geronimo

martedì 2 ottobre 2012


ROMA
La Roma antica:
La leggenda sorta intorno alla fondazione di Roma e ai primi due secoli della sua storia è ben nota: un gruppo di superstite troiani guidati da Enea sarebbe approdato alle rive del Lazio; il figlio di Enea, Iulo, avrebbe fondato sulle colline laziali  la città di Albalonga; alcuni secoli più tardi, Rea Silvia, figlia dello spodestato re di Albalonga, Numitore avrebbe avuto dal Dio marte i gemelli Romolo e Remo che l’usurpatore Amulio avrebbe ordinato di abbandonare sulle acque del Tevere, ma che una lupa avrebbe invece ritrovato e allattato in un antro ai piedi del Palatino; una volta cresciuti, i due gemelli avrebbero deciso di fondare verso la metà del secolo VIII a.C. , una nuova città e Romolo, conquistatosene il diritto per aver avuto auspici favorevoli con l’osservazione secondo un costume etrusco, del volo degli uccelli, ne avrebbe segnato i primi confini con un solco (pomerio) tracciato attorno al Palatino, nucleo primogenio della città, uccidendo successivamente Remo colpevole di averlo oltrepassato in atteggiamento di scherno. Popolata la città e concedendo ospitalità ai fuggiaschi dei paesi vicini, Romolo avrebbe sostenuto con i Sabini, insediati sul Quirinale, una guerra impegnativa scaturita dal leggendario ratto delle donne Sabine.
La combattività dei Sabini spinse i Romani a un accordo associato al potere il loro re Tito Tazio. A Romolo, innalzato misteriosamente in cielo dopo la morte col nome di Quirino, sarebbero succeduti altri sei re: il sabino Numa Pompilio al quale andrebbe attribuita l’introduzione di molti ordinamenti e istituti civili e religiosi; il romano Tullio Ostilio durante il cui regno, in seguito all’esito vittorioso per Roma del duello di tre suoi guerrieri scelti, gli Orazi, contro tre avversari, Curiazi, sarebbe stata distrutta Albalonga ed esteso il territorio romano fino alle propagini settentrionali del massiciio Albano; il sabino Anco Marzio che avrebbe conquistato la zona di Ostia ponendo così sotto il dominio  di Roma tutto il corso del tevere, infine i tre re etruschi Tarquinio Prisco, Servio Tullio (autore di riforme di fondo nell’organizzazione statale , tra cui l’ordinamento centuriato) e Tarquinio il Superbo  fautore di una energica politica  di espansione, avversata  però dall’aristocrazia romana che, intorno al 510 a.C., lo avrebbe scacciato ponendo così fine  alla monarchia e instaurando la Repubblica. In realtà un vero e proprio atto di fondazione di Roma non ci fu mai : Romolo è senza dubbio figura leggendaria e quanto la tradizione  gli attribuisce è invece il risultato  di una graduale e lenta evoluzione.
Per quanto riguarda il periodo regio , invece  i dati forniti dall’archeologia , dalla linguistica, dall’etnologia comparata , dalle sopravvivenze significative  in età storica di antichissimi culti , riti e costumanze , ne hanno confermato la validità storica, pur mettendo spesso in dubbio  le interpretazioni  e le inquadrature datate più tardi dagli storiografici  latini, vissuti in un epoca ormai lontanissima da quei fatti e influenzati nelle loro narrazioni da un ambiente politico e sociale completamente diverso. Secondo i recenti studi e ricerche , Roma , il cui nome deriverebbe  da rumor, parola arcaica significante il fiume (cioè Tevere) , si sarebbe formata con un processo di sinecismo , ossia dalla graduale fusione (con fase intermedia federativa , e questo significherebbe il rito , vivo ancora in età storica , del Semptimontium ) di più pastori e contadini di cui è stata accertata  l’esistenza su i suoi colli già tra i secoli X e IX a.C. <il luogo era propizio all’insediamento umano per la vicinanza del mare e la presenza del Tevere tagliato in due dall’isola Tiberina  che ne rendeva più facili il passaggio, favorendo gli scambi commerciali  con i territori a nord del fiume  dove era in grande sviluppo la civiltà Etrusca. Già nel secolo VIII a.C. si era costituito un centro pro turbano, dell’estensione di più  di 100 Ha, sotto l’autorità politica del Palatino. In seguito l’abitato , includendo anche il colle del Quirinale, assunse caratteristiche  sempre più strutturate  finché nel secolo VI, Roma assunse , sotto i tre re di origine etrusca , la fisionomia di una vera e propria città con il suo centro sacrale sul Campidoglio, dove venne eretto il tempio in onore delle tre divinità maggiori, Giove, Giunone e Minerva. E quello politico nel foro ai piedi del palatino dove veniva radunato il comizio del popolo. La città venne ricinta da solide mura (7 km di perimetro) e difesa da un esercito campale, organizzato secondo le nuove tecniche militari di importazione greca, il cui reclutamento avveniva sulla base di una distribuzione  di cittadini in classi censita rie. Mentre l’originaria struttura gentilizia dello stato era basata su una divisione  degli abitanti in tre tribù genetiche, i Tities (Sabini del Quirinale), i Ramnes (gli abitanti del Palatino vicino al rumon, fiume) e i Luceres (gruppi latini del Celio), ognuna delle quali comprendeva  dieci curie formanti tutte assieme l’assemblea curiata, nella quale prevalevano le più antiche famiglie delle gentes, la riforma serviana  invece superò tale struttura senza però sopprimerla, dando luogo ad una nuova distribuzione  degli abitanti operata appunto in base al censo, e quindi non più sul principio della nascita, e inserì nella vita attiva dello Stato i nuovi ceti artigianali e commerciali in via di rapida formazione in Roma, allora in fase di sviluppo, con gli immigrati dalle vicine contrade, di recente annesse, e con quanti da fuori venivano in città a cercare fortuna e che andavano ad ingrassare i ceti plebei. L’esercito ebbe una nuova organizzazione nella legione e l’onere del servizio militare, che era anche un diritto per i vantaggi connessi con la distribuzione delle prede di guerra, competé da allora in primo luogo ai ceti più abbienti, indipendentemente dalla nascita. Roma cominciò ad espandersi verso le foci del Tevere e nell’entroterra laziale raggiungendo presto la zona dei Colli Albani. Questa politica suscitò opposizioni negli esponenti degli antichi ceti gentilizi formanti il patriziato, che si sentivano anche minacciati nei propri interessi dall’emergere di nuovi ceti plebei favoriti dai re di provenienza etrusca: approfittando dell’assenza di Tarquinio il Superbo, impegnato in una spedizione militare, con una congiura soppressero, verso il 510 a.C., la monarchia instaurando al suo posto un regime repubblicano  nel quale il potere esecutivo passò ai due pretori comandanti dell’esercito campale, successivamente chiamati consoli;solo in casi gravi di discordie interne o di pericoli esterni, richiedenti unità di comando, si faceva ricorso eccezionale a un dittatore nominato dai consoli. L’elezione dei pretori-consoli aveva luogo annualmente in marzo, all’aprirsi cioè della stagione delle operazioni militari, nell’assemblea centuriata, costituita in base alle riforme serviane, dai cittadini, distribuiti in centurie, in grado di procurarsi le armi per l’arruolamento nell’esercito, ma ebbe subito grande peso nella vita dello stato il Senato, l’antico consenso degli esponenti delle famiglie più influenti che continuò anche per i pretori-consoli la funzione di organo consultivo, in passato esplicata per i re. Il mutamento costituzionale , fenomeno comune nell’epoca ad altre città d’Italia, latine, etrusche e Tosco.umbre, e la fine dell’influenza etrusca indebolirono temporaneamente Roma: lo stato premuto dalla calata minacciosa, dagli Appennini , di vigorosi popoli montanari, Equi, Volsci, Sabini, dovette abbandonare molte posizioni  di forza raggiunte nel Lazio  e nel 493 a. C. strinse, su iniziativa del pretore console Spurio Cassio un patto di alleanza  (foedus cassianum) con le città latine , che si erano da poco unite in una lega sui colli Albani, per difendersi dalla pressione che da nord esercitavano  anche su esse gli Etruschi: questi di recente erano stati sconfitti dalle flotte coalizzate di Cuma e di Siracusa, perdendo il predominio nel Tirreno, e cercando perciò di procurarsi il controllo delle strade interne del lazio per poter mantenere contatti e rapporti commerciali con gli altri Etruschi di Campania. Il foedus Cassianum segnò per Roma l’inizio di un lungo periodo di stretta collaborazione coi popoli latini, permettendole così di affrontare e risolvere, sia pure con gravi difficoltà, le lotte sorte al suo interno tra il patriziato, costituito tra le originarie famiglie della città, e la plebe rinforzata dagli immigrati recenti immessi nella nuova organizzazione statale. La classe patrizia, che da antico tempo traeva la propria forza dalla pastorizia e dall’agricoltura, l’una e l’altra attività non compromesse sul piano economico dai recenti cambiamenti, tendeva a monopolizzare le magistrature, controllava il Senato, manovrava con i suoi clienti le assemblee elettive e legislative e si accaparrava i terreni dell’ager publicus, quello di proprietà dello stato sul quale rivendicava diritti di precedenza. Contro questa prevaricazione, reagì all’inizio del secolo V, la plebe che, costituita dai ceti artigianali e imprenditoriali, aveva subito gravi contraccolpi dalla recessione economica sopravvenuta con la riduzione dell’orizzonte politico e quindi commerciale di Roma e reclamò, attraverso propri rappresentanti, i tribuni eletti nel concilia plebis (riunione dei ceti plebei, saliti gradualmente da 4 a 10), l’uguaglianza nell’ammissione alle magistrature,l’accesso all’ager publicus e l’alleggerimento dei debiti fattisi pesanti con la perdita, per molti di essi, delle proprietà e con la riduzione, talvolta, in schiavitù per insolvenza. Di fronte alla resistenza del patriziato, i plebei , mettendo in pericolo la stessa unità dello Stato, si ritirarono una prima volta sull’Aventino, colle ancora escluso dalla cerchia del Pomerio (secessione del 494 a.C. Preoccupati della situazione, ma soprattutto dell’organizzazione che si era data la plebe quasi costituendo uno Stato nello Stato, i Patrizi accettarono come magistrati i tribuni della plebe che, pur non esercitando alcun imperium particolare, ebbero tuttavia riconosciuti l’inviolabilità (sacrosanctitas) e il diritto di veto su ogni proposta che ritenessero dannosa per la plebe. La secessione ebbe così fine . Più tardi i plebei ottennero, con le Leggi delle XII Tavole (451-450 a.C.) , la codificazione del diritto consuetudinario che pose fine all’arbitrarietà dei giudici esprimenti gli interessi del patriziato. Subito dopo fu anche abolito il divieto di matrimoni tra i due ceti (Lex Canuleia del 445) così che gli esponenti della plebe entrarono man mano nell’orbita del patriziato tanto che, dopo il 367 a.C., con leggi Licinie Sestie, anch’essi poterono accedere alle cariche pubbliche che nel frattempo si erano  venute precisando e completando, in dipendenza anche degli aumentati compiti assunti dallo Stato in fase di espansione: il consolato, la pretura urbana e l’amministrazione della giustizia,, la censura per il censimento dei cittadini e dei loro beni, l’edilità curule per la polizia urbana mentre il tribunato della plebe  continuava nei compiti di difesa  dei ceti minuti , chiammati ad una partecipazione sempre più diretta alla vita  dello Stato , soprattutto sul piano militare . La Lex publilia del 339 e la Lex Hortensia nel 286 a.C. sancirono definitivamente  la piena parificazione di patrizi e plebei , col dare alle decisioni prese nell’adunanze  di questi ( chiamate, con riferimento alle tribù territoriali istituite in numero di venti  da Servio Tullio per la registrazione dei cittadini e poi man mano aumentate  con i nuovi territori , comitia plebis tributa) validità giuridica pari alle decisioni dei comizi  curiati (in fase di declino) e di quelli centuriati. Con l’accordo raggiunto tra gli ordini si venne formando quella nobiltà di nascita e di censo, tradizionalista e austera, che ebbe nel senato, ormai costituito da ex magistrati, il suo maggior centro di forza: subordinando gli interessi dell’individuo singolo agli interessi dello stato, essa avrebbe portato Roma alla conquista del mondo mediterraneo. Il primo obbiettivo della politica di espansione, ripresa già nella seconda metà del secolo V a.C., fu il Lazio, dove la situazione era andata evolvendo a favore di Roma che ormai controllava Equi e Volci. La collaborazione militare con la lega Latina non era più indispensabile e i Romani poterono, guidati da Furio Camillo , affrontare, con le loro sole forze , Veio, la ricca città etrusca che, ad appena 20 Km a nord di Roma chiudeva da quella parte ogni possibilità di espansione costringendola, nel 396 a. C. alla capitolazione dopo un assedio durato dieci anni. Pochi anni più tardi Roma riorganizzò, accentuando la propria egemonia nel lazio, la Lega latina che si era disunita e nel 390 aveva mancato di collaborare in un momento molto grave della storia romana : bande di Celti vennero dall’europa centrale, erano penetrate prima nella valle del Po’, dopo avere invaso l’Etruria e sgominato sul fiume Allia l’esercito inviato loro contro da Roma per ricacciarli, ed erano arrivati ad occupare tutta la città, tranne la rocca capitolina, dalla quale poi si ritirarono  solo dopo dietro riscatto e dopo averla incendiata  e devastata. Potendo ancora contare sulla collaborazione dei Latini, Roma ristabilì sulla piana Pontina la supremazia che già aveva raggiunto nell’ultima  età regia, ma nella sua espansione venne a contatto nel sud con i Sanniti , altro popolo italico in espansione, che, nel corso del secolo V aveva imposto il dominio su gran parte dell’Italia centro meridionale. Con i Sanniti nonostante un patto di alleanza stipulato nel 354 a.C., seguì presto una prima guerra per la supremazia della Campania, che fu però di breve durata (343-341 a. C.) e si risolse, dopo il rientro sui loro monti degli stessi Sanniti, minacciati da sbarchi di eserciti greci sull’altra sponda adriatica , con una prima penetrazione dei Romani nella regione campana. Preoccupati da questa nuova affermazione e sentendosi ormai accerchiati, gli alleati Latini, cui si aggiunsero altri popoli laziali e gli stessi campani, si ribellarono, ma furono definitivamente sconfitti (340-338 a. C.)  la Lega latina fu sciolta, il foedus cassianum dichiarato decaduto, il territorio latino incorporato nello Stato romano e le città campane entrarono nell’orbita della sua supremazia. Roma trattò però generosamente i vinti per assicurarsene la collaborazione nelle future lotte. Per compattezza di territorio (6400 km quadrati), popolazione (600.000 abitanti) per un calibrato sistema di alleanze e rapporti con i popoli confinanti e in grazia dei sempre più numerosi insediamenti coloniali ai confini, resi possibili o condizionati dall’esuberanza demografica, quello romano era ormai diventato lo stato più importante dell’Italia centrale : l’urto di fondo con i Sanniti divenne perciò inevitabile . La lotta che ne seguì fu durissima  e si svolse dal 326 al 304 con alterne vicende (famosa la sconfitta romana  a Caudio  con lo smacco delle Forche Caudine) , , ma si concluse con la vittoria di Roma dopo la caduta della capitale sannita Bovianum. Nel 295 poi, a Sentinum , in Umbia , i Romani ottennero un’altra faticata vittoria  infrangendo una vasta coalizione di Etruschi, Sabini, Umbri e Galli. In seguito a queste guerre il territorio romano si allungò con l’incameramento della regione  Sabina e del Piceno fino all’opposta sponda adriatica, venendo così a dividere  in due parti l’Italia  con grave minaccia per gli interessi  delle città della Magna  Grecia al sud e per quelli degli Etruschi a Nord. Particolarmente Taranto città ricca e potente, vedendo compromessa la propria aspirazione  alla preminenza sull’Italia  meridionale, chiamò in aiuto il re dell’Epiro Pirro che,  in un primo momento, riuscì a sconfiggere i romani a Eraclea (280) e ad Ascoli (279) in Puglia, ma un’infruttuosa spedizione fatta in Sicilia per crearvi uno stato greco, il suo esercito, svigorito e decimato, venne sconfitto nel 275 a benevento dall’esercito romano comandato dal console Manio Curio, le cui riserve, grazie alle continue e obbligatorie leve di cittadini e alleati (inquadrati nelle legioni, unità militari ormai superiori per la mobilità tattica dei manipoli alle rigide falangi di Pirro), erano invece inesauribili: al re non rimase che tornarsene in Epiro. Roma, affermata la propria egemonia su tutta l’Italia peninsulare, ne avviò il processo dell’unificazione politica, amministrativa e culturale, e, non disponendo quale città-stato di adeguate strutture di governo per territori estranei e lontani, lo realizzò nell’ambito di una vasta federazione di città e popoli, con i quali, da una posizione di superiorità, regolò i propri rapporti in modo non uniforme, ma secondo opportunità e circostanze: fu questo il capolavoro della sua classe di governo. In tre categorie si possono raggruppare città e popoli della federazione promossa da Roma: i municipi, i cui abitanti fruivano della cittadinanza romana, per lo più in zone prossime a Roma; città e popoli alleati, cioè i socii, e le colonie; tutti, salvo poche eccezioni, godevano di autonomia amministrativa e finanziaria  e non erano tenuti al versamento di tributi; dovevano però fornire annualmente i convenuti contingenti militari, inquadrati in reparti ausiliari delle legioni, e non potevano stringere patti separati con altri popoli e città anche se alleati di Roma, alla quale erano quindi tenuti a uniformare la politica estera. Rilevante importanza avevano le colonie, di due tipi, quella di cittadini romani, creati all’inizio con scopi militari solo lungo le coste, in un tempo successivo e con maggior numero di coloni anche all’interno per sfoltire la popolazione esuberante, e quelle latine sul modello delle deduzioni coloniarie della disciolta Lega Latina, creata per scopi sia militari sia di popolamento: le une e le altre potevano contare su magistrature  e statuti propri, ricalcanti spesso le strutture di Roma e con larga autonomia locale. Col tempo però ai cittadini che si recavano a popolare le colonie latine furono conservate alcune delle loro prerogative e ciò allo scopo di creare duraturi rapporti con la madrepatria nel campo dei diritti civili, così che l’insieme di tali prerogative , lo ius Latii, vennero costituire una forma di cittadinanza  romana limitata, destinata a essere estesa pure a comunità preesistenti entrate nel giro della supremazia romana. Anche nella categoria dei municipi, ve ne furono di quelli come per esempio alcune città etrusche e campane, i cui abitanti fruivano dei soli diritti civili, senza quelli politici, ma anch’essi, in compenso, fruivano di larga autonomia amministrativa. Questa possibilità di autonomie locali affiancati lo Stato egemone favorì il graduale superamento