geronimo

martedì 21 maggio 2013

MONASTERO ISOLA DI SAN GIULIO (Piemonte)


16) Itinerari, luoghi della fede

MONASTERO ISOLA DI SAN GIULIO
La perla del lago d’Orta, in provincia di Novara a quattrocento metri dalla riva, sorge l’isola di San Giulio lembo di terra ideale per la meditazione e la spiritualità situata nel Piemonte.

Nell’isola lunga 275 metri, larga 140 e per un perimetro totale di 650 metri, la presenza umana è attesa fin dai tempi del neolitico. In età romana il sito piemontese risulta essere stato abbandonato, ma è probabile che sia stato un centro di culto precristiano, e fu forse quella la ragione per cui San giulio decise, attorno al 390, di costruirvi una chiesa. Fornendo basi storiche alla leggenda, le indagini archeologiche hanno portato alla luce resti di una antica chiesa datata fra la fine del V e VII secolo.  La posizione strategica dell’isola la rese, nell’alto medioevo, un importante centro difensivo: alcune tradizioni dibattute identificano nel castello che sorge sull’isola quello edificato dal vescovo di Novara, Onorato, che nel VI secolo in questo luogo avrebbe  eretto una “ castrum” a difesa della comunità. Ad accoglier il visitatore, una scalinata che conduce alla basilica romanica, dalla quale, mediante la “ via del silenzio”, unica strada che percorre l’isola ad anello, si raggiungono l’ottocentesco palazzo dei vescovi e l’abbazia benedettina Mater Ecclesiae, convento femminile di clausura. Le altre residenze, che un tempo erano le abitazioni dei canonici, oggi sono private.
Il monastero: Dal 1973 l’isola ospita il monastero benedettino Mater Ecclesiae, che ha sede nel seminario diocesano nato nel 1841 sulle ceneri del castello medioevale. L’attraversamento dell’acqua, necessario per raggiungere l’isola, è già metafora dell’abbandono della materialità per addentrarsi in un mondo fatto di pace ed operosità.
Provenienti dall’abbazia milanese di Viboldone, le monache benedettine di clausura giunsero sull’isola per praticare una vita ispirata alla Regola, e dunque alla preghiera, al lavoro, all’obbedienza, alla povertà e all’umiltà. Erano in sei, guidate da madre Anna Maria Canopi, la badessa, e oggi sono circa 70 (2013). Nel monastero vengono svolti studi e ricerche su testi antichi e traduzioni  e pubblicati sussidi sul Lactio divina.
Vengono inoltre. Convenzionati paramenti sacri, prodotti a mano tessuti con antiche tele, preparate le ostie-pane e dipinte icone originali.
Un’esistenza immersa nel silenzio: La giornata delle monache comincia molto presto, con la preghiera delle 4,50 del mattino, e si conclude alle 20,45, ma nelle domeniche di Avvento e di Quaresima la sveglia è anticipata alle 3,40. Nel corso della giornata, le benedettine si dedicano allo studio, al lavoro manuale e artistico, secondo il celebre motto del loro fondatore “Ora et labora”. Senza radio né televisione, con un uso limitato della stampa e del telefono, le monache comunicano tra loro soprattutto con i segni. “ Senza la disposizione al silenzio, spiega la badessa, madre Canopi, l’ascolto della parola diventa impossibile.
Il silenzio è presente in noi, è Dio in noi. L’esperienza del silenzio coincide con l’esperienza mistica della presenza di Dio. Il nostro servizio di oranti richiede solitudine e distacco per una visione più ampia : più si va in alto, più l’orizzonte si allarga, più ci si avvicina a Dio, più in lui si vede e si abbraccia tutta l’umanità.
La nostalgia del cielo: Ogni anno sono migliaia le persone che raggiungono l’isola, attratte anche dalle bellezze artistiche e naturalistiche. C’è una piccola foresteria, in una casa, in cui viene dato spazio all’ospitalità . Chi lo volesse può ritirarsi per qualche tempo in quest’oasi di pace e contemplazione e partecipare alle liturgie della comunità: l’isola è perfetta per vivere una esperienza di preghiera, lontano dalla frenesia della quotidianità. “ Chi  viene qui, racconta la badessa, scopre l’isola come luogo di preghiera, sente che c’è davvero una presenza, la nostra presenza, quella di chi ama Dio. Chi vive l’esperienza  di diversi giorni nel silenzio riparte con una carica nuova  per affrontare la vita di tutti i giorni e se ne va via con la nostalgia  del cielo. Una volta, ricorda, è venuta una donna per un ritiro, ed è rimasta sconvolta. Ha detto che non poteva non credere che Dio esistesse, perché qui l’aveva visto.
La basilica di San Giulio: Alcune tracce archeologiche rivelano la presenza, tra il V e il VI secolo, di una primitiva basilica, con una piccola cappella ed un unico abside. Gli eventi bellici del 962 hanno portato al danneggiamento della chiesa altomedioevale e quella attuale, a tre navate, è di impianto romanico, ma è stata rimaneggiata molte volte dopo la sua edificazione, risalente al XII secolo sul modello dell’antica cattedrale di Novara.
La facciata, ben visibile navigando sul lago, conserva un aspetto romanico. La basilica, con le volte a crociera, è affrescata con dipinti barocchi, alcuni raffiguranti episodi della vita di San Giulio. In una cappella, le statue di legno del Crocifisso con la Madonna e San Giovanni evangelista ai piedi della croce. Un’urna in vetro e argento conserva, all’interno della cripta, il corpo di San Giulio.
L’ambone romanico. All’interno della basilica è custodito un prezioso ambone in serpentino proveniente dalla vicina cava d’Oria, scolpito con i simboli degli evangelisti e con scene di lotta del bene contro il male.
Quella raffigurazione è la storia dell’uomo: l’anima paralizzata dalla paura è rappresentata dal cerbiatto che subisce un assalto delle fiere. Nel discorso che si dipana, tra il leone simbolo dell’evangelista Marco e l’aquila di Giovanni, si inserisce una figura umana che potrebbe essere l’homo viator, viandante, col bastone di pellegrino, o la rappresentazione di un grifone che vince sul male azzannando la coda di un drago.

