienza politica importante dopo quella ateniese non fu tecnicamente «democratica» per un insieme di ragioni, ma soprattutto per le limitazioni al numero dei partecipanti e all’attribuzione del potere politico. Tuttavia, nella Roma repubblicana si tennero elezioni, vi fu rappresentanza politica, si ebbe ricambio regolare nella leadership. Non vi furono, invece, modalità di democrazia diretta. Saltando una lunga fase, sicuramente di eclissi non soltanto della democrazia, ma anche della politica, i Comuni , in Italia più che altrove, ebbero forme di politica e di rappresentanza, ma non di democrazia diretta, vale a dire, di possibilità per la cittadinanza di prendere collettivamente decisioni importanti. Né queste decisioni vennero concesse ai cittadini della florida e ben governata Repubblica di Venezia.
Colui che argomentò vigorosamente la necessità della democrazia diretta, senza dubbio influenzato dal contesto in cui viveva, fu l’illuminista ginevrino J.-J. Rousseau (1712-1778). Non soltanto ritenne che la democrazia non potesse che esprimersi in forma di partecipazione personale e diretta, che garantiva e manteneva la libertà di tutti e consentiva la formazione della volontà generale, ma rafforzò la sua preferenza (e formulazione) criticando la democrazia degli inglesi, l’unica allora effettivamente esistente. Rousseau affermò sarcasticamente che gli inglesi si credevano liberi perché votavano per eleggere i loro rappresentanti. Ma, liberi soltanto una volta ogni cinque anni, erano sottomessi al potere politico per tutto il resto del tempo. In verità, Rousseau si sbagliava. Gli inglesi erano liberi anche nel periodo che intercorreva fra le elezioni. Potevano associarsi, protestare, fare giungere critiche, sollecitazioni e proposte ai loro rappresentanti. Ma la loro certamente fu, fin dagli inizi, ed è rimasta rigorosamente e convintamente una democrazia parlamentare e rappresentativa. Gli inglesi, segnatamente E. Burke (1729-1797), guardarono con preoccupazione e deplorazione ai tentativi effettuati dai rivoluzionari giacobini di introdurre in Francia forme di democrazia diretta, peraltro, di breve e non brillante durata. Infatti, come sottolineò F. Furet, il linciaggio a furor di popolo degli aristocratici e dei preti nel settembre 1792, fu l’atto finale della democrazia diretta, consegnata alla Costituzione giacobina sotto forma di mandati corti dei rappresentanti e di assemblee popolari per la ratifica delle leggi. Venne rapidamente sostituita dalla democrazia rappresentativa, ovvero dalla Convenzione che si assunse la responsabilità di emanare la condanna a morte del sovrano Luigi XVI nel gennaio 1793. Curiosamente, fu sulle altre rive dell’Atlantico, nella nascente democrazia USA, che inglesi, dissenzienti religiosi e loro discendenti, fecero ampio ricorso alla democrazia diretta. I fedeli e i credenti si riunivano nelle loro chiese e nelle loro piazze dove, dopo scambi di idee e dibattiti anche accesi, decidevano, direttamente. Rapidamente, in quelle stesse comunità, spesso piccole, coese e piuttosto omogenee, dal punto di vista religioso e sociale, furono i cittadini a chiamarsi a raccolta, a consultarsi, a riunirsi dando vita ai cosiddetti town meeting. Queste modalità di democrazia diretta non sono mai del tutto venute meno negli Stati Uniti d’America. Nel contesto europeo, di lenta democratizzazione e di faticosa affermazione della democrazia parlamentare, la rappresentanza prese il sopravvento su quel poco che c’era stato, tranne in Svizzera, di democrazia diretta. L’ultima, grande e vivida fiammata di democrazia diretta si ebbe, con la benedizione di K. Marx, nella Comune di Parigi (marzo-maggio 1871), breve e tragico esperimento di autogoverno, nel corso del quale venne anche introdotto un principio, già circolante nel contesto USA: quello della revoca (rappelrecall) degli eletti. Rimanendo in Europa, è la Rivoluzione bolscevica che sembrò aprire nuovi spazi e grandi opportunità alla democrazia diretta con la creazione dei consigli (Soviet) dei contadini e degli operai (anche dei marinai nella breve epopea dell’insurrezione di Kronshtadt). Sarebbe, però, stato davvero sorprendente se quell’accentratore di V.I. Lenin avesse proceduto lungo la strada della democrazia diretta, d’altronde non presente neppure nel pensiero politico di L.D. Trockij. Anche se in Europa, sia a Monaco di Baviera (1919) sia a Torino (1920), vi furono imitazioni di consigli operai rivoluzionari accompagnati da autogestione delle fabbriche, qualsiasi velleità rimasta di democrazia diretta venne spenta in Unione Sovietica dall’ascesa di I.V. Stalin. Il partito unico è totalitario: altri spazi politici sono inesistenti. Al di fuori del partito nessuna attività politica è concessa. Dentro il partito rimane il centralismo democratico ovvero il dominio della segreteria, il centro, sulla democrazia.