della nozione città-stato creando una nuova nozione , quella dello Stato municipale. Dal mosaico di popoli e civiltà attestati nella penisola venne gradualmente emergendo , in virtù del sistema politico creato da Roma , il concetto  unitario di “Italia” , termine significante in origine terra degli Itali, un’antica tribù della Calabria il cui nome nelle fonti greche si estese gradualmente a comprendere prima  i popoli dell’Italia meridionale e poi quelli di tutta la penisola. Con il superamento delle lotte locali conseguente all’avvento dell’egemonia romana , i rapporti tra città e popoli si intensificarono in Italia, la popolazione crebbe ovunque, gli scambi commerciali si allargarono, favoriti da costruzioni  di grandi strade  (già nel 312 era stata costruita da Appio Claudio Cieco la via Appia collegante Roma  a Capua prolungata poi fino a Brindisi , e nel 220  Gaio Flaminio costruì l’omonima via da Roma a Rimini , prolungata poi dalla Via Emilia fino a Piacenza), tanto da fare sentire  anche a Roma , che fino ad allora nella sua zecca aveva emesso solo moneta  di rame , l’asse (pur avvalendosi però anche  di coniazioni di argento   delle città campane) , la necessità di una propria moneta argentea, che fu il denarius, corrispondente in valore a dieci assi, con i sottomultipli quinario (cinque assi) e sesterzio (due assi e mezzo). Opere pubbliche e templi furono allora costruiti a Roma ed in altre città con largo impiego di mano d’opera, anche servile. Nuove fortune si formarono: non più solo l’agricoltura e la pastorizia erano a fondamento dell’economia. Fu nel secolo III, dopo la citata Lex Hortensia del 286 a. C. che lo stato romano rinsaldò il suo assetto costituzionale : i due consoli, uno patrizio e uno plebeo (ma dal 172 a.C. potranno essere ambedue plebei), esprimevano gli interessi del patriziato  e della plebe vicendevolmente controllandosi e confrontandosi; al pretore urbano se ne affiancò presto anche uno peregrino per l’amministrazione della giustizia con le vertenze con gli stranieri; i due censori, anch’essi uno patrizio e uno plebeo, avevano visto aumentare le proprie prerogative, spettando ad essi di redigere i censimenti dei cittadini e delle loro fortune ai fini fiscali e del servizio militare, indire e decidere gli appalti delle opere pubbliche, pronunciarsi sulle ammissioni in senato; i tribuni della plebe  gradualmente si andavano integrando nel sistema magistratuale come rappresentanti  degli interessi dello stato oltre l’antitesi superata tra patriziato e plebe; altri minori magistrature si venivano precisando per le varie necessità amministrative. I grandi problemi pubblici erano dibattuti nelle due massime assemblee, quella centuriata in cui erano eletti i consoli e i censori e, con la divisione dei cittadini adulti che vi si operava in cinque classi e 193 centurie, la maggioranza poteva già essere  conseguita con i voti dei più facoltosi e degli anziani, e quella tributa in cui si eleggevano i tribuni e si approvavano le leggi  di carattere sociale: vi si votava per testa, ma il numero di 35 tribù raggiunto verso la metà del secolo III non fu poi più aumentato, pur ingrandendosi lo Stato con nuovi territori, preferendosi così iscrivere anche i nuovi cittadini nelle tribù più antiche  e così si ottenne l’effetto di conservare la preminenza al corpo della popolazione più antica. Con l’instaurazione della sua egemonia nel Meridione, Roma si venne intanto a trovare faccia a faccia con Cartagine, città attivissima  di scambi commerciali al centro delle rotte mediterranee , tra l’Oriente e l’Occidente , che andava allargando la sua penetrazione  in Sicilia. Con lo Stato cartaginese, Roma già nel 509 a.C. aveva stipulato un primo patto di amicizia , che poi aveva rinnovato nel 348 e ancora nel 306, trasformandolo infine in alleanza nel 279 nella guerra contro Pirro: tali trattati trovarono spiegazione  nella differenza degli interessi economici  delle due parti, prevalentemente agricoli quelli di Roma, commerciali invece quelli di Cartagine. Ora invece, dovendo Roma difendere gli interessi mercantili delle città greche del sud , sue alleate , che si sentivano minacciate  quasi di accerchiamento dalla presenza dei Cartaginesi  in Sicilia, in Sardegna e Corsica, i rapporti si rovesciarono e l’urto fra le due maggiori potenze del mediterraneo centrale divenne inevitabile dando luogo allo scoppio, nel 264 a.C. della I guerra punica , nel corso della quale Roma, potenza terrestre , dotatasi di forti flotte e di addestrati equipaggi  riuscì a superare l’avversaria, la cui maggiore forza era proprio sul mare. Cartagine sconfitta definitivamente nella battaglia delle Egadi nel 241, dovette abbandonare a Roma la Sicilia, che, con le sue immense riserve di grano costituì la prima provincia romana , alla quale si aggiunsero , alcuni anni più tardi , come seconda provincia, la Sardegna e la Corsica, anch’esse sottratte ai Cartaginesi . Nello stesso periodo i Romani si spinsero anche a nord, insediando, per iniziativa di Gaio Flaminio, forti contingenti di coloni nell’ Agro Gallico fino a Rimini; in seguito, sterminato a Talamone (225) un grandioso esercito di Galli, invadevano col console Claudio Marcello, la Valle Padana, e, piegate di nuovo, nel 222, le tribù Galliche a Clastidium, occupavano Mediolanum . Portatisi poi nell’adriatico, sconfiggevano la pirateria illirica e si creavano basi sulla costa dalmata entrando così in contatto diretto col mondo greco. Intanto i Cartaginesi rimessisi dalla sconfitta, avevano creato in Spagna compensi alle perdite subite, in ciò inizialmente non contrastati da Roma che anzi non vedeva malvolentieri questo loro spostamento verso Occcidente; ma quando essi, al comando di Annibale, espugnarono la città di Sagunto, città situata a sud  dell’Ebro, fiume che non avrebbe dovuto superare nella loro espansione, ma alleata di Roma, i Romani stessi , preoccupati ora della forte ripresa cartaginese, entrarono nuovamente in guerra con la rivale (seconda guerra punica 218-202 a.C.) .
Prevenendo ogni iniziativa romana, Annibale con marcia arditissima portò il suo esercito dalla Spagna in Italia scoffiggendo in memorabili battaglie alla Trebbia (218), al Trasimeno (217) e infine a Canne (216) i romani. Non gli riuscì però, come era nelle sue intenzioni, di scardinare la federazione delle città italiche rimaste fedeli, salvo alcune (Capua, Taranto, Siracusa). La rimonta per i romani fulunga e difficile, ma grazie a una grandissima mobilitazione in Italia di uomini e risorse economiche e alla tenacia e al patriottismo della classe dirigente, recuperarono una parte delle città che avevano defezionato, sconfissero nel 207 al Metauro Asdrubale, che dalla Spagna (pure in gran parte sotto il controllo di Roma) aveva cercato di portare aiuto al fratello Annibale, e, portata a loro volta la guerra in Africa con Scipione l’Africano sconfissero a Zama (202) lo stesso Annibale, intanto rientrato a Cartagine. Roma usciva vincitrice dal più grande conflitto dell’antichità: Cartagine fu ridotta ai soli possessi Africani, senza flotta e con enormi indennità da pagare; la Spagna rimaneva ai romani che vi crearono due nuove provincie . Nel corso della guerra , dopo la battaglia di Canne, Filippo V di Macedonia  aveva stretto alleanza con Annibale , illudendosi forse , come pure aveva sperato Pirro mezzo secolo prima , di potersi impadronire  delle città greche dell’Italia meridionale : ciò dimostra come Roma preoccupata della propria sicurezza , ormai non poteva più disinteressarsi  di quanto avveniva da un capo all’altro del mediterraneo . Di qui ebbe inizio tutta una serie di guerre e spedizioni a catena , nel corso delle quali il dominio romano si allargò da ogni parte , aggiungendo provincia a provincia , fino ad estendersi incontrastato su tutte le regioni rivierasche  del Mediterraneo: in appena mezzo secolo, Roma riuscì infatti a prevalere su molti potentati  orientali e a incamerarne  le enormi ricchezze. Rivoltatasi dapprima contro Filippo V , che attaccò nel suo stesso territorio, lo sconfisse, dopo alterne vicende , a Cinocefale ( 197) con Tito Quinzio Flaminio che, ammiratore della cultura ellenica e fautore di rapporti più intensi con il mondo greco, restituì ai greci la libertà che i macedoni avevano tolto loro . Fu poi la volta di Antioco III di Siria che, spinto anche da Annibale, era sbarcato in Grecia presentandosi come liberatore del popolo greco; ma anch’egli venne battuto a Magnesia (189) e dovette cedere i propri possessi dell’Asia Minore  al re di Pergamo, Eumene, e alla repubblica di Rodi , entrambi alleati di Roma . In una successiva guerra, i Romani sconfissero definitivamente,,con la vittoria riportata da Emilio Paolo a Pidna nel 168, la macedonia il cui nuovo re Perseo, figlio di Filippo, aveva invano cercato di rovesciare l’equilibrio politico imposto da Roma. Divisa dapprima in quattro stati e praticamente smilitarizzata, la Macedonia fu ridotta a provincia nel 146, in seguito ad un suo ennesimo tentativo di insurrezione. Questa volta anche i Greci che,  divenuti insofferenti della protezione romana, di nascosto avevano già prestato aiuto a Perseo e, le cui discordie interne andavano sempre aumentando , perdettero la libertà (ma il loro territorio divenne formalmente una provincia solo al tempo di Augusto) : Corinto, centro della resistenza greca, fu rasa al suolo e i suoi abitanti ridotti a schiavi (146). La medesima sorte toccò contemporaneamente, dopo un durissimo assedio, a Cartagine che era tornata a preoccupare Roma per il rifiorire dei suoi commerci (III guerra punica, 149-146): i possedimenti africani della città andarono a costituire una nuova provincia, l’Africa. Lo stesso vincitore di Cartagine, Scipione Emiliano, riuscì a far pure capitolare, nel 133 a.C. la città Spagnola di Numanzia, nella quale si erano ridotte le ultime resistenze degli Spagnoli che avevano impegnato, con continui e violenti moti di rivolta, le legioni romane per almeno vent’anni. Per rendere sicuri i collegamenti tra l’Italia e la Spagna, pure la Gallia meridionale, la Narbonese, venne trasformata in provincia nel 121 e Narbona divenne la prima colonia romana fuori dell’Italia. Nel 129, infine, assoggettato anche il regno di Pergamo, venne creata la provincia di Asia. Roma aveva così imposto la sua pace in tutto il Mediterraneo: oltre all’Italia peninsulare e alla Gallia Cisalpina, ormai in fase di latinizzazione con l’Istria e la Dalmazia, dipendevano dallo stato romano otto provincie, precisamente, nell’ordine cronologico dell’annessione, Sicilia, Sardegna-Corsica, Spagna Citeriore e Ulteriore, Macedonia, Africa, Asia, Gallia Narbonese, province che, seguendo il concetto orientale del territorio di un regno inteso come bene privato del sovrano, furono considerate proprietà del popolo romano e sottoposte al governo di un pretore  nelle cui mani si assommavano, senza alcuna limitazione , il potere esecutivo, giudiziario e militare e che durava in carica un anno. Ai confini delle provincie, poi, c’erano per lo più regni o città alleate. Divenne la potenza dominante nel mondo Mediterraneo , Roma dovette risolvere  nuovi grandiosi problemi di organizzazione, di fronte ai quali le sue strutture politiche , sviluppatesi fino allora sulla linea della città-stato, non erano in grado di reggere : la stessa riluttanza, ampiamente visibile nelle vicende greche , con la quale passò all’egemonia indiretta alla conquista  e alla presa di possesso, dimostra come gli uomini politici di Roma fossero coscienti dell’insufficienza degli organi burocratici dello Stato, e lo Stato entrò da allora in una lunga crisi istituzionale che sfociò un secolo più tardi, nel principato.
Profonde trasformazioni si erano avute anche nella compagine cittadina, di ordine sia culturale sia economico sociale. Le antiche ideologie tradizionalistiche, che avevano avuto il loro ultimo esponente  in Catone il censore, tenace difensore, contro ogni innovazione, dei mores antiqui, nei quali riteneva stesse la vera forza di Roma, erano state sconvolte dal contatto con la cultura e i modi di vita greci. Le abitudini delle famiglie romane, con tante ricchezze affluite dai bottini di guerra e subito entrate in circolo, erano cambiate velocemente: si era allentata l’antica sobrietà e si stavano diffondendo il lusso e il fasto di stampo orientale; la stessa base patriarcale della famiglia era scossa dalla maggiore libertà della donna e dalla possibilità, a cui si ricorreva sempre più facilmente, di divorziare. Anche nell’uso del pubblico denaro il costume si andava evolvendo: si dimenticava l’antica correttezza e gli episodi di malversazioni non mancavano: clamoroso era stato il processo per peculato promosso da Catone contro gli Scipioni, campioni del filellenismo, conclusosi con il volontario esilio dell’Africano. Roma si fece sempre più grande e fastosa e splendidi monumenti ed edifici vi erano costruiti; a essa riaffluivano in gran numero coloni romani e latini che, impoveriti prima dalle guerre, soprattutto da quella annibalica, e poi dalle lunghe ferme militari, abbandonavano le campagne italiche che così perdevano uomini a vantaggio del formarsi del latifondo con la concentrazione della proprietà agraria in poche mani. Ciò causava la riduzione della classe contadina, sulla quale poggiava la forza delle legioni che avevano portato Roma  alla conquista del mediterraneo.
Una separazione sempre maggiore si andava operando,  anche sul piano politico, tra i ceti inferiori e la classe oligarchica, costituita sia dalle famiglie di antica nobiltà, che traevano le proprie ricchezze dallo sfruttamento sempre più intenso e organizzato delle accresciute proprietà agricole, sia dai nuovi ricchi, i grandi finanzieri e imprenditori che formavano la classe dei cavalieri, quelli cioè che un tempo, per il loro censo elevato, erano in grado di provvedersi di un cavallo per il servizio in cavalleria, ma che poi, quando tale servizio passò a reparti specializzati forniti per lo più dagli alleati, vennero a costituire una classe sociale, appunto l’ordine equestre, distinta da quella dei senatori, cui spettava la direzione degli affari dello Stato. Le assemblee, quella centuriata e quella tributa, andavano perdendo l’antica fisionomia , nonostante alcune riforme che le avevano aggiornate con i nuovi rapporti di forza politica e sociale, affollate com’erano in prevalenza da una plebe cittadina amorfa e uno scarso civismo (quella rurale, specialmente dei territori più lontani. Non vi interveniva che raramente). Gli stessi tribuni della plebe agivano ormai  in funzione degli interessi  di questa o quell’altra consorteria  della nobiltà allontanandosi  sempre più dal’antica funzione  di difensori degli interessi  dei ceti minuti. Col dilagante scetticismo  di importazione greca , la stessa religione, incentrata nel culto  delle grandi divinità di Stato ,al quale attendevano prestigiosi sodalizzi sacerdotali, pontefici, auguri, epuloni, ecc, con riti e cerimonie in cui avevano ancora molta parte  le procedure magiche legate alle primordiali credenze animistiche , proprie delle società rurali , andava perdsendo quota nelle coscienze , diventando spesso strumento  per l’affermazioni di interessi  di parte (addirittura si dovette arrivare a proibire  di vedere lampi a ciel sereno, tradizionalmente segnale infausto , per non dover continuamente interrompere i lavori assembleari) Ma la maggior preoccupazione veniva dal ristagno demografico nelle campagne italiche : nel censimento del 135 i cittadini romani adulti erano scesi a 317.993 da 337.452 registrati nel 163; questa flessione comprometteva l’efficienza dell’esercito legionario, i cui compiti si erano sempre più allargati dovendo esso montare  ora la guardia da un capo  all’altro del mediterraneo. Persuaso che per porre rimedio a un simile stato di cose fosse  necessaria la ricostruzione  della classe contadina, Tiberio Gracco, figlio del TiberioGracco che aveva pacificato la Sardegna e la Spagna, nipote di Scipione l’Africano ed esponente delle correnti democratiche, si fece nel 133 promotore, come tribuno della plebe, di una riforma agraria per la distribuzione ai cittadini nullatenenti, in lotti inalienabili di trenta iugeri a testa (circa sette ettari e mezzo), dell’ager publicus, l’insieme cioè dei terreni un tempo confiscati ai popoli italici vinti che, non più ora utilizzati per fondazioni coloniarie (le ultime colonie latine e quelle romane agrarie erano state dedotte nel Nord dell’Italia nei primi decenni dopo la guerra annibalica) , erano stati in larga parte occupati, più o meno abusivamente, dai grandi proprietari con lo scopo di farne soprattutto degli immensi pascoli per estesi allevamenti animali ai quali venivano adibite le ingenti forze servili, quelle affluite in Italia dopo le vittoriose guerre transamarine. Con il ripopolamento delle campagne italiche, avrebbe riconquistato l’antica efficienza, grazie agli arruolamenti incrementati, anche l’esercito, del cui indecoroso comportamento il tribuno era stato testimone diretto durante la campagna spagnola per la conquista di Numanzia. La riforma urtava contro gli interessi della nobiltà e turbava anche i rapporti con gli alleati latini e italici, essi pure colpiti dal recupero dell’ager publicus. Il Senato l’avversò con ogni mezzo: ne seguirono disordini, essendosi essa ormai caricata anche di significato sociale, e Tiberio Gracco  finì con l’esser ucciso dai suoi avversari. Non si osò cancellare la riforma che aveva  ottenuto l’approvazione dei comizi tributi (ormai questi tenevano il primo posto nell’approvazione delle leggi>) e si incominciò ad attuarla  sia pure a rilento. L’azione riformatrice  di Tiberio fu ripresa vigorosamente, dieci anni dopo,  dal fratello gaio che, eletto al tribunato nel 123, promosse un generale programma  di riforme in campo sociale e costituzionale, con lo scopo di fare uscire lo stato romano dalle anguste strutture della città-stato per dargli gli strumenti politici necessari a governare un impero a raggio mediterraneo: confermò la riforma agraria e fece decidere la creazione di colonie a Taranto, a Cartagine e a Corinto, punti chiave del commercio marittimo; agevolò il ceto equestre nella percezione delle decime in provincia d’Asia  e immise sui rappresentanti tra i giudici , fino ad allora solo senatori, per i reati di malversazione  nel governo delle provincie , sempre più frequenti;  promosse distribuzioni di grano  a prezzo controllato , riorganizzò i mercati , costruì strade , stimolò i commerci, e, per tacitare gli alleati Latini e italici danneggiati nel recupero dell’ager publicus, necessario all’attuazione della riforma agraria , propose la concessione  della cittadinanza romana  ai latini e i diritti latini agli altri socii, in modo che gli uni e gli altri potessero,  accedere alla distribuzione delle terre.