La fondatrice del monastero:

Monaca Benedettina di clausura, Anna Maria Canopi è voce esperta di spiritualità biblica e liturgica, autrice di molti libri sul tema e fondatrice dell’abbazia Mater Ecclesiae. Quest’isola ha un suo fascino particolare, afferma la badessa, una vocazione, perché è nata come luogo di contemplazione. Qui San Giulio è arrivato dopo una lunga peregrinazione, qui si è fermato e ha aspettato  di essere chiamato alla vita eterna. Qui tutto richiama la vocazione originaria di quelli che hanno vissuto dopo di lui pregando santamente. Noi siamo venute con questo intento, di essere presenza di preghiera. I tanti pellegrini che giungono qui, invece spesso, non sanno bene cosa vogliono. Poi una volta arrivati, lo scoprono. Mi piacerebbero venissero a cercare il Signore, confessa, mettendosi in silenzio, in ascolto e in preghiera per disporsi  interiormente a ricevere la sua parola, le sue ispirazioni, la forza della fede e anche dell’amore, così da diventare strumenti di pace nel mondo. Tra coloro che bussano alle porte del monastero anche tanti giovani: La cosa principale è invitarli a concepire la vita come un dono ricevuto e che si deve restituire perché solo così ha senso, altrimenti è un seme che non germoglia, una pianta che non da frutto.
Tutti coloro che arrivano all’isola di San giulio, prosegue, di solito sono presi dalla nostalgia del bene e della santità, dalla nostalgia di dio.
Diceva Sant’Agostino che la vita veramente vissuta è quella che si vive in Cristo, e ne abbiamo un supplemento anche per chi non vive davvero. E cercare con crescente desiderio, questo è il senso della vita umana.


Come raggiungere l’Isola:
Percorrendo l’autostrada A(, Milano-Laghi, uscire ad Arona.
In alternativa, si può seguire l’autostrada Milano-Torino fino a Novara, imbioccare la statale 229 in direzione Gozzano. Giunti a Orta San Giulio, occorre prendere uno dei motoscafi dell’imbarcadero di piazza Motta, che partono ogni 15 minuti e approdano all’isola di San Giulio.


martedì 7 maggio 2013

SANTUARIO DELL'ISOLA DI SAN FRANCESCO NEL DESERTO (Venezia)


n) 14 Itinerari, luoghi della fede

SAN FRANCESCO NEL DESERTO
L’isola del silenzio, molto piccola ricca di storia e spiritualità, San Francesco del deserto emerge, come un ciuffo di verde, dall’acqua della laguna di Venezia.