Nella maniera che si conviene a una democrazia decentrata, cangiante ed effervescente, elementi di democrazia diretta continuavano a sussistere un po’ dappertutto sul territorio statunitense. Nessuna ricognizione è possibile proprio per la manifestazione spontanea e non regolamentata di quelle esperienze. Volendo, si potrebbe tornare alla famosa dichiarazione di A. Lincoln a Gettysburg (1863) sulla democrazia: «government of the people, by the people, for the people». Il popolo si esprime attraverso (of) le elezioni, ma può anche governare direttamente (by) e il governo deve perseguire l’interesse (for) del popolo. L’affermazione e il consolidamento della democrazia parlamentare rappresentativa fatta funzionare dai partiti, essenziali a una democrazia di questo tipo, cancellò, tranne che in Svizzera (incidentalmente, caso di democrazia federale con forma di governo direttoriale), qualsiasi «residuo» di democrazia diretta. D’altronde, nelle democrazie dei grandi numeri di elettori, per di più, almeno fino al secondo dopoguerra, con basso livello di istruzione, la rappresentanza attraverso i partiti era l’unica garanzia che interessi e preferenze della maggior parte degli elettori venissero effettivamente presi e tenuti in considerazione dagli uomini di partito, dai loro candidati e dai loro eletti, tutti interessati alla rielezione. Di democrazia diretta non si parlò praticamente più per un periodo di diversi decenni, anche se con pochi politici e qualche studioso caddero nell’equivoco, più o meno voluto e consapevole, di identificare la democrazia diretta con l’elezione (popolare) diretta dei capi degli esecutivi, in primis, dei presidenti delle repubbliche latino-americane. Non è così. Ed è egualmente sbagliato pensare che la democrazia partecipativa non possa che essere democrazia diretta. Molte democrazie parlamentari rappresentative sono innervate da solide reti di associazioni, partiti compresi e spesso centrali, che garantiscono ampie possibilità di partecipazione politica. Comunque, tutte le democrazie sono, in qualche misura, partecipative: i cittadini partecipano alle elezioni, oltre che, ogniqualvolta lo desiderino, a qualsiasi attività politica associandosi e manifestando, in una pluralità di forme, approvazione o contestazione. Non è probabilmente casuale che la richiesta di forme e di modalità di democrazia diretta abbia fatto la sua ricomparsa con i movimenti del Sessantotto. Da un lato, si affacciava alla politica una nuova generazione, quella dei babyboomer nati dopo la Seconda guerra mondiale e cresciuti in un periodo di grandi opportunità, aspettative, speranze, nonché attrezzati con un più elevato livello di istruzione. Dall’altro, cominciava a manifestarsi la crisi dei partiti e della loro capacità di comprensione delle nuove domande politiche, non più soltanto ordine e sicurezza e stabilità dei prezzi, ma anche libertà di parola e opportunità di autorealizzazione. Il segnale più forte e più evidente di ricomparsa della democrazia diretta avviene in due situazioni, lontane fra loro e per questo particolarmente significative: l’Italia e la California. Nel 1970, la legge attuativa del referendum, ancorché soltanto abrogativo, aprì la strada in Italia a una lunga stagione referendaria cominciata nel 1974, ma probabilmente giunta a esaurimento nel 2009: 62 referendum svoltisi nell’arco di 35 anni. In California, il referendum è più correttamente un’iniziativa legislativa popolare che viene sottoposta da un certo numero di elettori (ma, oggi, da potenti lobbies in grado di raccogliere le firme necessarie) a tutti gli elettori. La nuova fase iniziò con la dirompente Proposition 13 che ridusse significativamente le tasse sulle proprietà immobiliari e che, incidentalmente, aprì la strada alla «rivoluzione neoconservatrice» del futuro presidente R. Reagan. Continua con la possibilità di «mettere» sulle schede elettorali per tutte le consultazioni importanti tematiche da decidere per via referendaria (di recente, la più frequentemente inserita è il matrimonio fra persone dello stesso sesso). La maggior parte delle democrazie parlamentari (e semipresidenziali) europee sono rimaste relativamente estranee a spinte e fenomeni di democrazia diretta. Tuttavia, praticamente ovunque in Europa si sono avuti referendum, in particolare concernenti tematiche europee, adesione e approvazione dei trattati. Persino la patria del modello Westminster, nella quale il Parlamento è sovrano, ha delegato agli elettori attraverso un referendum tenuto nel 1975 la sua adesione all’allora Comunità economica europea. 
Dal punto di vista della teorizzazione, hanno fatto la loro comparsa almeno due fenomeni di notevole rilevanza: da un lato, la democrazia deliberativa, dall’altro, il bilancio partecipativo. La prima è essenzialmente uno strumento complesso e delicato che mira a raccogliere le preferenze dei cittadini, a istruirli, a plasmare una decisione largamente condivisa attraverso forme di coinvolgimento e modalità di apprendimento e di decisione. Ovviamente, il livello di applicazione è quello delle comunità municipali. Il bilancio partecipativo è, invece, davvero uno strumento di democrazia diretta con il quale i cittadini decidono come, a quali attività, in che modo devolvere una parte del bilancio della loro comunità. 

Infine, secondo alcuni, la democrazia diretta sta finalmente per diventare possibile grazie alla disponibilità degli strumenti tecnologici più avanzati e moderni. Mentre, comunque, negli USA ritornano alla ribalta veri e propri town meeting, almeno come situazione nella quale gli eletti, persino il presidente B. Obama, accettano di partecipare e confrontarsi oppure, addirittura, li fanno organizzare, la California ha nuovamente offerto un esempio della effervescenza (e volubilità) della sua politica producendo nel 2003 il secondo esempio di revoca (recall) popolare di un governatore in carica. L’unico altro caso si verificò in precedenza nel Nebraska nel 1921. Grazie a Internet sembra diventare possibile una sorta di agorà telematica nella quale i cittadini, con un minimo di digital divide, vale a dire di diseguaglianza fra categorie – giovani e anziani, istruiti e no, che hanno accesso e possibilità differenziate –, godono della enorme opportunità di comunicare fra loro, per es., con i blog, e, eventualmente, persino di decidere in tempo reale. Grandi sono i rischi per una democrazia che non sia soltanto diretta, ma anche «istantanea». E, anche chi voglia andare oltre ovvero, piuttosto, arricchire la democrazia rappresentativa, sente che si pone il problema: ma la democrazia è decisione oppure è «conversazione per la decisione»?