L’azione riformatrice del tribuno colpiva però in più parti i privilegi dell’aristocrazia senatoria ( il Senato per la vastità e la complessità dei problemi di governo, era diventato  il vero arbitro dello stato) e in una serie di disordini anche Gaio trovò la morte (121), lasciando aperto, in tutta la sua drammaticità, il problema dell’integrazione  del proletariato romano  e italico nello stato tanto ingrandito . L’altro grave problema , che era stato alla base dei tentativi  di riforma graccani, quello militare, fu per il momento risolto  con l’abbassare, ancora una volta , il censo minimo  necessario all’arruolamento , come dai tempi della guerra annibalica si faceva periodicamente , finche con apposita riforma  introdotta da Gaio Mario, si arrivò, e fu il primo passo verso la creazione , in epoca augustea , di un vero e proprio esercito  professionale , ad arruolamenti volontari  di proletari nullatenenti , per lo più ex contadini, che si attendevano poi la ricompensa, una volta congedati, in terre. Questo tipo di esercito di regola si rivelò più fedele  al generale comandante  che allo stato stesso , fino ad assumere il carattere di un esercito personale: erano all’orizzonte le guerre civili. Appunto con un esercito di questo genere, Gaio Mario che, nonostante  le modeste origini, era riuscito, col favore popolare, a essere letto console, poté  concludere (105)  un’annosa guerra , quella che Giugurta , usurpatore dell’alleato regno  di Numidia, aveva suscitato in Africa contro Roma e che aveva sostenuto per lungo tempo, nonostante la netta inferiorità delle sue forze, sfruttando l’incapacità e la corruttibilità dei vari generali romani che si erano succeduti al comando dell’esercito romano.
Tornato dall’Africa Mario, la cui popolarità era in continua ascesa, tanto da essere rieletto console per cinque volte, dovette affrontare  i Teutoni e i Cimbri, popoli barbari scesi dal nord alla ricerca di terre, e li batté, annientandoli rispettivamente ad Aquae Sextiae nella Gallia Narbonese (102) e ai Campi Raudii, presso Vercelli (101). Queste vittorie erano state facilitate da alcune innovazioni che il popolare condottiero aveva apportato all’ordinamento delle legioni con l’affermarsi in esse delle coorti , le nuove unità tattiche caratterizzate dall’abbinamento, alla tradizionale mobilità, di una maggiore potenza d’urto, particolarmente necessaria negli scontri con le torme barbariche. Le sei rielezioni di Mario al consolato, clamorosa infrazione alla norma consuetudinaria della rotazione delle cariche, erano state rese possibili dalla massiccia presenza, nei comizi elettorali, dei suoi veterani, ai quali egli poté distribuire le terre promesse alleandosi con i cavalieri contro il Senato, mentre la situazione politica andava facendosi sempre più confusa e aspre diventavano le lotte tra le fazioni opposte. La necessità di sistemare i reduci fece però riesplodere la questione agraria e accese la rivolta degli Italici che, già colpiti dalla riforma di T. Gracco , chiedevano ora la cittadinanza romana per aver più parte nella vita dello stato e per usufruire, anch’essi, al momento del congedo, delle assegnazioni di terra.
Scoppiò così la guerra sociale (90-88 a.C.) : dopo un inizio sfavorevole , Roma riuscì, utilizzando tutti i suoi migliori comandanti, a prevalere militarmente sugli Italici (che si erano nel frattempo organizzati , con ordinamenti modellati su quelli romani,  in una confederazione simile a quella romana, con una propria capitale  Corfinium tra i Peligni , ribattezzata Italica), ma dove accoglierli alla fine  nella cittadinanza romana , se pur distribuendoli in sole otto tribù dell’assemblea tributa  limitandone con ciò , per il momento, il peso politico . I cittadini romani passarono  allora di colpo da circa 400.000 a circa 900.000, ma in questo modo le vecchie strutture  dello Stato-città , già deficitarie, entravano definitivamente in crisi: le guerre civili che seguirono furono l’inevitabile conseguenza di questo squilibrio. Durante la guerra sociale era stato richiamato in patria, dalla Cilicia, dove era stato inviato per porre fine al disordine  che il re del Ponto , Mitridate, andava creando in Asia, anche Cornelio Silla, rampollo di una famiglia nobile , ma economicamente decaduta e quindi incapace di fornirgli i mezzi necessari per imporsi  all’elettorato.
Silla si era già distinto per la parte notevole che aveva avuto , grazie alla sua scaltrezza, nella conclusione della guerra  giugurtina , e ora, spenti gli ultimi focolai  dell’insurrezione italica , otteneva dal Senato il comando di una nuova spedizione contro Mitridate, tornato a sobillare la rivolta contro i romani dei popoli orientali, compresi i Greci ; ma i comizi tributi  nei quali spadroneggiavano  i veterani di Mario, trasferirono allo stesso Mario l’incarico togliendolo a Silla . Raggiunto da questa notizia in Campania  mentre era in procinto di partire per la nuova missione, Silla, che già nutriva rancore  verso Mario perché  persuaso che questi lo avesse defraudato della sua parte di merito nella conclusione della guerra giugurtina , marciò alla testa delle sue legioni , su Roma dove entrò in assetto di guerra  contravvenendo con un atto considerato empio, all’antico divieto di varcare in armi il pomerio, l’antica cinta murata: rimasto padrone della città, dalla quale erano però riusciti a fuggire la maggior parte dei suoi avversari tra cui Mario rifugiatosi in Africa, fece uccidere i fautori delle recenti leggi, ristabilì l’autorità del Senato e dell’assemblea centuriata  contro quella tributa, della quale fece abrogare le ultime leggi, e partì poi per l’oriente . Ma subito dopo Roma ritornò in mano ai seguaci di mario, che, rientrato in città, non conobbe limiti nello sfogare, prima di morire nell’86 a.C., la sua sete di vendetta. Più tardi, portata a termine, per il momento con successo, la guerra contro Mitridate e restaurato dovunque l’ordine con gravose imposizioni e feroci castighi alle città greco-orientali insorte, Silla rientrò in Italia carico di un colossale bottino: sconfitto alle porte di Roma l’esercito dei Mariani , formato in gran parte da Italici, tornò padrone assoluto della città. Deciso a stroncare ogni velleità democratica e ad instaurare definitivamente il potere dell’oligarchia, Silla, dopo aver scatenato a sua volta una serie incredibili di vendette contro gli avversari che a migliaia perdettero la vita col sistema delle liste di proscrizione,fattosi nominare dittatore a tempo indeterminato, si diede a riformare lo Stato in senso oligarchico; restaurò i privilegi della nobiltà col porre le assemblee sotto il controllo del Senato, dove aveva immesso un gran numero di suoi partigiani, e col rendere lunghe e difficili le carriere politiche per impedire la rapida formazione di forti poteri personali; ridusse i poteri dei tribuni e stabilì inoltre che consoli e pretori potessero recarsi nelle provincie solo alla fine del mandato. Ma questo nuovo ordinamento, del quale Silla intese favorire un sicuro avvio ritirandosi a vita privata nel 79 a.C. (poco tempo prima della morte) , non era in linea con i tempi e con le aspirazioni personali dei più ambiziosi , tanto che, in breve, venne smantellato pezzo per pezzo. Subito riprese l’opposizione popolare : il console M.E. Lepido, già sostenitore di Silla passò dall’altra parte per motivi personali , cercò di ribellarsi al Senato , ma fu facilmente travolto  da Gneo Pompeo , già distintosi nella guerra civile  dell’83-82  come valido alleato di Silla  e più tardi per aver represso  le ultime resistenze dei democratici  in Sicilia e in Africa. Lo stesso Pompeo , nonostante il Senato , che ben conosceva le sue ambizioni , non si desse molto daffare per agevolarlo con rinforzi, riuscì poi ad avere ragione di un vasto movimento insurrezionale antiromano sorto in Spagna a opera di Q. Sertorio, antico ufficiale di Mario. Pure repressa con tremende rappresaglie , questa volta specialmente a opera  del ricchissimo e altrettanto vanitoso Licino Crasso , fu una grande rivolta di schiavi  delle campagne italiche; questi capeggiati da Spartaco, un orientale probabilmente di origine nobile, con incredibili successi avevano seminato il panico in tutta l’Italia. Nel frattempo in Asia Mitridate, che Silla nell’83, per la fretta di rientrare a Roma, non aveva reso per sempre inoffensivo, riprendeva la sua politica di espansione  antiromana: Licino Lacullo, inviato contro di lui dal senato, riuscì a metterlo in fuga inseguendolo fino nel cuore dell’Armenia, ma qui il suo esercito romano-italico, insofferente della disciplina troppo rigida, gli si rivoltò, favorendo la riscossa di Mitridate. L’unico uomo adatto a ristabilire la precaria situazione venutasi a creare  apparve allora Pompeo, il cui prestigio era immensamente cresciuto presso i ceti popolari dopo che nel 70, come console,  aveva ripristinato i poteri tribunizi umiliati da Silla, e, più tardi aveva fatto ritornare a prezzi normali il grano grazie a un’energica azione  di ripulitura fatta con poteri proconsolari  speciali concessigli per tre anni, di ogni angolo del mediterraneo dalla pirateria, la quale negli ultimi tempi si era rinforzata, dopo la scomparsa delle marinerie greche e cartaginesi, con i molti sbandati delle guerre civili e con gli schiavi scampati all’eccidio della guerra servile, e ora ostacolava gravemente i traffici marittimi. A Pompeo venne così prorogato il comando in Oriente, non senza contrasti, a vincere i quali ebbe parte notevole Cicerone come portavoce dei ceti finanziari, favorevoli alla spedizione contro Mitridate, nella quale intravedevano nuove prospettive e immensi guadagni . Quello conferito a Pompeo fu allora un comando senza limiti di tempo e con piena facoltà di intraprendere guerre o concludere paci, ed egli se ne avvalse per sconfiggere a Nicopoli (66) l’indomabile Mitridate che fu costretto a suicidarsi. Guidando poi, con grandiose marce sulle orme di Alessandro magno, le legioni romani-Italiche all’interno del favoloso Oriente e assicurando al dominio di Roma nuove ricche regioni, quelle dell’Asia anteriore, la Siria, la Palestina, Pompeo diede una stabile sistemazione a tutto l’oriente asiatico , nel quale riprese, in sostanza l’azione ellenizzatrice del grande re Macedone. A Roma, intanto, la situazione andava facendosi sempre più precaria rimanendo ancora aperte e insolute antiche  questioni, prima tra tutte quella agraria, ormai pretesto di continue lotte tra le fazioni opposte o di tentativi di affermazioni personali come quello di Catilina, la cui congiura che pure aveva suggestionato sia aristocratici indebitati sia nullatenenti della città e delle campagne (i cambiamenti di fortuna erano stati rapidi nelle guerre civili, delle distribuzioni di terre  ai veterani erano spesso rimaste vittime anche  piccoli proprietari e l’andamento dell’economia subiva contraccolpi dalle ricorrenti crisi monetarie  e da investimenti avventurosi) , fu sventata da Cicerone , console nel 63 . Cicerone si illuse allora di aver reintegrato il Senato  nell’antico prestigio e non si rese conto che il tipo di governo da lui vagheggiato , basato sulla concordia degli ottimati , senatori e cavalieri , raggruppati in consorterie che si contendevano il potere politico e quello economico , era ormai fuori dalla realtà  e che la situazione sarebbe rimasta precaria fin tanto non si fosse trovata un’adeguata sistemazione all’innumerevole turba  di proletari che affluivano  con ritmo crescente nella città in continua espansione , e che diventeva strumento nelle contese comiziali. Nel 60 a.C. i tre magiori protagonisti  della vita politica del tempo, cioè Pompeo , il quale tornato carico di gloria  e di bottino, dopo aver congedato , nel rispetto della legalità. L’esercito, si era visto negare dal Senato , geloso e timoroso della sua potenza, la ratifica delle misure  prese in Oriente  e la sistemazione dei veterani; Crasso che, con la grande maestria che usava nell’ordire  intrighi sotterranei , non mancava di approfittare di ogni situazione per accrescere potenza e ricchezza, e Cesare, la cui influenza era in continua ascesa grazie alla sensibilità  che aveva per i problemi dei ceti popolari e alle autentiche capacità politiche  in lui innate, si allearono tra loro  con un patto personale: il cosiddetto primo triunvirato , che, sebbene privo di base costituzionale , era certamente in grado  di controllare o addirittura  soppiantare i poteri dello Stato . In tal modo Cesare , eletto console nel 59, dopo aver fatto ratificare  gli ordinamenti che Pompeo aveva dettato in oriente , fece approvare, secondo un piano preordinato, inteso a creargli una base di potenza per il futuro e a ridurre il potere dell’oligarchia, una legge agraria per la distribuzione  delle terre ai veterani di Pompeo e alla plebe povera; grazie a tale legge  un grande beneficio venne anche all’agricoltura italica duramente danneggiata, negli ultimi decenni, dalle continue guerre interne.Partito poi, nel 58, con poteri proconsolari per la Gallia, cesare riuscì a sottomettere tale immensa regione definitivamente nel 51, dopo avere espugnato la città di Alesia dove si erano rifugiate le ultime disperate resistenze  galliche capeggiate da Vercingetoringe: in questo modo egli si creò, oltre che un esercito addestrato  e fedele e un enorme riserva di ricchezze, anche un prestigio militare  che oscurava ormai quello di Pompeo. Quest’ultimo, durante l’assenza di Cesare era andato sempre più avvicinandosi al Senato , ergendosi come supremo difensore della legalità. Scomparso poi Crasso miseramente a Carre nel 53, alla fine di un infelice spedizione contro i Parti intrapresa per soddisfare un vano sogno di grandezza militare  che lo tormentava da anni, la rottura tra Cesare e Pompeo divenne inevitabile. Avendogli il Senato, istigato da Pompeo, intimato di cedere il comando in Gallia e di scogliere l’esercito, Cesare, consapevole che ubbidire significava per lui perdere ogni potere, dopo avere cercato invano  un compromesso, ordinò alle sue truppe di varcare il Rubicone (49 a.C.) che segnava il confine  tra il territorio romano e quello provinciale , ponendosi così fuori dalla legge. Dopo una rapida discesa lungo la penisola , Cesare entrò senza fare