Misura appena quattro ettari è di proprietà dell’ordine dei Frati francescani ed è incastonata come una perla preziosa in un lembo della laguna nord di Venezia, tra Burano e Sant’Erasmo. San Francesco del deserto è un’isola paradisiaca, vicina fisicamente ma lontana anni luce dal caos turistico delle isole a un passo dal capoluogo veneto, da cui dista circa cinque chilometri. La quiete nel monastero francescano che sorge tra i boschi e i filari di cipressi, è quasi irreale.
Un po’ di storia: Nel 1200 San Francesco scelse questo posto per ritirarsi e pregare per alcune settimane al ritorno della Terra Santa con frate Illuminato da Rieti, suo compagno di viaggio, nella chiesetta bizantina che già esisteva. L’isola anticamente si chiamava “delle due vigne” per la presenza di alcuni orti, e apparteneva al nobile veneziano Jacopo Michiel, che nel 1233 la donò all’Ordine fondato dal Poverello di Assisi. Pochi anni prima, accordandosi con l’allora ministro provinciale Antonio di Padova, Michiel aveva fatto erigere una chiesa a nome del santo, forse la prima edificata in suo onore. Fu solo nel 1400 che l’isola assunse la sua denominazione attuale perché per diversi anni, dal 1420 al 1453, fu abbandonata a causa della malaria che infestava quella parte della laguna.
Papa Pio II la concesse ai Frati Minori Osservanti che, raccolte offerte in città, restaurarono la chiesa e il convento, edificando il chiostro rinascimentale. Poi vi fu inviata una comunità di Frati Minori Riformati che nei primi dell’ottocento dovettero abbandonarla e ritirarsi nel convento di San Bonaventura a Venezia perché le truppe di Napoleone si impossessarono  del luogo sacro, riducendo a magazzino la chiesetta dove aveva pregato San Francesco. Nel 1865 l’imperatore Francesco I d’Austria donò l’isola al patriarca di Venezia che a sua volta la concesse in perpetuo ai Frati minori Francescani, che vi ritornarono nel 1858 dopo più di seicento anni e qui vivono ancora.
Una comunità accogliente: “Sull’isola viviamo in sei, racconta padre Roberto Cracco (2013), 47 anni, originario della provincia di Vicenza e guardiano da tre anni, e ci occupiamo principalmente dell’accoglienza ai gruppi che vengono in visita e che nei fine settimana condividono la nostra giornata”. I frati si dedicano prevalentemente ai lavori di manutenzione: “ Conduciamo una vita molto semplice, di preghiera e lavoro, ma ci impegniamo anche in qualche attività da svolgere nelle parrocchie esterne e nei ritiri che nei fine settimana vengono organizzati per adulti. Chi viene “ rimane colpito dalla natura, dal silenzio, dalla pace e dalla tranquillità, prosegue padre Roberto spiegando che ogni anno, tra pellegrini e turisti, l’isola accoglie circa 26mila persone, provenienti da diversi paesi del mondo. Qui la bellezza della natura è a tutto tondo: ci sono alberi, prati e fiori, e lo splendore della laguna, che cambia colore anche durante il giorno, cui si aggiunge la suggestiva presenza di animali e uccelli acquatici. Chi arriva, d’altra parte, proviene dal frastuono, cerca un luogo dove poter staccare dal ritmo frenetico della routine quotidiana e si inserisce nella vita del convento, un’oasi di pace e tranquillità, piena di luce”. Nella parte dell’isola dedicata agli ospiti in accoglienza è stata collocata una statua benedetta che raffigura Santa Chiara con il volto assorto in atteggiamento contemplativo, che tiene nella mano destra un giglio che si proietta come un ricamo di merletto sul suo seno.
San Francesco tra storia e leggenda: Secondo la tradizione l’isola fu luogo di approdo per il Poverello d’Assisi quando , nel 1220, ritornava dall’oriente e dalla quinta crociata. Era andato tra i saraceni a Damietta, laddove i cristiani combattevano per conquistare la Terra Santa, e aveva incontrato pacificamente il sultano d’Egitto Malekel-Kamel, suscitando sentimenti di ammirazione e amicizia. Di rientro su una nave veneziana, il Santo forse fu accolto da una tempesta mentre era per mare che lo costrinse a fare tappa sull’isola. Altre fonti riferiscono che cercava di proposito un luogo in cui fermarsi nel silenzio. Di fatto, si ritrovò in questo lembo di terra circondato dal mare.
Qui, racconta il suo biografo Bonaventura da Bagnoregio, fermatosi in raccoglimento, avrebbe chiesto agli uccelli che gli si erano radunati attorno di far silenzio perché potesse pregare. Secondo un'altra leggenda, prima di andarsene, San Francesco avrebbe pianto sull’isola un bastone di viaggio che si sarebbe tramutato in un pino , seccato solo nel 1701, dal cui tronco è stata ricavata una statua del Santo conservata nella chiesa. “ L’albero è morto nella seconda metà del Settecento ed è stato abbattuto, precisa padre Roberto. I frati dell’epoca tennero i pezzi del tronco che furono venerati come una reliquia dai fedeli”. Oggi i resti del tronco sono conservati in un edicola, posta nel punto esatto in cui si trova l’albero.
Il convento e la chiesa: Appena arrivati a San Francesco mediante il pittoresco canale di accesso, si scorge subito una grande croce di legno. Proseguendo lungo una strada di ciottoli si giunge all’entrata del convento, che coincide con la facciata della trecentesca chiesa di San Francesco del Deserto. Sul portone, un medaglione di pietra raffigura due braccia incrociate: quello, nudo, di Cristo, e quello col saio di San Francesco. Sulle pareti dell’edificio, alcune frasi sul marmo descrivono il miracolo del silenzio degli uccelli e l’atto di donazione dell’isola da parte di Jacopo Michiel. La chiesa, costruita là dove ne sorgeva una bizantina, è sobria. La navata unica ha la forma della carena di una nave, ossia di uno scafo capovolto: dal pavimento, mediante alcune grate, sono visibili le fondamenta originali. L’abside è sormontato da una piccola cupola, e il vano centrale è coperto da capriate lignee.
Attraversando le cappelle della Madonna e quella di San bernardino da Siena si raggiunge la tomba di bernardino da Portogruaro, generale dell’ordine francescano che avviò e condusse i restauri del convento e della chiesa dopo le distruzioni napoleoniche. Nell’edificio è conservato un pezzo di saio di San Francesco.
Il chiostro: Il convento sorge attorno a due chiostri: il primo, originario del 1200, fu semidistrutto dalla truppe napoleoniche e ricostruito dai francescani nella seconda metà del XIX secolo. Un secondo chiostro fu costruito nel 1400, ma entrambi hanno al centro un pozzo che, nei secoli scorsi, ha fornito ai frati  l’acqua potabile e quella necessaria per lavare  i panni. Mediante un viale, dal giardino con alberi e piante si raggiungono due terrazze panoramiche dalle quali è possibile ammirare la laguna.