rappresaglie a Roma, dalla quale erano però fuggiti rifugiandosi nella penisola balcanica, Pompeo e i suoi seguaci, e, impadronitosi del tesoro statale, passò in Spagna dove vinse a Ilerda, un esercito pompeiano. Fattosi eleggere console nel 48, dopo aver preso alcune misure  per risollevare la precaria  situazione economica , affrontò Pompeo a Farsalo (48) in Tessaglia e lo vinse dimostrando grande abilità tattica, nonostante la superiorità delle forze pompeiane. Recatosi in Egitto per inseguire Pompeo, che vi aveva cercato rifugio, e invece vi era stato ucciso a tradimento, Cesare si fermò alcuni mesi ad Alessandria dove rinforzò il potere della regina Cleopatra. Più tardi con una fulminea campagna durata appena cinque giorni, inflisse a Zela (47) nel Ponto, da cui inviò al Senato il famoso messaggio veni,vidi,vinci, una severa sconfitta al figlio di Mitridate, Farnace II, che, approfittando della guerra civile, aveva ripreso la politica espansionistica paterna . Placati poi i tumulti che serpeggiavano a Roma, rimasta da tempo senza guida  sicura a causa della della sua lunga assenza , e ristabilito ovunque l’ordine , Cesare si trasferì in Africa dove, presso Tapso , nell’estate del 46, attaccò e distrusse un esercito formato da alcuni autorevoli esponenti dell’opposizione, capeggiati da Catone Minore: questi, dopo la sconfitta, si uccise a Utica, persuaso che Roma avesse ormai perso definitivamente la libertà. Stroncato nel 45 un ultimo focolaio di resistenza a Munda in Spagna, liquidando così ogni forma  di opposizione, Cesare, assommando ormai nella sua persona tutti i poteri fondamentali dello Stato, civili (dittatura prima decennale, poi a vita, e la tribunizia potestas, cioè il potere tribunizio che rendeva inviolabile la sua persona e gli dava la facoltà di convocare il Senato e le assemblee), militari (l’imperium, cioè il comando di tutte le forze militari) e religiosi (il pontificato massimo), si trovò padrone del mondo romano e potè dunque iniziare un’opera grandiosa di riforme costituzionali e amministrative oltre che sociali: allargò i quadri del Senato, aumentò il numero dei magistrati, riorganizzò municipi e colonie con la Lex Julia Municipalis, creò nuove colonie tra cui Cartagine e Corinto, represse abusi nel governo delle provincie, riformò il calendario, tendendo al superamento delle città-stato mediante una formazione di uno stato plurinazionale nel quale fossero ridotte il più possibile le differenziazioni tra le varie componenti nazionali e sociali. Promosse in Roma anche grandiose opere pubbliche come la sistemazione del Foro, e favorì largamente  le lettere e le arti, istituendo la prima biblioteca pubblica di roma. Ma alle idi di marzo del 444 a.C., cadde ucciso in un complotto organizzato da Bruto e Cassio, al quale presero parte una sessantina di giovani, tutti esponenti della nobiltà insofferenti della supremazia del dittatore e tenacemente fedeli agli ideali repubblicani di libertà. Si aprì così una lunga serie di lotte civile che sconvolsero ancora una volta il mondo romano. Dapprima cercò di trarre profitto della situazione di disordine venutasi a creare con i tumulti suscitati dai veterani e dal popolo di Roma, il console Marco Antonio, un fedelissimo di Cesare, del quale voleva raccogliere l’eredità politica: ma il Senato gli contrappose il diciannovenne Ottavio , designato inaspettatamente dal prozio Cesare come erede adottivo dei suoi beni. Il giovane prese il nome di Cesare Ottaviano, seppe far convergere su di se, sottraendole ad Antonio, gran parte delle forze militari cesariane. Accortosi poi che, dopo aver sconfitto a Modena nel 43 un esercito di Antonio, il Senato cercava ora di metterlo da parte per restaurare i suoi antichi poteri, Ottaviano sorretto dai vecchi soldati di Cesare, presentatosi con fredda determinazione alle porte di Roma con un esercito, riuscì a farsi nominare console e si accordò con il rivale  col quale si incontrò nell’autunno  del 43, a Bologna, , assieme a Emilio Lepido, , un altro fedele cesariano, per costituire un triunvirato quinquennale , poi ratificato dal Senato , col fine di riordinare lo Stato  su nuove basi costituzionali (triumviratus reipublicae costituendae). Dopo avere scatenato , diversamente dal comportamento  di grande clemenza tenuto da Cesare, una serie di vendette contro gli avversari, nel corso delle quali cadde vittima di Antonio anche Cicerone, i triunviri , passati in Macedonia, sconfissero a Filippi, nel 42, le forze di Bruto e Cassio che ormai tenevano sotto controllo l’Oriente, e si divisero poi il territorio dell’Impero. Ottavio, responsabile dell’Italia, la cui popolazione era già esasperata per le difficoltà del vettovagliamento  create dalle azioni piratesche  di Sesto (questi , figlio di Pompeo, raccolti presso di se sbandati e fuggiaschi, si era creato un vasto dominio nelle isole del mediterraneo), si trovò a dover fronteggiare una vera e propria ribellione causata dal malcontento per le spogliazioni  di terre operate a favore dei veterani. A capo della ribellione si erano posti per smorzare lo strapotere di Ottaviano in Italia, il fratello  di Antonio, Lucio, e sua moglie Fulvia; Antonio da tempo si era stabilito presso Cleopatra dimentico dei propri impegni  di riorganizzazione  dell’Oriente. Ottaviano intanto, domata l’insurrezione e costretti alla resa i due  cognati nel40 a Perugia, ristabilito successivamente a Brindisi l’accordo con Antonio (velocemente tornato in Italia) , distrusse nel 36 a Nauloco, sulle coste settentrionali della Sicilia , la flotta di Sesto Pompeo che andava tra l’altro risvegliando pericolose simpatie tra gli antichi seguaci del padre , e, dopo aver esonerato Lepido dal governo dell’Africa, divenne di fatto padrone dell’Occidente intero. Taluni atteggiamenti di Antonio, quali la donazione fatta a Cleopatra, da lui sposata, di alcune provincie orientali romane o il riconoscimento della dignità regale ai due figli da lei avuti, che la propaganda di Ottaviano, sfruttandoli abilmente, presentò come un tradimento dei tradizionali valori morali e religiosi del mondo romano (Ottaviano, con grande sagacia, ne andava intraprendendo la restaurazione in Italia ), offrirono l’occasione alla rottura  tra i due; la lotta personale assunse presto l’aspetto di un grandioso conflitto tra due opposti mondi  ideali, quello romano e quello dell’oriente ellenistico, essendo ormai sorpassata la questione della sopravvivenza o meno della costituzione repubblicana, con la quale sempre minor legami  avevano i nuovi ceti dominanti.
Il successo che la flotta di Ottaviano, grazie all’abilità di M. Agrippa e all’apparato amministrativo e militare dello stato romano, ottenne nelle acque di Anzio, nel 31 a.C., su quella di Antonio e di Cleopatra, segnò, oltre che la vittoria dello spirito nazionale romano-italico sull’universalismo ellenistico, anche la soluzione del secolare travaglio costituzionale di Roma.
L’età Imperiale:
Divenuto, dopo la vittoria di Anzio e il suicidio di Antonio, arbitro di Roma e dell’Impero, Ottaviano , cui il Senato attribuì nel 27 a.C., il nome augurale di Augustus (colui che sopravanza tutti per autorevolezza e prestigio), procedette a un riassetto delle strutture politiche dello Stato lasciandone invariata la forma esterna  repubblicana, ma concentrando in realtà nelle sue mani tutti i maggiori poteri. Con l’imperium militare nelle provincie e a Roma la potestas tribunizia che, facendo di lui il naturale protettore della plebe, gli assicurava l’inviolabilità e il diritto di convocare le assemblee o promulgare editti, e, più tardi, dal 12 a.C. , con il pontificato massimo , tutte le cariche attribuitagli a vita , Augusto (Ottaviano Augusto) si garantì  il controllo su ogni settore dello Stato , dando inizio a un regime indicato poi con il nome  di principato dal suo titolo di princeps senatus, colui cioè che primo tra eguali esprime in Senato  il parere sui problemi  in discussione. Nel nuovo regime  la funzione legislativa fu gradualmente trasferita dalle assemblee popolari al Senato che, a sua volta,  si era vista sottrattala direzione politica  dello Stato e nel quale Augusto accanto alla vecchia nobiltà cittadina accentuò l’entrata di esponenti della borghesia italica. Le tradizionali magistrature repubblicane furono mantenute in vita, ma, con la moltiplicazione dei posti, esse persero gradatamente di importanza diventando col tempo cariche più onorifiche che reali. Per assolvere compiti propri delle tradizionali magistrature, Augusto si avvalse sempre più dei funzionari appartenenti all’ordine equestre, o addirittura di liberti, primo germe di quella solida classe burocratica, ordinata ed efficiente, che sarebbe stata, nei secoli successivi, uno dei cardini della stabilità dell’impero. Tra i funzionari imperiali i più importanti furono a Roma i prefetti del pretorio, comandanti delle cohortes praetorianae, la guardia del corpo dell’imperatore, con i compiti di polizia, e, nelle province , i legati, con compiti amministrativi.
Rappresentava in Roma l’imperatore assente il praefectus urbi. La città, con circa mezzo milione di abitanti, fino allora divisa in quattro distretti corrispondenti alle quattro tribù urbane ( Esquilina, Palatina, Suburana, Collina), fu riorganizzata in quattordici regioni: il servizio di polizia urbana era esplicato dalle cohortes vigilum, al comando di un altro prefetto. Anche l’Italia, dai piedi delle Alpi allo stretto di Messina  e che contava allora una decina di milioni di abitanti, fu suddivisa, sulla base di differenze etniche, linguistiche, storiche, geografiche, in undici regioni: la suddivisione, fatta allora più per scopi di statistica, in connessione con i censimenti, che per interventi diretti del governo centrale, fruendo circa 300 municipi del tempo di ampia autonomia locale, avviò il processo storico del regionalismo italiano. Anche il governo delle provincie venne riorganizzato: esse furono divise in senatorie, quelle in cui, essendo da tempo sotto il dominio romano, non era più necessaria la presenza di forze militari e i cui governatori erano scelti dal Senato tra ex magistrati di rango consolare e pretorio, e in imperiali che richiedevano invece un presidio militare e i cui governatori erano nominati direttamente dal principe. In campo economico poi, Augusto, mediante alcune misure, come la riscossione diretta dei tributi tramite funzionari statali in luogo di appaltatori, ottenne il risanamento finanziario dello stato e diede impulso alla ripresa economica, che fu favorita anche dal rifiorire dell’agricoltura grazie alle nuove grandi distribuzioni di terre ai veterani. In politica estera, il principe si preoccupò di consolidare i confini invece che allargarli: la sconfitta che nel 9 d.C. il germanico Arminio inflisse nella selva di Teutoburgo a tre legioni romaniche, annientate insieme al comandante Varo, lo indusse a fissare i confini settentrionali sul Reno invece che sull’Elba come avrebbe voluto , ritenendo questo confine più sicuro; con la conquista della Pannonia furono comunque congiunti, in una ben munita linea difensiva , limes, il confine del Reno e quello del Danubio. Furono pure annesse la Galazia e la Giudea mentre sull’Armenia venne imposto il protettorato romano, dopo che i Parti avevano restituito le insegne da loro prese a Crasso. L’abbandono della politica di espansione, inizio di un lungo periodo di pace, permise anche di fissare in venticinque legioni gli effettivi dell’esercito , 250.000 uomini , che Augusto trasformò in milizia stanziale  distribuendola  ai confini per la difesa . Come già Cesaare, anche Augusto promosse grandiose opere pubbliche in Roma: costruì o restaurò templi con lo scopo di favorire il ritorno alla religione tradizionale contro il diffondersi delle religioni orientali; eresse teatri, riparò strade, dando così alla città un aspetto adeguato al suo ruolo di capitale dell’impero, tanto da poter affermare nelle Res gestae, il suo testamento inciso sul suo mausoleo, di aver trovato una Roma “laterizia” e di avere lasciarla “marmorea”. Favorì anche, aiutato da mecenate, la cultura, e la letteratura latina conobbe in questo periodo, con Virgilio, Orazio, Livio, il suo momento più alto. Dopo la sua morte, il principato si trasmise, quasi come un bene ereditario, agli esponenti della famiglia, nell’ambito di quella che è stata chiamata dinastia giulio-claudia (Tiberio, 14-37; Caligola, 37-41; Claudio, 41-54; Nerone, 54-68) e ciò per mezzo secolo, fino a che i rapporti con il Senato e l’aristocrazia , presto fattesi precari sia per l’insofferenza dei ceti tradizionalisti verso un regime di fatto monarchico, che tale consideravano il principato, sia per le tendenze autocratiche o addirittura dispotiche di certi imperatori, non si guastarono definitivamente con Nerone, dimostrando così quanto il sistema inaugurato da Augusto, e che si manterrà, senza radicali trasformazioni, per almeno tre secoli, cioè fino alla totale ristrutturazione che ne fece Diocleziano, dipendesse molto dalle qualità personali del principe con effetti differenti nell’evoluzione storica e nella valutazione ufficiale.
Tiberio , oltre a rimanere fedele alla politica augustea della ricerca dell’equilibrio col Senato, si dimostrò anche, almeno nei primi anni, abile uomo politico e soprattutto ottimo amministratore dopo aver rivelato, vivo ancora Augusto, grandi doti militari nelle campagne in Germania e in Armenia, ma fu ritratto come un tiranno nella storiografia romana di parte aristocratica (fu tacito il suo principale e implacabile accusatore) . Anche la figura di Claudio che, succeduto al folle e crudele Caligola, svolse un’ottima politica  sia curando particolarmente l’organizzazione burocratica e finanziaria dell’Impero, sia favorendo la romanizzazione e l’integrazione delle province, alle quali aggiunse anche la Britannia, fu oggetto di scherno e di denigrazione da parte di Seneca, altro esponente dell’aristocrazia senatoria. Con nerone sembrò tornare l’equilibrio, ma dopo alcuni anni le sue tendenze dispotiche, vicine all’assolutismo di tipo orientale e in contrasto quindi con lo spirito nazionalista romano, il suo filellenismo, la sua politica demografica, i suoi stessi intrighi familiari gli alienarono le simpatie della classe senatoria.