Come arrivare a San Francesco del Deserto:
L’isoletta è raggiungibile da Burano, ma non essendoci collegamenti pubblici sul tragitto occorre utilizzare un mezzo proprio o un servizio privato, come Laguna Fla. Per andare a Burano occorre prendere la linea 12 dei vaporetti in partenza dal pontile Fondamente Nove di Venezia o da i Treporti.

SANTUARIO DELL'ISOLA DI SAN NICOLA (Puglia)


15) Itinerari, luoghi della Fede

ABBAZIA DI SANTA MARIA A MARE NELL’ISOLA DI SAN NICOLA
Tra mare , silenzio e preghiera, San Nicola è il centro storico e culturale dell’arcipelago delle Tremiti. L’abbazia che domina l’isola è stata protetta efficacemente nei secoli da una costa frastagliata e un’imponente cinta muraria.

Tra le acque cristalline a nord del promontorio del Gargano, in Puglia, c’è l’isola di San Nicola, con il suo profilo frastagliato e le pareti a picco sul mare. In provincia di Foggia, è la più popolosa dell’arcipelago delle Tremiti, uno dei centri turistici più importanti della regione.
Tra natura e cultura: Una volta sull’isola, dal porticciolo si sale per una rampa stretta fra il monte e la cinta muraria del borgo. Dalle feritoie che un tempo servivano per controllare che dal mare non giungessero nemici,  si godono splendidi scorci. Procedendo sulla via principale, ai lati sono visibili i cosiddetti cameroni fascisti perché, spiega la storica dell’arte tremitese Rachele Di Palma, “nel 1932 questo è stato il luogo di confino politico, dove sono arrivati Sandro Pertini e Amerigo Dumini, uno degli attentatori Giacomo Matteotti”. Gli edifici sono abitati da tremitesi residenti: sulla carta sono 180, ma solo  una trentina vivono sull’isola tutto l’anno. Moltissimi, in compenso sono visitatori: “ Arrivano ogni anno circa 10mila persone” spiega Di Palma (2013) . “Vogliono riconciliarsi con la natura, con il mondo e soprattutto con se stessi, Qui si ha tanto tempo per riflettere e meditare, magari davanti ad un tramonto oppure semplicemente volgendo il proprio sguardo verso il mare”. E’ intenso, a San Nicola, il pellegrinaggio alla statua di San pio, collocata infondo al mare e quando l’acqua è calma e il cielo terso, si vede perfino a occhio nudo.
Un Po’ di storia: Grande appena 43 ettari, con le sue torri e le fortificazioni, le muraglie e l’abbazia, San Nicola è il centro storico, religioso e amministrativo dell’arcipelago ed è la più ricca di testimonianze sul passato. Dal IX secolo si sono alternati i monaci benedettini cassinesi, i cistercensi (dal 1237 al 1313) e i canonici latenarensi, dal 1413 fino alla fine del 1500. La presenza religiosa ha origini semileggendarie: la Cronica istoriale di Tremiti narra di un eremita che nel 312 d.C. ha scelto l’isola di San Nicola come luogo di ritiro e contemplazione. Una notte gli è apparsa in sogno la Madonna. La Vergine ha indicato un luogo in cui scavare per scoprire un tesoro di monete e monili con cui edificare una chiesa in  suo onore. Il monaco, inizialmente restio a seguire l’invito di un’apparizione che temeva diabolica, non ha obbedito. Quando la Madonna si è manifestata nuovamente ha superato ogni diffidenza. Mentre scavava, si è imbattuto in un sepolcro, forse del mitico eroe Diomede cui le isole sono legate: li ha trovato incredibili ricchezze. Ha così, costruito un sontuoso edificio, andato poi perduto, primo nucleo cristiano dell’isola.
Santuario di Santa Maria a mare: Edificata nel 1045 dai monaci benedettini, la maestosa abbazia di Santa Maria a Mare, protetta da imponenti mura di cinta, ha subito modifiche architettoniche di influsso rinascimentale. “ Si erge maestosa sull’isola e guarda l’arcipelago dall’alto, quasi a volerci ricordare che un tempo era lei la prima donna, lei a farla da padrona e i pellegrini qui venivano solo per lei”, sottolinea Rachele di Palma. Se in tutta l’isola la traccia dei millenni di storia è tangibile, “ man mano che si sale verso l’abbazia il turista rimane senza fiato per gli scorci meravigliosi che si aprono al suo passaggio”. Rilievi raffiguranti la Vergine con santi e cherubini ornano il portale che conduce all’interno della chiesa, la quale conserva intatto l’impianto originale, a pianta rettangolare con tre navate. Nella navata centrale, coperta da soffitto ligneo, è possibile amirare un pavimento in mosaico con al centro, un grifone alato che rappresenta la doppia natura, terrena e ultraterrena di Cristo, e le diomedee, uccelli marini tipici delle isole. Frammenti musivi si incontrano dappertutto nel resto del pavimento, particolare che lascia pensare che in origine fosse interamente ricoperto. Sul portale della sacrestia è collocata una statua in pietra raffigurante la Madonna seduta col bambino, con la testa mozzata, secondo la leggenda, dalla scimitarra di un turco. Sempre all’interno della chiesa, che sull’altare maggiore conserva un polittico in legno laminato in oro di scuola veneziana, è possibile ammirare la statua lignea di Santa Maria a mare raffigurante la vergine col bambino, entrambi con i volti scuri, di origine bizantina.
Ogni estate, il 15 agosto, una copia viene portata in processione sull’acqua, dal momento che questa statuetta, antica più di mille anni, è fragile. L’abbazia è stata baluardo della cristianità fino al 1700, quando il dominio sulle Tremiti è passato ai Borboni. L’isola è diventata una colonia penale, destinazione che ha continuato ad avere fino alla dittatura fascista. “ Senza perdere la sua identità di luogo in cui sono tangibili la bellezza del mondo e la grandezza del creato: qui l’anima trova ristoro”, aggiunge la storica dell’arte.
Un antico pozzo: Al centro di uno dei chiostri del monastero c’è un pozzo che serviva il vicino refettorio. Risalente almeno al XVI secolo, è stato rifatto in età borbonica, come testimonia la data, 1793, scolpita sulla trabeazione, costituita da un blocco di pietra decorato con un fregio di ghirlanda  che circonda una diomedea. L’uccello di mare tiene nel becco un ramoscello d’ulivo, o forse di mirto, che all’epoca di monaci cresceva spontaneamente nell’sola.
Icona preziosa: Nel santuario si trova il Crocifisso con il Cristo vivente. Non ha il viso sofferente: rivela, dunque, la consapevolezza del passaggio dalla vita terrena a quella ultraterrena. Anche se è stato portato qui dai monaci nell’XI secolo , una leggenda vuole che sia  arrivato sulla costa tremitese da solo, quasi miracolosamente, come lascia intuire una piccola una piccola iscrizione postdatata: “ Nave la croce, nocchiero Dio”.
Quando è in verticale, il crocifisso, alto quasi quattro metri, sembra seguire con gli occhi chiunque lo guardi. Nella parte posteriore è raffigurata una rappresentazione dell’Agnus Dei tra disegni floreali.
Grande Maniero: Un torrione angioino fiancheggia l’entrata principale del castello dei Badiali, ricco di ingegnose opere di difesa, costruite ai tempi dei monaci cistercensi con il patrocinio di Carlo D’Angiò, tra cui le caditoie nelle quali i monaci inserivano sassi, che cadendo in verticale lungo le pareti, colpivano i nemici e i pirati che minacciavano l’assalto.
Nel castello, che un tempo era munito da un ponte levatoio collocato al limite di un fossato ancora visibile, si trova un pozzo profondo circa 17 metri, che serviva per la raccolta di acqua piovana da parte dei frati.
Lo stretto corridoio conduce alla loggia della cisterna della meridiana, chiamata così perché i frati l’adoperavano per misurare l’ora mediante i raggi del sole.
Ricca zona archeologica: Dopo le opere di fortificazione si apre un pianoro in cui si trova l’area più antica dell’isola. Qui sono visibili la cisterna denominata “ vasca di San Nicola” e un altare situato all’inizio della necropoli greco-romana, che conserva diverse tombe, tra cui quella di Giulia, nipote dell’imperatore Augusto. I sepolcri sono tipici del periodo neolitico, con i defunti rannicchiati sul fianco destro, e la testa rivolta verso sud. Al centro della necropoli è collocata una tomba diversa dalle altre, a pianta circolare, forse appartenente a Diomede; qui, tra i capperi e i gabbiani, i ruderi raccontano la storia nel silenzio interrotto solo dal rumore del mare.