Nel 64 fu sospettato di aver appiccato il grande incendio che allora distrusse Roma e che gli permise poi di promuovere la ricostruzione della città in modo più razionale, ma riuscì a sviare i sospetti sui cristiani, la cui religione, col suo messaggio di carità e con l’appagamento che sapeva dare alla speranza in una vita ultraterrena , si stava diffondendo  anche a Roma. Nel 65 riuscì a sventare una congiura ordita  dai massimi esponenti  dell’aristocrazia , tra cui i Pisoni, Seneca, Lucano, e ne confiscò i beni, e ne confiscò i beni accrescendo il patrimonio imperiale. Ma quando malcontento e spirito di rivolta , già serpeggianti in Roma per le sue megalomanie  e il suo esibizionismo , si diffusero anche nell’esercito , che era cardine del potere del principe , Nerone, abbandonato da tutti, vistosi perduto si fece uccidere da un servo (68). Dopo quasi un biennio (68-69)  di dure lotte per la successione, nella quale i capi militari Galba, Otone e Vitellio riuscirono a farsi proclamare  imperatori, finendo però tragicamente uno dopo l’altro (due battaglie decisive furono combattute a Bediacrum nel Cremonese) , prevalse il generale italico Vespasiano, capostipite della dinastia Flavia, originaria della Sabina: fu acclamato imperatore dalle legioni di Oriente al comando delle quali si trovava nella repressione della rivolta giudaica , scoppiata nel 66 e che si concluse poi nel 70 con la presa di Gerusalemme a opera del figlio Tito. Ristabilito l’accordo con il Senato col ridare la preminenza  nell’impero all’elemento Italico, che egli introdusse in modo sempre più massiccio sia nel Senato sia nella burocrazia e nei comandi militari, Vespasiano svolse un’intensa attività di governo in ogni settore dell’amministrazione dello stato: fatte sancire dal Senato, con la Lex de imperio Vespasiani, le funzioni giuridiche del principe nel controllo su tutte le magistrature civili , militari e religiose e nella direzione della politica estera, perfezionò il sistema fiscale al fine di rendere più stabile e ordinato il bilancio dello Stato , riorganizzò il sistema  giudiziario, rese più efficienti i governi locali, accentuò gli arruolamenti tra i provinciali, scarseggiando ormai gli italici cui riuscivano più attraenti le carriere amministrative. Dopo il breve regno di Tito (79-81), durante il quale avvenne la grande eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed Ercolano (Roma stessa fu allora colpita da un epidemia e semidistrutta da un nuovo incendio), Domiziano (81-96) continuò la politica paterna sia nell’incrementare l’apparato burocratico e giudiziario, sia nel coordinare lo sviluppo economico , sia ancora nel consolidare i confini (portò a termine la conquista della Britannia, rese inoffensivi i popoli germanici stanziali al di là del Reno e del Danubio, fortificò quei confini con la creazione di una zona di colonizzazione  militare fra i due fiumi, i cosiddetti agri decumates),ma le sue tendenze dispotiche posero fine all’accordo con il Senato che si vedeva sempre più esautorato dal consilium principis, un ristretto organo consultivo formato da familiari e da amici del principe, introdotto già da Augusto, ma divenuto potente a partire da Vespasiano. L’aristocrazia, colpita con indiscriminate  confische di beni, ordì una congiura che eliminò Domiziano e portò al potere l’anziano senatore Cocceio Nerva, che, diede inizio alla serie degli imperatori adottivi (Nerva, 96-98; Traiano, 98-117; Adriano, 117-138; Antonio Pio, 138-161; Marco Aurelio,  161-180), con i quali l’impero conobbe il periodo della sua maggiore stabilità in una continua prosperità economica. Seguaci dell’ideale storico secondo cui al vertice dello Stato deve essere il migliore tra i cittadini in grado di operare per il benessere comune, gli imperatori adottivi, forti dell’alleanza con la classe dirigente dell’impero, si impegnarono a fondo nei compiti di governo garantendo sicurezza ai confini con opere di difesa e con una sagace dislocazione delle legioni, migliorando l’apparato burocratico con la gerarchizzazione  delle carriere, stimolando lo sviluppo economico con opere pubbliche  e favorendo il progresso culturale. Traiano primo imperatore provinciale nato a Italica in Spagna, abile generale, allargò un po’ dovunque , dove lo richiedevano ragioni di sicurezza  e di difesa , i confini dell’impero che , con lui raggiunse la sua massima espansione territoriale: conquistò infatti la Dacia , l’odierna Romania (105), per impedire pericolose alleanze dei popoli transdanubiani con i Parti, e, per contrastare la temibile potenza di questi ultimi, assoggettò l’Arabia settentrionale (106), l’Armenia (114) e l’Assiria (116), riuscendo così a controllare  anche le vie carovaniere del mar Rosso. Adriano , anch’egli spagnolo, resosi però conto che le ultime conquiste rischiavano di compromettere l’equilibrio difensivo dell’Impero e creare ulteriori problemi militari e amministrativi, preferì abbandonarle e riprese la politica difensiva augustea rafforzando ovunque i confini con nuove linee fortificate (per esempio il vallo che prese da lui il nome in Britannia) e stabilendo, dove era possibile, rapporti di alleanza con i barbari confinanti. Il ritorno della pace, insieme all’oro della dacia affluito in gran quantità sui mercati dell’impero, ridiede vigore, in Italia e nelle provincie, all’attività produttiva in ogni settore, artigianale e agricolo: gli scambi commerciali, favoriti anche dalla grandiosa rete stradale, ovunque sviluppata, che univa tra loro le più lontane provincie, si infittirono rinsaldando così l’unità politica e culturale dell’Impero, un Impero che si estendeva  ormai su una superficie di oltre tre milioni di chilometri quadrati con 50-60 milioni di abitanti. Numerose città si abbellirono con edifici e monumenti fastosi anche nell’Occidente, in Gallia, in Spagna, in Africa, provincie in cui la romanizzazione  trovò stimolo in larghe concessioni della cittadinanza romana e dei diritti latini a interi centri urbani. Anche la macchina burocratica raggiunse, con gli Antonini, la sua piena maturità: Adriano diede struttura  definitiva alla carriera equestre, fissando una gerarchia delle cariche burocratiche riservate alla classe dominante italica, alla quale cominciò ora ad affiancarsi anche quella provinciale; riformò la giustizia trasformando il consilium principis in organo ufficiale di consulenza giuridica e mettendo in pratica, con la pubblicazione dell’edictum perpetuum del pretore, una sistematica tendenza codificatrice valevole in ogni parte dell’Impero. Tuttavia, in un momento pur tanto splendido della storia di Roma e del suo Impero, covavano già in profondità elementi forieri di future difficoltà: prima di tutto la politica perseguita di un diffuso benessere, al quale non potevano reggere all’infinito le capacità produttive del mondo antico a base prevalentemente agricola, stava causando il progressivo indebitamento dello Stato e delle città; in un secondo luogo il primato dell’Italia, la cui economia dava segni di prime difficoltà con l’agricoltura minata dal secolare estendersi del latifondo e dallo spopolamento delle campagne in dipendenza di un urbanesimo eccessivo, fenomeni questi concomitanti con il graduale contrarsi dei tributi provinciali, si andava allentando rispetto alle provincie la cui ascesa economica era favorita dagli stessi imperatori (Adriano dedicò a esse particolari cure compiendovi lunghi viaggi): l’allentamento preludeva a future tendenze separatistiche. Si andavano poi delineando differenziazioni sociali tra gli honestiores, i ceti dominanti da una parte, e gli humiliores, i nullatenenti diseredati dall’altra, nei confronti dei quali lo Stato non sapeva che prendere misure di assistenza momentanee  e dispendiose come di grano e altri generi. Un brusco e drammatico risveglio dalla lunga pace si ebbe  durante l’impero di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo deciso a realizzare fino in fondo l’ideale stoico del sovrano impegnato costantemente, al servizio dello Stato a migliorare le condizioni di vita dei sudditi: i Parti avevano attaccato l’Armenia e bande di Marcomanni, alla testa di una vasta coalizione  germanica, avevano assaltato i confini danubiani, mentre una rovinosa pestilenza , venuta dall’Oriente , dilagava nell’Impero decimando le popolazioni, già stremate da carestie . Per il momento il pericolo barbarico fu però scongiurato grazie all’abilità dell’imperatore : con l’aiuto del correggente Lucio Vero, riuscì infatti ad avere ragione  dei parti e a riaffermare , con una pace conclusa nel 166, la superiorità romana  nel settore armeno. Più tardi marco Aurelio ristabilì la pace anche lungo il confine danubiano sconvolto per anni dai continui assalti barbarici <8un’incursione di Marcomanni e Quadi aveva persino raggiunto Aquileia nel 167)  e riportò le popolazione germaniche alla clientela, senza tuttavia procedere a nessuna annessione.. Pure domate erano state alcune ribellioni  in Spagna, in Britannia (161) e in Mauretania (172-173) e la rivolta del governatore Avido Cassio in Oriente (175). Le difficoltà e le angosce  del tempo sono riflesse nei bassorilievi della superstite colonna dedicata alle campagne di marco Aurelio (oggi in piazza Colonna) in cui non c’è più la limpidezza  descritta dall’altra colonna dedicata alle imprese di Traiano più di mezzo secolo prima. Morto marco Aurelio  di peste nel 180, gli succedette, ripristinando il principio dinastico contro quello adottivo invalso nell’ultimo secolo (si tenga però presente che nessuno degli imperatori adottivi precedenti a marco Aurelio aveva avuto eredi diretti) , il figlio Commodo che, con atteggiamenti dispotici e una condotta spesso dissennata, che ricordava quella di Caligola e di Nrone, ruppe l’alleanza con l’aristocrazia senatoria sulla quale infierì con esecuzioni e confische, infrangendo così l’equilibrio dell’era degli Antonini e dando inizio a una grave crisi politica nell’Impero. Infatti, eliminato Commodo in una congiura nel 192, il Senato non riuscì più a imporre stabilmente  un proprio candidato, come aveva fatto un secolo prima  con nerva, e l’Impero precipitò temporaneamente nell’anarchia. Dapprima fu nominato imperatore il senatore Pertinace , ma, dopo soli tre mesi di principato, i pretoriani, preoccupati per il programma di austerità e parsimonia che egli aveva instaurato allo scopo di riparare ai danni causati alle finanze statali dalla politica folle del predecessore e dalle forti spese sostenute nelle guerre di marco Aurelio, lo uccisero. Nella contesa che seguì per la successione tra i vari aspiranti cioè Didio Giuliano, che aveva ottenuto dal Senato il titolo di Augusto dopo avere versato a ciascuno dei pretoriani 25.000 sesterzi contro i 20.000 offerti dal concorrente Sulpiciano (l’Impero all’asta!), Pescennio Nigro, legato di Siria e sostenuto dalle legioni di oriente, Clodio Albino, legato di Britannia, e Settimio Severo, un originario di Leptis Magna acclamato imperatore delle legioni del Reno e del Danubio, ebbe la meglio quest’ultimo che riuscì a eliminare  gli avversari a uno a uno, dopo avere occupato Roma nel giugno del 193 e aver fatto ratificare la sua nomina dal Senato. Meno legato, per l’origine Africana, alla tradizione romana e alla vecchia concezione del principato era persuaso che l’unica possibilità di mantenere in vita l’istituto imperiale poggiava su un’accentuazione  del suo carattere tendenzialmente  assolutista , e perciò attivo  con grande energia  una politica di accentramento nella quale rientravano anche  le cure particolari  da lui rivolte ai ceti bassi  di tutto l’Impero, sia imponendo nuovamente il principio dinastico, sia esautorando, dalle ridotte competenze  rimastegli, il Senato (già alterato nella sua fisionomia dall’immissione di nuovi membri, per lo più ora orientali e africani), sia potenziando e rendendo più efficiente l’esercito ( nelle cui fila favorì pure l’entrata di un numero sempre maggiore  di elementi barbari), sia accrescendo le competenze della classe burocratica cui diede una struttura via via più rigida , sia infine diminuendo i privilegi di cui ancora godeva l’Italia rispetto alle provincie. La stessa energia Settimo Severo mostrò nella politica verso i popoli confinanti: nel 198 inflisse un duro colpo alla potenza dei Parti arrivando a conquistare la stessa capitale Ctesifonte al termine di una spedizione  in Oriente, che, se portò al consolidamento del dominio romano in Mesopotamia, dove fu istituita una nuova provincia, si sarebbe rivelata però nel futuro poco propizia a Roma  perché dell’umiliazione inflitta ai Parti si avvantaggiò la più intraprendente e temibile dinastia  dei Sassanidi. Settimo severo sulla strada del ritorno a Roma ispezionò anche i confini danubiani che rese ovunque più sicuri; più tardi fece avanzare verso il deserto il Limes africano, e, infine, nel 208, visitò il confine britannico insidiato dai Caledoni e assicurò la pace anche nella regione oltre il Vallo di Adriano. Tuttavia le grandi spese militari (la paga dei legionari fu allora portata da 300 a 500 denari) unitamente alle altre spese per l’amministrazione statale e per la costruzione di opere pubbliche (a Roma furono eretti l’arco in onore dell’Imperatore e il Septizonium, un grandioso ingresso monumentale da sud) , resero pesante il bilancio dello Stato, cosicché si dovette ricorrere a una politica fiscale opprimente: venne istituita l’annona militare che obbligava gli agricoltori a consegnare allo stato, per il vettovagliamento delle truppe, parte dei loro raccolti, e si procedette a requisizioni di beni in natura e di servizi, spesso con procedure arbitrarie, a danno specialmente dei proprietari.  Inoltre allo scopo di far fronte alle crescenti spese pubbliche, si inflazionò ulteriormente il denaro, ormai una lega di argento e rame  che già da decenni subiva un costante peggioramento, e si permise l’istituzione di zecche di Stato nelle provincie per poter affrontare le locali spese militari. La pressione fiscale, se per il momento riuscì a mantenere in sesto il bilancio, causò però un rallentamento nelle attività commerciali e artigianali e l’ulteriore fuga dalle campagne di molti superstiti piccoli agricoltori impossibilitati a sottostare ai gravami fiscali del tutto sproporzionati alle rendite: la classe media, specialmente quella italica, da sempre anticamera dell’aristocrazia di governo, iniziò a decadere, mentre diventavano sempre più potenti i militari. Provvedimento sfavorevole al primato dell’Italia fu la Costitutio Antoniana de civitate (212), con la quale Caracalla concesse, al termine di un lungo processo di integrazione delle provincie dell’Impero, iniziato già ai tempi di cesare e in linea con la politica severiana favorevole ai ceti bassi e ai provinciali  contro l’aristocrazia tradizionale, la cittadinanza romana a tutti i cittadini liberi dell’Impero, a esclusione dei dediticii (gli abitanti di centri rurali di origine barbarica). Il provvedimento, che sanciva l’effettiva uguaglianza di tutti gli abitanti dell’Impero, fu forse dettato da ragioni finanziarie, implicando l’avvento di una tassazione  uniforme e regolare  con un gettito più ambondante, quale richiedevano sia le immense spese militari, sia le spese burocratiche e amministrative dello Stato; a esse si cercò di fare fronte con una serie di altre imposizioni come il raddoppio delle imposte sulle eredità e sulle tasse dell’affrancamento  degli schiavi, senza che per altro si ottenessero decisivi vantaggi , anche per il progredire dell’inflazione  monetaria. Caracalla continuò la politica  accentratrice del padre : uccise il fratello Geta , a lui associato nell’Impero, fece sopprimere chiunque  gli si opponesse ( tra le vittime ci fu anche Papiniano, uno dei più celebri giuristi del tempo che, quale prefetto del pretorio e membro del consilium principis con Settimo Saverio, aveva contribuito a dare base giuridica alla nuova concezione imperiale). Ma dall’atmosfera piena di intrighi che venne a creare intorno alla corte, sempre più simili alle corti orientali e addirittura propagatrice delle religioni universalistiche d’Oriente contro la vecchia religione romana, rimase vittima lui stesso, ucciso da una congiura a Carre nel 217  mentre era in procinto di organizzare una nuova spedizione contro i Parti. Dopo il breve regno del prefetto del pretorio Macrino, un cavaliere di origine  mauretana che, indeciso se continuare la politica assolutistica di severo o riprendere la politica filo senatoria degli Antonini, scontentò esercito e senato finendo ucciso, il potere tornò nelle mani della famiglia  dei Severi con Eliogabalo, appena quattordicenne e sacerdote del Dio Sole di Emesa in Siria: anch’egli fu presto eliminato, nel 222, per le ripetute follie e soprattutto perché aveva tentato di imprimere all’istituto imperiale una sorta di dispotismo mistico di stampo orientale. Il successore Alessandro Severo, pure giovanissimo e troppo debole per imporsi  cercò vanamente di ristabilire l’equilibrio fra le classi militari, sempre più potente, e l’aristocrazia senatoriale gravemente danneggiata dalla stravagante condotta di Eliogabalo, ma si alienò in questo modo l’esercito che, con settimio Severo, era divenuto la nuova, vera base dell’Impero: dopo tredici anni di regno, nel 235, mentre si trovava sui confini renani per cercare di porre un freno alla sempre crescente pressione barbarica, le sue truppe (già insoddisfatte per l’esito deludente che aveva avuto la campagna condotta contro la rinata e aggressiva potenza persiana in Oriente, attribuito alle indecisioni dell’imperatore più proclive al negoziato che allo scontro frontale) gli si rivoltarono contro e lo uccisero, acclamando nuovo imperatore il loro prefetto Massimino, un cavaliere della Tracia che aveva fatto tutta la carriera nell’esercito e che il senato subito avversò per la sua dichiarata volontà di continuare sulla linea dell’assolutismo militare e della pressione fiscale inaugurata da settimio Severo. Il principato si era ormai trasformato in un monarcato militare: i casi di Alessandro severo, e, più tardi, di Massimino, entrambi uccisi dai loro stessi soldati, non rimasero senza seguito: per quasi mezzo secolo, infatti, gli imperatori furono fatti e disfatti a piacimento delle soldatesche con vendette , rappresaglie, confische di beni dei soccombenti e loro seguiti. Ciò avveniva mentre i barbari attaccavano da ogni parte le frontiere, aprendovi delle brecce nelle quali si infiltravano di frequente in massa seminando terrore e distruzione. Particolarmente grave si fece la situazione nel 242-243 quando le orde di Goti e di Carpi, varcato il Danubio, dilagarono nella Tracia e il nuovo re persiano Shapur  che aveva ripreso i piani espansionistici di Ciro il Grande, occupò la Mesopotamia  e parte della Siria. Per il momento le invasioni furono respinte  e nel 248, l’imperatore Filippo poté celebrare in solennità il millennio di Roma, ma quando, dopo qualche anno, si ripeterono, succedette addirittura che un imperatore, Decio (248-251), venisse ucciso in battaglia e un altro, Valeriano (253-260) fosse fatto prigioniero da Shapur e morisse in prigionia. Nel decennio successivo l’unità e la sopravvivenza stessa dello Stato romano furono messi in forse: in Occidente si costituì, con l’usurpatore Postumo, un Impero nell’Impero, comprendente Gallia, Spagna e Britannia, che mantenne la propria autonomia per quattordici anni (260-274); e in Oriente il re di Palmira  Odenato e successivamente la vedova Zenobia col figlio Vaballato, estesero il loro dominio  su gran parte di quelle provincie, mentre si infittirono sempre più le incursioni barbariche , una delle quali arrivò fino ad Atene. Con l’imperatore Claudio (268-270) ma soprattutto con Aureliano (270-275), ufficiale pannonico, ebbe inizio la ripresa resa possibile dal fatto che l’apparato statale  aveva tenuto in mezzo a tante sciagure e che nuovi ceti dirigenti si erano formati con i rincalzi militari venuti dalle regioni danubiane: una serie di sconfitte furono inflitte ad Alemanni, Marcomanni, Vandali, Goti che affrontati da un capo all’altro dell’Impero, furono ricacciati nei loro confini , quando non ottennero anche territori dell’Impero da colonizzare; la Dacia transdanubiana, la cui difesa diventava difficile, venne  però abbandonata come già era successo, anni prima, degli agri ducumates, ma Palmira fu alla fine distrutta e l’Oriente riconquistato (272) ; nel 274 rientrava pacificamente anche la secessione occidentale e l’impero era riunificato. Per garantire Roma da ogni possibile assalto, Aureliano la recinse allora di una possente cerchia di mura (quasi 19 km.). Grande figura di imperatore fu Diocleziano (284-305) , un generale illirico di modeste origini (era figlio di un liberto) . Dopo aver domato nei primi anni del suo governo, numerose rivolte militari scoppiate un po’ ovunque e avere energicamente respinto le ormai abituali incursioni barbariche ai confini, il nuovo imperatore procedette  con vigore ad una serie di riforme dettate dalle esperienze del passato e in linea con le nuove esigenze: rafforzò l’autorità dell’imperatore; riorganizzò i sistemi amministrativi , giudiziari e finanziari dello Stato; risanò l’economia sempre più in difficoltà e rinnovò i quadri militari. Per evitare lotte interne e le usurpazioni che tanto avevano turbato la vita dell’impero nell’ultimo secolo e per garantire la difesa e un più rigido controllo del potere centrale in ogni parte dell’impero, diede vita alla cosiddetta tetrarchia nominando come secondo Augusto per l’Occidente Massimiano , mentre egli tenne il governo dell’Oriente: ognuno dei due  si nominò poi un Cesare, nelle persone rispettivamente di Costanzo Cloro e di Galerio, che avrebbero dovuto succedere loro scegliendo poi a loro volta altri due Cesari, in modo da garantire così una successione automatica  senza più contese. I due Augusti e i due Cesari si suddivisero aree e compiti di governo, ognuno con una capitale  prossima alle frontiere, che fu Nicomedia per Diocleziano  e Sirmium per Galero, Milano per Massimiano e Treviri per Costanzo: Roma era ormai troppo lontana dalle zone calde di confine , verso le quali era andato gradualmente rivolgendosi nell’ultimo secolo, gli interessi degli imperatori, per poter continuare a svolgere il ruolo di capitale reale. Per assicurare una valida difesa dei confini, Diocleziano suddivise gli effettivi dell’esercito, per altro aumentato a 500.000 unità, in reparti di guarnigione , limitanei, stanziati  stabilmente alle frontiere  e in reparti mobili comitatenses, stanziati invece presso le capitali al seguito delle corti , ma pronti ad accorrere nelle zone più esposte  a pericoli.