LEGGENDE ISOLANE:
Le tremiti hanno legato il loro nome all’eroe greco Diomede, per questo sono dette anche “ diomedee”. Secondo la leggenda le isole sono sorte per mano del guerriero acheo. Diomede ha gettato in mare tre giganteschi massi che aveva portato con se da Troia, riemersi sotto forma di isole, corrispondenti a San Nicola, Capraia e San Domino.
Approdato qui, l’eroe acheo avrebbe peregrinato nella daunia, per poi unirsi in matrimonio con la figlia del re di quell’antica regione.
Diverse leggende riferiscono anche la Dipartita di Diomede all’arcipelago pugliese: alcune parlano di morte in seguito al numifragio, altre descivono un ritiro volontario dell’eroe assieme ai suoi compagni.
UNA NATURA INCONTAMINATA:
Con le acque turchesi e gli scorci mozzafiato, l’isola di San Nicola costituisce un patrimonio ambientale e naturalistico  notevole. Dal 1989 appartiene al parco marino delle Tremiti, pensato per proteggere la ricchezza ittica e la bellezza dei fondali, pieni di molluschi e crostacei.
La vegetazione sulla terraferma è rada, ma dalla primavera la macchia mediterranea si ravviva con il bianco della Sicilia marittima, una pianta velenosa dalla quale si ricavano dei farmaci per il cuore. Molti uccelli fanno i nidi sull’isola, soprattutto gabbiani, procellarie e le mitiche diomedee, che animano le notti con i loro richiami malinconici. San Nicola è anche il regno incontrastato dei rettili, tra cui la lucertola sicula, i colubri neri e i biacchi.

Come arrivare sull’isola:
A San Nicola non sono ammesse automobili e motociclette.
In Nave: diverse compagnie marittime collegano le tremiti tutto l’anno. Partenze possibili da Abruzzo, Molise e Puglia, ma il porto da cui si effettuano più corse giornaliere è quello di Termoli. La traversata dura più o meno un’ora.
In elicottero: l’aeroporto più vicino è quello di Foggia.                                                                         

mercoledì 1 maggio 2013

ISOLA DI SAN LAZZARO (Venezia)


13)  Itinerari, luoghi della Fede

ISOLA DI SAN LAZZARO
FRAMMENTO DI Armenia, nella laguna centrale a ridosso del Lido di Venezia, è interamente occupata da un monastero, casa madre dell’ordine secolare dei Mechitaristi.