La ristrutturazione dell’amministrazione  ebbe però come conseguenza un ulteriore veloce aumento  della burocrazia . L’introduzione di un nuovo sistema fiscale  di tipo catastale  rese la tassazione più regolare e copiosa in vista del risanamento del deficit dello Stato . Ma in campo economico le misure di Diocleziano non ottennero sempre i risultati  che si riprometteva: per esempio il famoso edictum de pretiis emanato nel 301 per frenare il rapido rialzo dei prezzi non ebbe  effetti durevoli. L’aggravarsi della pressione fiscale, anche se benefica all’inizio, ebbe successivamente per effetto l’aggravarsi della diserzione  delle campagne da parte dei contadini cui si aggiunse  una diffusa tendenza all’abbandono della propria professione  da parte di coloro  che non riuscivano a sostenere gli oneri connessi  con i servizi pubblici  che lo Stato imponeva : ciò renderà necessario  intervenire sancendo l’ereditarietà delle professioni e il divieto ai contadino  di abbandonare i campi, col che un grave colpo finirà per l’essere inferto alla libera iniziativa  economica , preparando l’avvento del medievale servaggio della gleba. Diocleziano, messosi su una strada di dirigismo statale, e continuando nella tendenza gia manifestatasi con i Severi, e più tardi con Aureliano, accentuò il carattere sacro della figura dell’imperatore  anche nelle forme esterne (diadema, veste regale, genuflessione) alla maniera orientale : egli è ormai il dominus, il padrone ( e col termine di “dominato” sarà indicato il tardo impero come con quello di principato il periodo iniziale).
Il rendere culto all’Imperatore si trasformò così in una prova di lealismo  e l’urto con il cristianesimo  diventò inevitabile. Le file dei cristiani si erano andate sempre più ingrossando, nonostante le persecuzioni cui erano stati fatti oggetto negli ultimi tempi, soprattutto a opera di Decio e Valeriano, dopo la tolleranza di cui avevano goduto  nell’epoca degli Antonini. Contro di loro ritenuti un pericolo per l’unità dell’impero, Diocleziano, in un supremo tentativo di distruggerne la forza sempre crescente a tutti i livelli sociali, scatenò nel 303 in Oriente, in Africa, in Italia una violenta persecuzione, alla quale però il cristianesimo   seppe tener testa. Questa politica religiosa era fuori del tempo: il cristianesimo si era ormai largamente diffuso  e radicato e vano era ormai ogni tentativo di distruggerlo; bisognava piuttosto cercare di assorbirne  la vitalità inquadrandola a profitto dello Stato per non esserne travolti. Di ciò si rese conto Costantino  (306-337)  che, figlio di Costanzo Cloro, col fallimento del sistema tetrarchico, nella lotta di successione seguita all’abdicazione di Diocleziano (305), era riuscito  a liberarsi degli avversari (da ultimo anche del temibile e forte Massenzio vinto al Ponte Milvio a Roma nel 312).
Rimasto praticamente solo al vertice dello Stato, nel 313 emanò il famoso Editto di Milano  che sancì la libertà di culto all’interno dell’Impero: il cristianesimo poteva uscire  dalle catacombe e si preparava a divenire una delle più grandi religioni della storia. Da quel momento  le sue vicende si intrecciarono con quelle dell’Impero per l’attenzione costante che gli imperatori ebbero verso di esso: Costantino partecipò in persona al Concilio di Nicea nel 325 e con Teodosio, sul finire del secolo IV, quella cristiana divenne religione ufficiale dello Stato romano mentre veniva interdetto il culto pagano. Il ritorno dell’ordine all’interno e della sicurezza ai confini  seguiti alla riforme di Diocleziano , insieme alla pacificazione religiosa ( e alle ricchezze confiscate ai tempi pagani ), favorirono nel secolo IV una notevole ripresa economica: la produzione agricola, con gli stanziamenti di barbari operati dagli imperatori, specialmente da Probo (276-282), con l’intento di rimettere a cultura le terre abbandonate e col legame alla terra poi imposto ai coloni, fu incrementate; l’agricoltura italiana conobbe, nel secolo IV, addirittura momenti di grande prosperità.
Fu pure intensificata anche con fabbriche di stato, la produzione manifatturiera artigianale e pure i commerci ripresero attivi in tutto l’impero, favoriti dalla ripresa vigorosa dell’urbanesimo dopo la stasi del secolo III. Di questo generale incremento di ricchezza è testimonianza l’intensa attività edilizia : le città, tra le quali divenne sempre più importante  la nuova capitale Costantinopoli la cui costruzione richiese ricchezze immense, dopo aver in breve tempo riparato i danni causati dai saccheggi del secolo precedente, facevano a gara nell’arricchirsi di monumenti e di palazzi fastosi. Roma stessa ottenne nuovi grandiosi edifici, terme di Diocleziano, basilica di Massenzio, arco di Costantino: anche se non era più la capitale di fatto si era però accentuato il suo valore ideale. Anche la moneta tornò stabile: Costantino fece coniare il solidus, una moneta d’oro (4,55 g.) che entrò subito nell’uso corrente ( sopravvisse per ben sette secoli).
Tutto ciò che fu però di lunga durata: la riorganizzazione iniziata dagli imperatori illirici e continuata da Costantino , che moltiplicò ulteriormente  gli uffici della corte, aveva bensì reso sempre più efficienti i servizi statali e permesso la ripresa economica, ma a lungo portò a un aumento eccessivo nel numero delle persone viventi a carico dello Stato e ciò, insieme alle spese militari, al dispendio delle corti e all’intensificazione delle distribuzioni  di grano e di altri viveri alle plebi urbane per garantire l’ordine pubblico, causò nuovamente, come era già avvenuto nel corso del secolo III, una dilatazione  della spesa pubblica oltre la misura consentita dall’economia del tempo, la cui produttività era fortemente limitata dall’insufficiente meccanizzazione: ciò dimostra come nel mondo antico, per le obbiettive condizioni del tempo, un immenso stato, organizzato ed efficiente come era quello romano nel secolo IV, non aveva possibilità di sopravvivere a lungo. Di queste difficoltà già si rese conto  a metà secolo l’imperatore Giuliano, una delle personalità più elevate della serie imperiale romana, per un suo senso del dovere e quella sete di giustizia che ricordavano Marco Aurelio: nipote di Costantino, già Cesare dal 355 di Costanzo II, al quale era succeduto nel 361, cercò di ridimensionare le spese, ma la sua azione finanziaria e politica ad ampio raggio, insieme al tentativo di restaurare la religione pagana in un generale ritorno allo spirito della tradizione repubblicana di Roma, rimase interrotta dalla sua morte prematura  incontrata nel 363 combattendo contro i Persiani in Mesopotamia .
Sul finire del secolo, poi ripresero anche le incursioni barbariche ai confini, interrotte negli ultimi decenni grazie all’attenuarsi della pressione da Oriente dei più lontani popoli asiatici. Ma quando gli Unni, sospinti a loro volta dai Mongoli, varcarono il Volga, l’equilibrio fu nuovamente infranto e le popolazioni germaniche stanziate in Europa orientale furono costrette ad avanzare verso i confini dell’Impero.
Nel 378 i Visigoti attaccarono Adrianopoli: l’esercito romano, ormai costituito in maggioranza di barbari, venne travolto e lo stesso imperatore Valente, che aveva invano cercato un compromesso permettendo ai Visigoti di stanziarsi  nel territorio romano, fu ucciso. Teodosio, l’ultima grande figura di imperatore e l’ultimo anche che governò (379-395) su tutto l’impero, continuò sulla strada del compromesso consentendo a numerose  comunità di barbari di stanziarsi entro i confini dell’Impero come foederati: questa politica, se per il momento riuscì a evitare il peggio, alla lunga favorì però il graduale insediamento barbarico nei posti di comando imperiali contribuendo così a gettare le basi dei futuri regni romano-barbarici. Morto Teodosio e rimasto diviso l’impero nei due tronconi d’Occidente e Oriente, toccati ai due figli Onorio e Arcadio, il potere centrale si indebolì, anche per l’inefficienza degli Augusti spesso adolescenti sotto tutela, e le invasioni barbariche non trovarono più ostacoli.
I Visigoti , guidati da Alarico, irruppero in Italia all’inizio del secolo V: inizialmente furono fermati a Pollenzo in Piemonte da un esercito composto in maggioranza da barbari comandato da Stilicone, il magister utriusque militiae che esercitava la tutela si Onorio, ma quando, per gli intrighi della corte, nel frattempo stabilitasi a Ravenna, il generale venne eliminato, i Visigoti guidati da Alarico, poterono arrivare quasi indisturbati fino a Roma che presero e saccheggiarono  nel 410. Nel 451 fu la volta degli Unni di Attila: scacciati dalla Gallia, dove si erano nel frattempo insediati i Visigoti, dopo la sconfitta inflitta loro a Chalons-sur-Marne dal generale barbarico Ezio che combatteva in nome di Roma, gli Unni invasero l’Italia settentrionale seminando terrore tra le popolazioni: Attila consentì però di ritirarsi dopo avere incontrato il Papa Leoni I che gli era mosso incontro a Roma. Nel 455 Roma fu nuovamente messa a sacco dai Vandali di Genserico, appositamente salpati dall’Africa dove si erano stanziati. Roma continuava dunque ad attrarre e a suscitare ricordi di grandezza, sebbene da tempo avesse perso le sue prerogative di capitale e di centro di quell’Impero che da essa aveva preso il nome.
Mentre la parte Orientale, o Impero Bizantino, più ridotta e politicamente meglio amalgamata, ma anche meno esposta alle correnti di invasioni barbariche, sopravvisse per più secoli ancora, quella Occidentale, a causa degli incessanti attacchi barbarici avvenuti nel corso della prima metà del secolo V, perse definitivamente la propria unità politica  frantumandosi nei vari regni barbarici che si erano venuti a costituire nelle provincie romane.
Il 476 è la data convenzionalmente accettata per fissarne la fine ufficiale: in quell’anno infatti Odoacre, il generale sciro salutato re dai merceneri eruli, rugi e sciri che combattevano nell’esercito romano, trovatosi padrone dell’Italia, depose l’ultimo Imperatore, il giovane Romolo Augustolo, e rimandò le insegne imperiali all’imperatore d’Oriente dichiarando di voler governare quale suo luogotenente col titolo di patrizio che da tempo veniva conferito ai comandanti delle forze imperiali.
Odoacre e gli altri capi barbari si accordarono presto con i grandi proprietari e alti prelati liquidatori ed eredi dell’Impero caduto. Roma ora si accingeva ad assumere un nuovo ruolo, quello di centro della cristianità: sulle rovine dell’impero romano e del vuoto politico seguito si era infatti sempre  più affermata la chiesa che, ereditandone l’idea universalistica (così bene interpretata nel 416 dal poeta Rutilio Namaziano , originario della Galilea, con il verso fecisti patriam diversis genti bus unam, hai fatto un'unica patria di genti diverse), avrebbe salvato e trasmesso ai secoli futuri quanto di duraturo aveva creato il mondo antico, riassunto appunto da Roma nello sviluppo secolare della sua civiltà.










GLI IMPERATORI ROMANI D’OCCIDENTE

Augusto 27 a.C.- 14 d.C. Claudio II il Gotico 268-270
Tiberio 14-37 Aureliano 270-275
Caligola 37-41 Tacito 275-276
Claudio 41-54 Floriano 276
Nerone 54-68 Probo 276-282
Galba 68-69 Caro e i figli Carino e Numeriano 282-285
Otone 69 Diocleziano 284-305
Vitellio 69 Massimiano 286-305
Vespasiano 69-79 Costanzo I Cloro 305-306
Tito 79-81 Galerio 305-311
Domiziano 81-96 Flavio severo 306-307
Nerva 96-98 Massenzio 306-312
Traiano 98-117 Costantino il Grande 306-337
Adriano 117-138 Massimino Daia 308-313
Antonino  Pio 138-161 Licinio 308-324
Marco Aurelio 161-180 Costantino II 337-340
Commodo 180-192 Costante 337-350
Pertinace 193 Costanzo II 337-361
Dido Giuliano 193 Magnenzio 350-353
Pescennio Nigro 193-194 Giuliano l’Apostata 361-363
Clodio Albino 193-197 Gioviano 363-364
Settimo Severo 193-211 Valentiniano I 364-375
Caracalla 198-217 Valente 364-378
Geta 209-212 Graziano 367-383
Macrino 217-218 Valentiniano 375-392
Eliogabalo 218-222 Teodosio 379-395
Alessandro Severo 222-235 Massimo 383-388
Massimino Trace 235-238 Onorio 395-423
Gordiano  I
Gordiano II 238
238 Giovanni 423-425
Pupieno
Balbino 238
238 Valentiniano III 425-455
Gordiano III 238-244 Petronio Massimo 455
Filippo l’Arabo 244-249 Avito 455-456
Decio 248-251 Maggioriano 457-461
Treboniano Gallo 251-253 Libio Severo 461-465
Emiliano 253 Antemio 467-472
Valeriano 253-260 Olibrio 472
Gallieno 253-268 Glicerio 473-474
Postumo
Leliano
Mario
Vittorino
Tetrico 260-268
268      Nelle Gallie
268
268-270
270-274 Giulio Nepote

Romolo Augustolo 474-475

475-476




La Roma  medioevale e moderna
Con la caduta dell’Impero in Occidente, Roma, che già da quasi due secoli aveva perduto il ruolo di capitale, fu politicamente ancor più degradata, in particolare nei confronti di Costantinopoli, la “Nuova Roma”, rimasta indenne dalle tempeste scatenatesi sull’Occidente. A Roma restava tuttavia intatto il prestigio che le derivava dal glorioso passato imperiale e dall’arcano presente cristiano, così che su di essa convergevano l’ammirazione del mondo civile e del mondo barbarico. Durante la dominazione degli Ostrogoti ariani in Italia, Teodorico non solo onorò Roma  (la visitò nel 500 e ordinò a sue spese una serie di restauri), ma vagheggiò anche una stretta collaborazione con quanti ne rappresentavano più degnamente la cultura.
Si sa che questa politica lo deluse e, verso la fine della sua vita, la rovesciò infierendo contro i romani e il papa stesso Giovanni I; ma si sa pure che raccomandò a chi gli doveva succedergli di ritentare la via della conciliazione. Le cose andarono altrimenti e nel corso della guerra gotico-bizantina (535-553), voluta da Giustiniano per liberare l’Italia dai barbari e riannetterla all’Impero, Roma fu duramente colpita, passando più volte dalle mani degli Ostrogoti di Vitige e di Totila a quelle dei non meno barbarici eserciti di Belisario e di Narsete e subendo assedi , devastazioni, carestie e pestilenze. I papi non ne furono risparmiati, soprattutto per opera dei Bizantini. A guerra vinta , le chiavi di Roma furono mandate a Giustiniano, che fece della città la residenza di un dux bizantino, subordinato dall’esarca di Ravenna.
Roma rimase formalmente bizantina per due secoli; fu una dominazione onerosa, aggravata da servitù militari, esosità fiscali, pesanti inframmettenze degli imperatori in materia di fede di competenza dei papi (monotelismo nel secolo VII, iconoclastia nel secolo VIII).
L’invasione dei Longobardi (568) erose progressivamente la potenza bizantina, ma non apportò benefici a Roma, costretta a sopportarla  per non cadere in mano ai Longobardi che la circondavano in Toscana,a Spoleto e a Benevento. Gli stessi Longobardi dapprima come ariani, poi come cattolici, avevano mirato alla conquista della città promuovendo parecchie spedizioni a questo fine. Ma in questi secoli oscuri in Roma bizantina andava emergendo al di sopra di ogni altro potere, non solo nel campo spirituale, ma anche in quello temporale, la figura del vescovo, il Papa. Già con Gregorio I, tra la fine del secolo VI e gli inizi del VII, i Romani affidavano al papa  la gestione di alcune attività essenziali d’interesse pubblico affatto trascurate  dal governo legittimo (cura dell’annona e degli acquedotti, provvedimenti difensivi, vigilanza su alcune magistrature, esercizio della giustizia, ecc.) Si configurava cioè un nuovo potere, destinato, sia pur lentamente  e discontinuamente, a raggiungere la sua piena maturità. Al tempo stesso la società romana, pur sempre torbida e turbolente, tendeva a comportarsi in tre ordini: il “venerabile clero” il “felicissimo esercito” (formato non dai soldati bizantini, ma dall’aristocrazia locale) e il popolo dedito all’agricoltura all’artigianato e al commercio. E’ questa società autenticamente romana era di regola antibizantina. Il peso di queste forze locali si manifestò in pieno nel secolo VIII , dal papato di Gregorio II a quello di Adriano I. Fu in questo periodo che i papi trovarono le forze e i consensi per rompere definitivamente coi Bizantini, senza accettare il soccorso dei pur cattolicissimi Longobardi (Lioutprando si arrestò tre volte sulla via di Roma e nel 728 fece la prima donazione, quella di Sutri, ai beatissimi apostoli Pietro e Paolo) e per contenere le successive minacce di Astolfo e di Desiderio cercarono quell’alleanza con i Franchi dei re Pipino e Carlo che distrusse il regno longobardo e, grazie alla donazione (o restituzione, per chi credeva nella falsa donazione costantiniana allora coniata) di Pipino (756), diede origine al nuovissimo stato della Chiesa incuneato in mezzo alla penisola  tra un mare e l’altro. Ecco dunque di nuovo Roma capitale politica, non più di un impero, bensì di uno stato regionale, e insieme centro della cristianità e mitica custode della dignità imperiale. I primi tempi del nuovo stato non furono naturalmente sereni : la tutela imposta su Roma dai re Franchi, prima Pipino poi suo figlio Carlo Magno col titolo di patricii conferito loro dal papa , urtava suscettibilità e interessi legati a situazioni del passato. La stessa incoronazione imperiale  di Carlo magno avvenuta durante la messa della notte di Natale (800) , l’episodio forse più importante del Medioevo occidentale, ebbe come premesse la contrastata politica  di Adriano I, intesa a gettare le basi del nuovo governo e una congiura contro il suo successore Leone III, che rischiò la vita , riparò in Germania  presso Carlo Magno e, tornò con lui a Roma, fu da lui reintegrato nel potere e gli cinse in S. Pietro la corona. A tutta la vicenda partecipò appassionatamente il popolo, sia pure senza una precisa  coscienza dei suoi mutevoli atteggiamenti. E gravi incidenti provocarono le competizioni tra il Clero e l’Aristocrazia (l’exercitus) per accrescere i propri poteri , tanti che Ludovico il Pio inviò a Roma il figlio e futuro imperatore Lotario I per rendervi effettiva la sua tutela:  Lotario una severa costituzione , che limitava fortemente il potere politico del papa, riservandosi il diritto di intervenire nella sua lezione e di esigere da lui il giuramento di fedeltà (824,con Eugenio II) . In questa condizione di Vassallaggio, i papi e Roma stessa, subirono le ripercussioni delle guerre tra i Carolingi, soprattutto per opera di Lotario I  e Ludovico II.