Incastonata nel cuore della Laguna tra San Marco e il Lido, si trova l’Isola di San lazzaro degli Armeni, frammento del silenzioso Oriente a un passo dalla multiculturale Venezia. L’isola, circondata da un immenso giardino, ospita la casa madre dell’Ordine dei Mechitaristi, una delle più importanti comunità armene dell’Italia e del mondo intero.
Un po’ di storia: L’isola è dedicata a San lazzaro, protettore dei lebbrosi, perché nel XII secolo era adibita a lazzaretto, data la posizione ideale per lo stazionamento in quarantena dei malati. Rimase deserta e abbandonata per qualche tempo, fino al 1717, quando la Serenissima l’assegnò a un nobile monaco armeno di Sebaste, Manug di Pietro, detto Mechitar, ossia 2 il consolatore”, fuggito assieme ad alcuni confratelli dalla città greca di Modone, dove aveva fondato un monastero, perché invasa dai Turchi. Dopo aver riedificato la chiesa e il convento, l’abate si occupò di conservare il patrimonio culturale armeno, servendosi anche dell’aiuto di giovani connazionali da lui accolti e istruiti.
Centro culturale: L’isola presto divenne uno dei primi centri del mondo di cultura armena, nonché punto di riferimento per gli studiosi delle lingue orientali. In continuità con il desiderio dell’abate Mechitar di accrescere la diffusione della cultura armena, i suoi successori fondarono, nel 1786, una tipografia poliglotta, poi chiusa nel 1995, anche se sopravvive la casa editrice. I monaci si dedicano alla traduzione in armeno di capolavori della letteratura classica occidentale e viceversa: fu per la sua natura simile  a un’accademia culturale, che Napoleone ritenne ragionevole non sopprimere l’ordine . “ La missione culturale della congregazione, racconta padre Hamazasp Kechichian, monaco mechitarista della comunità dell’isola (2013), si realizzò attraverso un’intensa attività editoriale che investì tutti i campi del sapere, delle scienze alla spiritualità fino alle arti, alla storiografia e alla linguistica.
Un esempio è il Dizionario dei tre Vardapet, realizzato da tre mechitaristi tra il 1836 e il 1837, considerato ancora oggi punto di riferimento per gli studi linguistici armeni.
Arte tra oriente e occidente: Approdati sull’isola, vera oasi di silenzio, si scorge il monastero, completamente circondato dal verde di un grande giardino con piante esotiche, pini e molte varietà di rose che vengono coltivate dai padri. Nel cortile antistante il convento è collocato un khatchkar armeno, letteralmente “croce-pietra , un simbolo donato alla serenissima nel 1987. Si tratta di parallelepipedi di pietra, scolpiti a bassorilievo con, al centro, una croce e decorazioni a intreccio. Al centro del cortile, la statua in bronzo di Mechitar, che a braccia aperte accoglie il visitatore. Lungo il porticato del chiostro, reperti archeologici, un ossario e una statua romana. La chiesa ha struttura trecentesca, con tre navate, le campate a sesto acuto sorrette da colonne veneto-bizantine in marmo rosso. Al centro dell’altare, un dipinto raffigurante la Vergine e, davanti, la tomba in marmo dell’abate fondatore. Infine nelle arcate, mosaici con figurine di santi. La biblioteca, di forma cilindrica, è stata ricostruita nel 1970 e conserva circa 170mila volumi, di cui quasi 5mila manoscritti, tra i quali alcuni creati con oro e lapislazzuli tritati. Sul suo soffitto campeggia La pace e la Giustizia di Giambattista Tiepolo. Le collezioni del museo raccolgono ceramiche, argenti, monete, arazzi, una grande quantità di manufatti arabi, indiani ed egiziani, tra cui la curiosa mummia di Nehmeket, risalente al VI secolo a.C.. La pinanoteca conserva quasi mille quadri, alcuni appartenenti ad autori del calibro di Palma il giovane, Padovanino e Tiepolo.
La comunità: Nell’isola vivono 16 persone: dieci padri, due professori che frequentano l’università, quattro postulanti che si preparano al noviziato (2013) e un laico che segue gli anziani e da una mano nei lavori manuali. “ La nostra giornata, spiega padre Hamazasp, comincia con le preghiere della mattina, le lodi oppure il mattutino. Segue la messa e la colazione, dopodiché ciascun padre si dedica ai suoi impegni: ricerca, studio, lavoro in biblioteca, nell’archivio, faccende amministrative e anche visite guidate”. A mezzogiorno, tutti in chiesa per l’ora media. Dopo pranzo, riunione nella “ Dak Dun” che significa stanza calda, ovvero una sala caffè dove si conserva e si leggono i giornali locali e armeni”. Poi i più anziani si ritirano per riposarsi mentre i padri più giovani tornano alle loro attività fino alle 19, per i vespri. Dopo la cena, “prima di ritirarci nelle nostre celle, seguiamo le notizie in televisione”.
Un notevole flusso: Sull’isola di San Lazzaro si contano circa 45mila visitatori all’anno, provenienti da ogni parte del mondo, e anche se “ la maggior parte, sottolinea padre Hamazasp, sono europei, diversi pellegrini sono armeni, sia della repubblica d’Armenia che dai luoghi della diaspora”. Ogni giorno si tiene, senza bisogno di prenotazione, una visita guidata in cinque lingue: italiano, francese, inglese, armeno e spagnolo. “La visita prosegue, generalmente dura più di un ora e comprende il chiostro, la chiesa, il refettorio, il museo e la biblioteca.