Ai mali di Roma  si aggiunsero le incursioni dei saraceni, che si spinsero fino a saccheggiare  le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo (846) . Furono poi sconfitti nelle acque di Ostia (849) , ma Roma veniva intanto munita  di n robusto sistema di opere difensive , completate entro l’852 da Papa Leone IV (città Leonina), che scoraggiarono  per qualche tempo gli aggressori. Due papi s’adoprarono  nella seconda metà del secolo  IX per alleggerire la pressione Imperiale su Roma che, oltre a offendere il primato del capo della Cristianità, provocava continui scontri tra fazioni: Niccolò I e Giovanni VIII. Il primo riuscì, in Roma, a tenere di fatto in soggezione Ludovico II, riscattandosi di fronte al popolo delle umiliazioni  che la sua posizione formale di vassallo comportava. Il secondo ottenne ampi onori da Carlo II il Calvo, ma fu travolto dalle ultime lotte per il potere dei Carolingi, da nuovi assalti saraceni e infine da una congiura che gli costò la vita (882) . ne fu l’animatore Guido II, duca di Spoleto, che puntava su Roma circondata dai propri feudi umbri e da quelli beneventani suoi alleati . Guido, forte anche a Roma, ebbe infine successo quando, finito con la deposizione  di Carlo III il Grosso l’Impero carolingio, in competizione con Berengario I del Friuli , cinse la corona d’Italia e quella imperiale per se dalle mani di papa Stefano V, per suo figlio Lamberto dalle mani del papa Formoso (891-892).
Dopo un effimera eclissi della parte spoletana, a cui il papa non fu estraneo, il vento mutò di nuovo; Lamberto (Guido era morto) e la madre Ageltrude si reinsediarono in Roma e, sotto la sinistra regia di papa Stefano VI, consumarono la macabra vendetta contro la memoria di Formoso, dissepolto, processato e gettato nel Tevere in un orgia di furore plebeo (897) ; furore che raggiunse ben presto anche Stefano VI. Un ultimo sinistro episodio di questa tragica fine di secolo fu il crollo della basilica lateranense: Con la scomparsa di Lamberto di Spoleto (898), Roma, rimaneva priva di un potere politico coattivo e i papi capaci di surrogarlo, cadde nell’anarchia per lo scatenarsi delle ambizioni di potenza delle maggiori famiglie aristocratiche, aspiranti tra l’altro ad appropriarsi del papato concepito come un qualunque principato. Prevalse dapprima la famiglia di un alto dignitario pontificio, Teofilatto, assecondato dalla moglie Teodora  e dalle figlie Teodora e Morozia , che inabissò il papato, tenuto da membri o clienti della famiglia, in vicende scandalose e tragiche , accompagnate da inconsulti moti popolari. Anche i Saraceni riapparvero, ma furono debellati (915-916) . Una parentesi meno fosca fu il ventennio 932-954 quando un figlio di Marozia , Alberico di Spoleto, liberata Roma dalla turpe madre  e dal suo terzo marito Ugo di Provenza, resse e difese la città col titolo di principe e senatore, vigilò sul papato con illuminata fermezza  e intese anche l’urgente esigenza di una rigenerazione morale  e religiosa, sollecitata da Oddone abate di Cluny. Ma Alberico designò come suo successore il figlio  quindicenne Ottaviano princeps et senator nel 954 e papa nel 955 col nome di Giovanni XII, politico sprovveduto e pessimo papa . Di qui un rigurgito di anarchia, brevemente arginata  dall’intervento di Ottone I di Sassonia , che fu da Giovanni incoronato imperatore e che a Giovanni garantì  con un celebre privilegio la più ampia tutela , riservandosi per altro il diritto di approvare  l’elezione dei futuri pontefici (962) . Seguirono terribili tempeste .
Giovanni XII tradì l’imperatore che lo depose e gli oppose Leone VIII; riconquistò la tiaria, scacciando a sua volta Leone VIII; morì infine, riaprendo la via al ritorno all’avversario scortato dall’imperatore, mentre i romani riluttavano a ogni imposizione . Infine morto anche Leone VIII, Ottone I impose il successore, Giovanni XIII (965), uno dei Teofilatto, e con un inesorabile repressione mise  al silenzio quanti si ostinavano a disconoscere il diritto dovere dell’imperatore  e di sottrarre il papa ai giochi di potere dell’aristocrazia  romana e di tutelarlo nell’esercizio della sua somma autorità. Sotto Ottone II e durante la minore età di Ottone III vi furono altri sussulti  contro i papi d’osservanza imperiale da parte di due Crescenzi, padre e figlio, anch’essi discendenti da Teofilatto e alla testa del partito che considerava lesiva della dignità dei romani  l’intromissione di qualunque potere esterno e soprattutto dell’imperatore . Dopo complicate vicende, toccò a Ottone III tagliare il nodo, imponendo come papa, a onta dei Crescenzi e della loro parte, suo cugino Bruno di Carinzia (Gregorio V, 996), il primo papa tedesco, e reprimendo una successiva rivolta  con una vera e propria strage (eccidio di Crescenzio e dei suoi complici a Monte Mario o Montemalo, 998). Poi, quasi per ammenda, l’imperatore peregrino a lungo di santuario in santuario e venne a stabilirsi a Roma, meditando e iniziando col dotto e amico papa Silvestro II (Gerberto d’Aurillac, il primo papa francese) la cosiddetta renovatio Imperii: rinnovazione di un impero votato alla rinascenza dei più alti valori morali e religiosi classici e cristiani di cui Roma era depositaria. Tra il nuovo palazzo imperiale sull’Aventino e il Laterano si stabilirono  allora nuovi inediti rapporti, in certo senso simili a quelli tra reggia e patriarcato a Bisanzio (Ottone III era figlio di madre bizantina ) . L’utopistico e sterile programma che aduggiava Romani e Tedeschi, naufragò tra la fine del secolo X e gli inizi dell’XI per una meschina questione municipalistica (i romani volevano la rovina di Tivoli, Ottone vi si opponeva): l’imperatore dovette lasciare Roma per sempre, il papa per qualche tempo. Anima della reazione fu Giovanni Crescenzi, figlio del suppliziato del 998, che fu l’arbitro di Roma e del papato per un decennio, finché salì sulla cresta dell’onda, protetta dall’imperatore Enrico II e poi da Corrado II il Salico, la nuova famiglia dei conti di Tuscolo, pure discendenti dai Teofilatto, i cui membri per circa un trentennio signoreggiarono come papi (Benedetto VIII, Giovanni XIX, Benedetto IX) e senatori  o consoli dei romani, comportandosi come veri e propri luogotenenti imperiali e offendendo così l’inestinguibile orgoglio cittadino. Così nel 1044, morto Corrado II e lontano Enrico III, una rivolta animata dai Crescenzi scacciò il papa e i consoli Tuscolani ; ma la partita si chiuse con un’ignominiosa  transazione, per la quale il papa  dei Crescenzi si dimise e quello dei Tusculani  vendette la  tiara  a un terzo, Gregorio VI. Simoniaco senza attenuanti , questo papa , nei pochi mesi del suo regno dimostrò di possedere  ottime qualità, tanto da meritarsi l’apprezzamento di uomini come Pier Damiani e Ildebrando da Soana, il futuro Gregorio VII, allora agli inizi del suolungo e aspro cammino. Ma chi sanò d’autorità la sempre torbida situazione fu Enrico III, imponendo un nuovo papa tedesco (Clemente II)  facendosi da lui incoronare e avocando a se il diritto di designare i papi da eleggersi in futuro (principatus in electione,1046); in base a ciò divennero papi, dopo Clemente II, tre enriciani: Damasco II, Leone IX e Vittore II, tutti tedeschi. Particolarmente efficienti gli ultimi due  perla dignità che seppero mantenere verso l’imperatore , per il contributo che portarono all’incipiente riforma ecclesiastica, per gli accorti passi politici  che fecero per avvicinare a Roma le temute potenze confinanti: la marca di Toscana e i domini normanni del Mezzogiorno. Sotto Leone IX si aprì con Bisanzio quel conflitto che portò alla definitiva separazione della Chiesa greca dalla romana (1054). La morte quasi contemporanea di Enrico III e di Vittore II (1056-57), la minore età di Enrico IV e il breve papato di federico di Lorena (Stefano IX) accesero un’aspra zuffa tra il clero riformatore e l’aristocrazia per una volta tutta solidale (Crescenzi, Tuscolani, Conti di Galeria, ecc.), per la nuova elezione. Ebbe successo Niccolò II (1059), sostenuto si da Goffredo di Lorena marchese di Toscana, da qualche nobile (come Leone di Benedetto, capostipite dei Pierleoni)  e da una parte del clero, ma soprattutto dal consenso di una nuova idea, propugnata da Ildebrando: quella della libertas Ecclesiae, di una Chiesa sovrana  e libera sia dalla tutela imperiale sia dalle pressioni locali, condizione della sua effettiva rigenerazione. Niccolò II fece due grandi passi su questa via: decretò che l’elezione del papa fosse riservata ai cardinali, escludendone i laici, compreso l’imperatore , e stipulò un’alleanza rassicuratrice  coi Normanni (1059). Ad Alessandro II, del suo stesso stampo, Enrico IV oppose invano un antipapa. Quando infine, con amplissimi suffragi, gli succedette Ildebrando da Soana, Gregorio VII (1073), tra il grande paladino della libertas Eclesia  e l’imperatore Enrico IV si aprì la lotta delle investiture, che trascende ampiamente la storia di Roma, ma che si ripercosse in Roma con episodi estremamente drammatici, dall’aggressione del papa sull’altare all’ingresso armato di Enrico IV, poi dei Normanni “liberatori”, che riempirono di orrori la città, portando con se a Salerno il grande papa destinato a morire  non rimpianto in esilio (1085). Nel seguito della lotta, regnante Enrico V, si ebbero alterne e incomposte manifestazioni di solidarietà popolare a favore di pasquale II e di furore popolare  contro Gelasio II, accusato di voler trasferire il papato nell’Italia settentrionale. Ma, se col Concordato di Worms tra Callisto II ed Enrico V si chiuse la lotta delle investiture (1122), strascichi  cruenti si manifestarono tra i  due nuovi gruppi gentilizi dei Pierleoni  e dei Frangipane , per nulla rassegnati a un’effettiva libertà del papato e concorrenti per farsene  un appannaggio politico ed economico. Il conflitto tra le due fazioni provocò un lungo scisma (1130-38) , di risonanza europea, chiuso con un generoso successo di Innocenzo II, sorretto dai  Frangipane. Ma a questo punto , contro un’aristocrazia logorata e screditata, si sollevò per la prima volta , con un’esordiente volontà politica , il popolo dei mercanti, degli artigiani, dei piccoli possidenti, che occupò il Campidoglio e vi insediò un governo collegiale dal nome suggestivo di Sacro senato (1143), con un patrizio alla testa (Giordano Pierleoni, fratello dell’antipapa Anacleto II, rivale di Innocenzo II) . Sorgeva  a Roma  come nel resto d’Italia, il Comune, contendendo al papa, come altrove ai vescovi locali, la gestione della città. Il comune respinse un violento attacco del papa Lucio II (che vi perdette la vita), avviò un compromesso con papa Eugenio III, s’arroccò infine  su una posizione di radicale intransigenza sotto lo stimolo della predicazione di Arnoldo da Brescia, le cui idee politico-religiose andavano ben oltre le rivendicazioni del Senato cittadino (1145). L’utopia democratica avviata a realizzarsi da Arnoldo fu stroncata dall’effimera alleanza tra papa Adriano IV e federico I Barbarossa, che sacrificò alla sua incoronazione Arnaldo, tradito, catturato, impiccato e arso per mano del prefetto dell’Urbe; le sue ceneri furono disperse nel Tevere  (1155). L’eccidio ebbe uno strascico sanguinoso, per cui l’imperatore dovette ben presto fuggire. Nel successivo ventennio di guerra fra Federico da una parte, i Comuni collegati a Papa Alessandro III dall’altra, il comune romano acquistò una notevole importanza  come forza equilibratrice tra le parti in guerra: estese la sua influenza sul contado,curò l’amministrazione cittadina con oculatezza, contribuì alla difesa in momenti difficili (1167). Il successo del papa nella lotta con l’imperatore indebolì il Comune, che dovette rimettere a Clemente III l’investitura dei senatori (1188). Ma dopo qualche sollevazione per rivendicare la piena libertà (Benedetto Carushomo  summus senator, unico e popolare, 1191-93), la diplomazia e la severità di Innocenzo III fecero del senatore unico capo del Comune una creazione papale, vincendo resistenze sia popolari sia aristocratiche (Capocci, Pierleoni, Orsini). Durante la guerra tra il papato e Federico II, il comune si atteggiò a ghibellino: Gregorio IX l’ebbe talora ostile, federico II l’onorò inviando in Campidoglio il carroccio di Milano , trofeo della sua vittoria a Cortenuova (1237). Ma, nell’ultima fase della guerra, prese un carattere fieramente  indipendente, antisvevo e popolaresco, di cui l’esponente di punta  fu una sorta di capitano del popolo avventuroso e trascinante, il bolognese Brancaleone degli Andalò (1252-58).
Il comune era una temibile potenza, che avrebbe potuto decidere dell’esito finale dell’estrema lotta tra papato e Svevi. L’alleanza tra il papato e Carlo d’Angiò e la grande potenza acquistata del Regno di Sicilia gravarono invece  sulla città; Carlo vi esercitò a intermittenze, ma con mano pesante, la dignità di senatore (1263-84), assunta in alternativa dai papi stessi, primo Niccolò III Orsini.
La fine del secolo vide  in Roma i primi scontri tra questa famiglia e quella rivale dei Colonna per l’elezione papale e l’occupazione dei posti chiave nella curia e subì ancora per qualche tempo l’influenza angioina. Infine, dopo l’inattuale brevissimo pontificato di Celestino V, il papa del “ grande rifiuto”, su Roma ecclesiastica e civile , aristocratica e popolare, chiusa o aperta ai fermenti religiosi che lievitavano in tutta l’Italia, s’impose la dura, imperiosa, implacabile personalità di Bonifacio VIII Caetani.
Per quanto concerne Roma, egli legò il suo nome al primo giubileo (1300) , che esaltò il prestigio e moltiplicò la ricchezza della città e vi istituì l’università; ma legò anche alla guerra senza quartiere contro i Colonna e alla distruzione di Palestrina e a una serie di spregiudicate   imprese per ambizioni di potere e di potenza familiare . Il drammatico crollo di Bonifacio VIII (1303), a cui non furono estranei i Colonna, poi la lunga “cattività avignonese” 1309-77) distrussero l’euforia e le illusioni suscitate  dal giubileo e inasprirono le frizioni in una società in cui una rissosa aristocrazia, un clero mondano, un ceto medio robusto e operoso e non privo d’ambizioni e una plebe ondeggiante e facile agli eccessi non riuscivano a organizzarsi in una vera e propria civica. Alle condizioni socialmente anomale corrispondeva un volto urbanistico sconcertante  per gli stridenti contrasti tra i resti dell’antica magnificenza e la nuova,  l’umiltà e la miseria dei rioni plebei, le tracce di campagna in piena città. Nell’assemblea dei papi, si ebbero frequenti sussulti: per la venuta di Enrico VII di Lussemburgo, per l’assunzione del vicariato pontificio e del titolo di senatore da parte di Roberto d’Angò, per l’incoronazione laica, in Campidoglio, dell’imperatore scomunicato Ludovico IV il Bavaro, col conseguente interdetto e l’intervento napoletano, per le inestinguibili lotte tra le maggiori famiglie. Ma l’episodio più significativo del periodo avignonese fu l’insurrezione veramente popolare ispirata a precisi ideali classici e cristiani promossa dal tribuno Cola di Rienzo (1347) che, in ultima istanza, crollò per l’irriducibile avversione dell’aristocrazia. Il tema di un “buono stato” incardinato sul popolo fu episodicamente ripreso a metà secolo (da Giovanni Cerroni, da Francesco Baroncelli, dallo stesso Cola di Rienzo), sempre senza successo. Solo l’abilità del cardinale Egidio Albornoz riuscì a creare  un dignitoso modus vivendi tra papato e Comune: senatore unico  affiancato da sette riformatori della Repubblica, milizia cittadina esclusivamente popolare, redazione, per opera di una commissione rappresentativa di tutta la cittadinanza, di uno Statuto (1360-63). E in una Roma così relativamente riassestata rientrarono  da Avignone per breve tempo Urbano V e definitivamente Gregorio XI (1377), lungamente invocati e attesi. Ma la città tardò a trarne benefici auspicati. Il grande scisma apertosi subito dopo (1378) riversò su Roma ogni sorta di sciagure: vi si scontrarono le milizie dei due papi, quelle papali e quelle del Comune, le bande dei Colonna e degli Orsini e la manomisero i napoletani di Ladislao di Durazzo e di Giovanna II e i mercenari di Braccio da Montone; tutto ciò nel giro di qualche decennio. Quando papa Martino V Colonna, col quale finì lo scisma, fece il suo ingresso in Roma (1420), la trovò desolata e spopolata (gli abitanti erano forse 20.000) “che non aveva più volto di città”. Il papa cominciò a costruire e a ricostruire e con maggior magnificenza ne seguì la via Eugenio IV (ancorché turbato dall’ostilità dei Colonna e da un violento moto per la restaurazione di una nebulosa “libertà della repubblica Romana”, 1434).
Più marcatamente principe rinascimentale fu Niccolò V, patrono di umanisti e artisti, fondatore della biblioteca Vaticana e ideatore di un ambizioso piano urbanistico, vittima designata per altro della congiura di Stefano Porcari, che fallì e portò alla morte il suo promotore (1453) suggestionato da i più infiammati ideali di Libertà della letteratura umanistica largamente fiorente. Con Callisto III Borgia (1455) gli umanisti ebbero invece vita difficile: il papa colmò di favori i propri parenti e connazionali (gli invisi “catalani”) . Cultura e magnificenza riportarono i suoi successori, l’umanista Enea Silvio Piccolomini (Pio II, 1458) e Paolo II (1464); entrambi lasciarono poche tracce della loro opera in Roma, entrambi furono minacciati da congiurati. Contro Paolo II, come contro Niccolò V  l’attentato partì dall’ambiente umanistico dell’Accademia Romana, di cui era capo Pomponio Leto (1468-69). Grandi nepotisti furono poi Sisto  IV della Rovere, il cui nipote Gerolamo Riario fu tra i promotori della fiorentina congiura dei Pazzi (1478) e coinvolse Roma nell’ingloriosa guerra di Ferrara (1482-84), e Innocenzo VIII, che con la sua complicità nella “congiura dei baroni” contro gli Aragonesi di Napoli (1485) attirò la guerra a Roma e nel suo territorio infestandolo di soldataglia e banditi.
Il medioevo si chiudeva  così a Roma in una sorta di suntuosa tragedia: un principato papale politico e mondano prima che religioso copriva con il suo splendore profonde miserie e immoralità; grandi famiglie protraevano indefinitamente le loro faide; il popolo conservava, anche nei tempi più tristi, una sua congeniale orgogliosa dignità, ma anche le ultime tracce dell’autonomia cittadina , pur sempre simboleggiate da larvali senatori, erano ormai scomparse. Voci nuove non mancavano di denunciare il male e d’invocare la rigenerazione, come quella di Girolamo Savonarola, ma Roma non era ancora preparata ad ascoltarle: a Innocenzo VIII sarebbe succeduto Alessandro VI Borgia (1492), divenuto l’emblema della crisi di costume di Roma papale alla fine del Medioevo.
Storia Moderna:
Verso la fine del secolo XV le lotte per la libertà e le autonomie cittadine si andarono via via spegnendo. Rimaneva ancora la carica di senatore, ma essa era interamente nelle mani del papa come, d’altra parte, la carica dei tre conservatori e del consiglio dei ventisei cittadini che mantenevano ormai funzioni esclusivamente giudiziarie e avevano smessa ogni importanza nel reggimento delle città. Se dal punto di vista politico Roma andò così perdendo la sua autonomia, raggiunse invece, proprio in quegli anni, un primato senza paragoni nel campo culturale. Grazie agli innumerevoli tesori profusi del mecenatismo dei papi, essa divenne, infatti, la vera capitale artistica dell’Italia e una delle più splendide città del mondo dove il fasto grandioso della vita pubblica alimentato dall’ingenti ricchezze delle nuove famiglie fu illuminato dalla presenza di sommi pittori, scultori e architetti che parvero rinnovare  davvero per un  momento le glorie dell’età classica. L’orribile sacco effettuato dai lanzichenecchi di Carlo V (1527) impose purtroppo una brusca battuta di arresto: la maggior parte degli artisti lasciò la città e gli abitanti si ridussero a poco meno di 30.000. I guasti dell’invasione e del saccheggio furono però presto riparati. E nella seconda metà del 500 ebbe inizio una nuova epoca  di rigoglio economico e artistico, in concomitanza con la riscossa antiluterana della Chiesa e della Cotroriforma.
Alla fine del secolo XVI gli abitanti raggiunsero il numero di 100.000, il peso fiscale gravante sulla popolazione  fu considerevolmente alleggerito e l’amministrazione pubblica si fece più attenta e responsabile. Sotto Sisto V (1585-90) venne violentemente represso e quasi stroncato il brigantaggio che affliggeva le campagne romane, fu incoraggiata l’agricoltura e favorita l’attività industriale degli ebrei.
Roma, diventò allora il centro in cui si effettuò e da cui si irradiò nel vecchio e nel nuovo mondo la riorganizzazione del cattolicesimo (collegio romano, germanico, di propaganda fide, ecc). L’attività riprese con rinnovato fervore. Lungo il gomito tiberino, davanti al borgo e a Castel Sant’Angelo, oltre il campo Marzio e tutto intorno al Pantheon sorsero splendidi palazzi. La città si estese sulle alture che erano state abbandonate fin dal tempo dell’impero. Alla vecchia nobiltà feudale  si affiancò la nuova aristocrazia papale creata dal cosiddetto piccolo nepotismo (Aldobrandini, Borghese, Ludovisi,  Barberini, Pamphili, Chigi, Odescalchi, Ottobuoni, Pignatelli, Albani, Conti, Corsini), che se da un lato alimentò la corruzione curiale, dall’altro proseguì e accentuò la tradizione della magnificenza e del fasto con l’aiuto di artisti come il Bernini e il Borromini. La vita culturale benché fosse soggetta a controlli e remore  nuove e severe, introduzione dell’inquisizione (che nel 1588 ebbe il primo posto fra le congregazioni romane ) esecuzione di Giordano Bruno (1600), processo a Galilei (1633), ebbe ancora per qualche tempo un discreto sviluppo, favorito dalla presenza dell’università che risaliva  a Bonifacio VIII e alle numerose accademie a cui nel 1690 si aggiunse l’Arcadia. Il papato secondo il rifiorente studio dell’antichità (apertura del museo Pio-Clementino), tentò bonifiche (paludi Pontine) e curò numerose opere pubbliche. Col passare degli anni però il divario tra il movimento di riforme che si affermava in Europa e il tono culturale della città si andò rivelando sempre più grande. Accorrevano ancora illustri viaggiatori (Winckelmann, Goethe) , si pubblicarono nuovi giornali, si discusse di letteratura, di politica e persino di religione, ma in modo prevalentemente distaccato e accademico, senza molta passione. Il fatto è che al di la del fasto e della vivacità esteriore della vita, la sostanza del tessuto sociale si andava facendo sempre più fragile, più apparente che reale. La città, già uscita da tempo dal grande giro della politica europea e italiana, viveva solo per la presenza della corte papale, era priva di proprie risorse e di una classe mercantile degna di questo nome; i traffici, ormai scarsi, erano monopolizzati da poche famiglie signorili e le idee e i fermenti, nati altrove, si andavano perciò via via  isterilendo nell’erudizione e nel formalismo. In una situazione già così deteriorata intervennero a creare  nuovi complicazioni i contraccolpi provocati dalla Rivoluzione francese. Alla propaganda di pochi giacobini, fomentata dall’ambasciata francese e apparentemente tollerata dall’inetto governo, si oppose la maggior parte della popolazione sordamente sospettosa di qualsiasi novità. In un tumulto improvviso venne così ucciso il giornalista e rappresentante francese Ugo Bassville (13 gennaio 1793) e nel 1797 perdette la vita durante uno scontro tra i soldati pontefici e dimostranti repubblicani l’addetto militare francese L. Duphot (27 dicembre). Per ordine del Direttorio, quindi, le truppe francesi del generale Berthier  entrarono in città il 10 febbraio 1797 e il 5 fu proclamata la Repubblica Romana; Pio VI, costretto a lasciare la città (20 febbraio), fu condotto in Francia dove morì l’anno successivo. Una rivolta di cittadini scoppiata in Trastevere per la prepotenza dei francesi (25 febbraio) venne domata dopo due giorni di lotte furiose; molti dei rivoltosi, catturati con le armi in mano, furono fucilati in piazza del Popolo. Poco dopo le truppe napoletane abbatterono la Repubblica, che fu ripristinata dal generale Championnet  e cadde definitivamente (1799) , per il sopravvento della coalizione  austro-russa. Il nuovo papa Pio VII , eletto a Venezia nel marzo 1800, poté quindi rioccupare la città e tentare la riorganizzazione con l’aiuto del Cardinale Consalvi, ma dovette anche lui abbandonarla  dopo pochi anni quando Napoleone, abolito il potere temporale per contrasti sull’attuazione  del blocco continentale , incorporò nell’impero anche Roma  confermandone il titolo regio al proprio figlio ed erede (1809) Il nuovo governo del generale Miollis promosse riforme e migliorò l’amministrazione , liquidò il vecchio debito pubblico papale e cercò di accattivarsi la nobiltà e l’alta borghesia con cariche e onori, ma non riuscì a vincere il malanimo della media e piccola borghesia  e la nettissima ostilità della maggioranza del clero e della popolazione delle campagne , sicché caduto napoleone , Pio VII poté rientrare in città accolto come un trionfatore  (1814) . Dopo gli anni di moderata saggezza del suo governo e di quello del cardinale Consalvi  vi si instaurò però  con Leone XII (1823-29) e Gregorio XVI (1831-46) una politica grettamente reazionaria  e repressiva che favorì la nascita  di sette liberali e il propagarsi di un tenace malcontento accompagnato da sporadici tentatici insurrezionali (1825-1829, scoperta di due “vendite” carbonare; 1830, tentativo insurrezionale bonapartista; 1831 moti liberali), peraltro inesorabilmente repressi, insieme al diffondersi degli ideali neoguelfi, l’avvento al pontificato di Pio IX (1846) parve aprire la via a un nuovo indirizzo liberaleggiante : tra il crescente entusiasmo popolare il papa concesse infatti la libertà di stampa, la fondazione della consulta di Stato, la guardia civica e una costituzione (1848) Ma fu breve illusione. In poco tempo si andò delineando un contrasto insanabile  tra il Pontefice, che rinnegava al guerra nazionale e intendeva conservare l’effettiva direzione degli affari di stato., e i liberali , che volevano la guerra  e un governo realmente costituzionale. Dopo i ministeri Mamiani e Fabbri, P. Rossi parve finalmente l’uomo adatto a dirigere il governo in mezzo alla furia  montante delle fazioni : ma la sua politica energetica e autonoma finì con lo scontentare conservatori e democratici e il 15 novembre venne ucciso  da un fanatico, che si disse figlio di : Ciceracchio), Pio IX  si rifugiò” a Gaeta presso il re delle due Sicilie  e a Roma fu creata un’Assemblea Costituente  che proclamò ancora una volta la decadenza del potere temporale dei papi e istituì la repubblica . restaurato l potere pontificio con l’interventi delle armi francesi del generale Oeudinot 1849 e ritornato dal regno di Napoli Pio IV (1850) , gli acerbi contrasti apertisi con l’esperienza  repubblicana passarono  dalla fase manifesta e guerreggiata a quella della propaganda  e della cospirazione. Mentre si accentuava il potere di attrazione  esercitato dalle forze unitarie e si aggregava  il distacco tra popolazione  e papato, proseguiva intensamente l’attività del Comitato d’Azione. Bastò perciò che la guarnigione francese lasciasse la città (1866) in forza della Convenzione di settembre perché si avessi il tentativo  garibaldino di Mentana (1867), accompagnato da alcuni conati insurrezionali all’interno della stessa città (attentato alla caserma Serristori; eccidio di casa Ayani). Tali avvenimenti non ebbero per il momento alcun pratico risultato  e causarono anzi il ritorno dei Francesi . Quando però la guerra franco-prussiana provocò il loro definitivo richiamo e il papato rimase privo di qualsiasi aiuto internazionale, l’intervento dello Stato Italiano per la liberazione di Roma (sollecitato soprattutto dalle sinistre) poté attuarsi  senza alcuna difficoltà. Il 20 settembre1870 dopo una resistenza  poco più che simbolica  dei soldati pontifici, le truppe di R. Cadorna  entrarono infatti in città accolte dal generale entusiasmo popolare che fu poi confermato  anche dagli esiti del plebiscito (40785 si; 46 no).
Mentre il papa si chiudeva in un corrucciato isolamento nel Vaticano, si aprì allora un nuovo e tumultuoso periodo della storia  della città. L’esigenza di adunare qui il vasto apparato burocratico e politico del regno portò alla progressiva  mescolanza di vari apporti regionali scarsamente integratisi  tra loro e a una rapida e disordinata  espansione edilizia che fu la conseguenza di un impetuoso incremento demografico e di un’incontrollata speculazione  che fu interrotta solo dalla grave crisi scoppiata alla fine degli anni ottanta.
Intanto la vita culturale si fece più vivace e intensa. Fiorirono iniziative editoriali e giornalistiche, accorsero artisti e scrittori come da tempo non succedeva. I cattolici, compresi gli “ intransigenti” e l’aristocrazia “nera” , smesso l’iniziale e arcigno isolamento, si riorganizzarono e cominciarono a prendere  parte alla vita politica locale mentre l’anticlericalismo astioso e un po’ becero  che era il naturale retaggio di tante battaglie lasciava il posto a un impegno laico e civile che ebbe  una delle espressioni più persuasive negli anni dell’amministrazione  del sindaco Nathan (1907-13) . L’incremento democrafico si fece sempre più rapido e vistoso provocando la formazione di numerosi nuclei urbani periferici spesso isolati dal ritmo e dai servizi della vita cittadina.
L’avvento del fascismo (che diede alla città una nuova struttura amministrativa con l’istituzione del Governatorato di Roma. 1925)accentuò tale fenomeno con la politica di “sventramenti” del vecchio centro storico perseguita per mettere in luce le vestigia della romanità imperiale che ebbe per conseguenza l’emarginazione forzata di grossi nuclei di popolani, operai e artigiani in nuove “borgate” periferiche appositamente create, ma presto ridottesi a una sorta di ghetto. Durante la II guerra mondiale la città subì  alcuni gravi bombardamenti nell’estate del 1943 (19 luglio e 13 agosto).
Alla proclamazione dell’armistizio tra l’Italia e gli Anglo-Americani (8 settembre 1943) le truppe preposte a difesa della città (tre corpi d’armata) vennero a conflitto con quelle germaniche mentre la capitale veniva abbandonata dal re, da Badoglio e dai comandi militari.
I tedeschi attaccarono da sud con la II divisione paracadutisti e da nord con  la III divisione granatieri. Si registrarono episodi di resistenza italiana, in particolare sulla via di Bracciano (divisone corazzata Ariete) , alla Magliana e a Porta San paolo (granatieri di Sardegna  e lancieri di Montebello) cui presero parte anche gruppi di civili. L’assenza di un comando unitario e di rifornimenti, il mancato appoggio di un aviosbarco alleato, la minaccia tedesca  di bombardamento e taglio  degli acquedotti costrinsero alla capitolazione e la sera del 10 settembre il generale Calvi di Bergolo fu costretto a stipulare una tregua d’armi in base alla quale Roma, costituita in città aperta, sarebbe rimasta sotto il suo diretto comando. Pochi giorni dopo, tuttavia, violati gli accordi, i Tedeschi si impadronirono completamente della città, che tennero poi sotto il loro effettivo dominio (nonostante la riorganizzazione del partito fascista) fino all’arrivo degli Alleati. Durante tale periodo Roma fu un attivo centro di Resistenza. Azioni di guerriglia furono compiute nei dintorni della stessa città, nella quale un attentato compiuto in via Rasella il 23 marzo 1944 provocò la strage  delle Fosse Ardeatine che costò la vita a 335 italiani. Ai primi di maggio dello stesso anno il comando alleato decise  l’attacco per la liberazione  di Roma e ne affidò il compito  all’ala sinistra dell’VIII armata e alla V armata americana . Esse avrebbero dovuto eliminare le difese nella zona di Cassino puntando poi verso i monti Ausoni mentre le forze della testa di ponte di Anzio, entrate in azione contemporaneamente , si sarebbero congiunte  a esse per proseguire verso Roma. L’azione ebbe inizio l’11 maggio e gli obbiettivi della prima fase  furono rapidamente raggiunti. Sbarcata quindi una nuova divisione  ad Anzio, iniziò l’attacco ai monti Ausoni, superati i quali avvenne l’unione con le truppe della testa di sbarco a Borgo Grappa presso Cisterna (25 maggio) . Si procedette quindi all’attacco dei colli laziali che vennero conquistati il 1 giugno. Divenuta così insostenibile ogni difesa , Kesserling ordinò la ritirata generale delle truppe tedesche . All’alba del giorno 4 le avanguardie americane  raggiunsero la periferia di Roma e alle 18 vi penetrarono attraverso Porta S. Giovanni.