Tipico souvenir da portare a casa, la marmellata di petali di rose damascene, “vertanush, prodotta dai padri con le rose che loro stessi coltivano. Luogo di pace di preghiera e di studio, l’isola ospitò, nel 1816, anche Lord George Gordon Byron che la scelse per imparare l’armeno: dal vestibolo della biblioteca si accede alla sala che porta il suo nome, dove il poeta inglese amava ritirarsi a studiare durante le visite a San lazzaro. Oltre alla pace, chi giunge qui trova i reperti, i manoscritti e le reliquie conservate dai padri con cura, che raccontano della storia millenaria del popolo armeno: “Una storia sofferta, sintetizza padre Hamazasp, scritta con il sangue ma comunque gloriosa grazie all’alfabeto e alla Croce di Cristo”.
Chi sono gli armeni: Storicamente stanziati in Anatolia, molti si trovano nello stato di origine, l’Armenia, al confine tra la Turchia, Iran, Georgia,  Azerbaigian, dove costituiscono il gruppo etnico di maggioranza. Molte altre comunità sono sparse per il globo.
Complessivamente sono circa 8 milioni di persone. Nel XVII secolo la società armena visse una crisi profonda per le devastazioni mongole, le persecuzioni ottomane e la penetrazione curda. Furono queste le ragioni che spinsero i chierici armeni a fondare tipografie in Europa, dalle quali dare inizio alla rinascita mediante la stampa e la diffusione della tradizione letteraria, filosofica e scientifica del popolo che ha subito un vero e proprio genocidio da parte dei Turchi. I primi episodi, per volere del sultano Abdul-Hamid, si sono verificati alla fine dell’800, ma si sono ripetuti anche nei primi decenni del secolo scorso. L’anniversario del genocidio viene commemorato il 24 aprile.
L’Abate Mechitar: Originario di Sivas , città Armena nel territorio dell’impero Ottomano, nacque nel 1676 e a 15 anni entrò nel convento di Surb  Nsan, dei monaci armeni di Sant’Antonio Abate. A quel tempo, la Chiesa armena era molto ripiegata sul passato e divisa da Roma per motivi storici e teologici. Mechitar, divenuto monaco benedettino, cercò per tutta la vita di favorire il rientro dei credenti armeni nella chiesa cattolica. Nel 1700 fondò la Congregazione Mechitarista, ordine religioso cattolico riconosciuto ufficialmente dalla chiesa cattolica qualche anno dopo, che tra i voti annovera castità, povertà, obbedienza e apostolato fino all’effusione del sangue. In fuga dalla sua terra natia per le persecuzioni da parte dei turchi, il monaco nel 1715 approdò a Venezia. Sull’isola di San Lazzaro iniziò un opera di valorizzazione, restauro e ampliamento dei vecchi edifici e creò un monastero di Vartapet, ieromonaci che, lontano dalla loro patria, nella laguna veneziana, si adoperavano per trasmettere ai figli del popolo armeno i valori spirituali e culturali, salvaguardare la loro identità, la loro storia e la loro lingua. La missione di Mechitar continua ancora oggi: “ Chiunque viene nell’isola può respirare il nostro operato tra le collezioni librarie e reperti archeologici, ma soprattutto può osservare la vita monastica che svolgiamo, intenti a vivere e custodire la spiritualità armena.
Un altro contributo dei padri della congregazione riguarda l’educazione: attualmente, racconta, abbiamo sette scuole nel mondo dove i nostri padri missionari continuano ad educare le nuove generazioni esortandoli a riscoprire e conservare le loro radici vivendo da veri cristiani, armeni, avendo nel cuore la religione, la patria e le virtù umane, per fare sempre il bene trasmettendo i valori a noi tramandati dai nostri antenati.
LA MESSA RECITATA CON RITO CATTOLICO ARMENO:
La solennità, la gestualità, la ricchezza dei paramenti. Sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano il rito cattolico armeno, che si celebra nel monastero  dell’isola di San Lazzaro. L’incenso che emana un profumo soave e i tipici canti liturgici sono, racconta padre Hamazasp monaco mechitarista della comunità dell’isola, “tutti segni che rimandano ad una profonda simbologia del Mistero Divino”. Nel rito armeno non c’è l’iconostasi bizantina ma viene utilizzata una tenda che nel tempo ordinario si chiude in alcuni momenti della celebrazione liturgica, per esempio quando il celebrante si prepara al mistero della comunione e prepara le offerte. E durante la quaresima resta chiusa a simboleggiare la penitenza che caratterizza questo periodo. Così come stabilito dal Concilio Vaticano II, “ le chiese orientali devono conservare i loro usi e le loro tradizioni liturgiche: ne è esempio, conclude, la posizione del celebrante durante la messa, rivolto all’altare e con le spalle all’assemblea.

COME RAGGIUNGERE IL COMPLESSO RELIGIOSO:
Occorre, raggiungere Venezia. In aereo, l’aeroporto Marco Polo di Tessera si trova a circa venti chilometri di distanza dal centro storico a cui è collegato dalla linea 5 dell’autobus (accessibile alle carrozzine).
Con il treno, le stazioni ferroviarie sono due: quella di Mestre e quella di Venezia Santa Lucia.
In auto, da Trieste o da Torino il capoluogo veneto è raggiungibile mediante l’A4, mediante l’A27 da Belluno e, da sud con l’A1 o con l’Adriatica, e poi l’A3. Giunti in città occorre imbarcarsi sul vaporetto numero 20 dal molo San Zaccaria.