geronimo

giovedì 26 settembre 2013

Religione degli Antichi Greci

RELIGIONE DEGLI ANTICHI  GRECI
Gli studi sulla religione greca sono generalmente orientati ad attribuirle due matrici fondamentali: la mediterranea e l’indeuropea. La prima considerata geneticamente affine a quelle delle religioni dell’ambiente mediterraneo, viene connotata come una formazione locale, di carattere agrario imperniata sul culto  di una “ grande Dea” , la Terra Madre. La seconda attribuita agli invasori di lingua indeuropea portatori di una civiltà nomadico-pastorale, è caratterizzata dal punto di vista religioso, dal culto di un Essere supremo celeste, il Cielo Padre. Su questa linea interpretativa , l’originaria Terra Madre è stata riconosciuta soprattutto in due figure  della religione greca storica: Gaia (terra), la madre primordiale protagonista dei miti cosmogonici, e Demetra (Demeter, Terra madre), la dea dell’Agricoltura.
Il Cielo Padre è stato facilmente riconosciuto nel Dio Zeus (Zeus pater, Cielo diurno padre), sovrano degli Dei e degli uomini. Questo schema, se rispondeva in qualche modo a  un indirizzo di studi tendente a stabilire le origini remote dei fatti religiosi , per trovare in quelle la spiegazione storica dei fatti stessi, in verità non serve molto per migliorare la nostra comprensione  della religione greca. Non spiega, per esempio, perché l’unica Terra madre si sarebbe scissa in almeno due figure, Gaia e Demetra. E si aggiunga che, nel tentativo di risalire a ogni costo alla originaria “grande dea” mediterranea, sono state interpretate  quasi come sue ipostasi anche altre divinità femminili della grecità , quali Rea, Afrodite e persino Artemide che non è ne “madre” ne “agraria” . Per quanto riguarda Zeus poi, la sua derivazione da un essere supremo  celeste indoeuropeo ( Dyaus, da cui gr. Zeus, lat. Iu-piter, sanscrito Dyauspita, germ. Tyr, ecc.) non spiega la sua posizione di sovrano degli dei che non trova riscontro ne nel Dyauspità vedico, ne nel Tyr germanico, ne in altri (escluso lo Iuppiter romano  per il quale non è da escludere un influsso greco).
Lo schema ipotesi dell’incontro tra una religione della Terra madre con una religione del Cielo Padre, in definitiva , non spiega la formazione politeistica greca per la quale Terra madre e Cielo Padre non potrebbero in alcun modo  monopolizzare la realtà. La realtà, invece, come in ogni altro politeismo, era rappresentata e organizzata da una molteplicità di dei, posti in varia relazione tra loro e raccolti in un consenso ( pantheon)  che dava universalità e sistematicità alla religione. Se si tiene presente tutto ciò si ridimensiona automaticamente il valore fin qui attribuito alle componenti originarie, o “nutrici”, della religione greca e, al contempo, non si perde di vista il carattere etnico di questa religione; vale a dire: non si dimentica che essa è una religione che nasce e vive in funzione della cultura greca globalmente intesa, e non per eventuali contenuti autonomi trascendenti la grecità, o comunque sorti in funzione di altre culture (sia quelle dell’ambiente mediterraneo, sia quelle di altri popoli di lingua indoeuropea). Fissati questi limiti, si può anche accettare una prospettiva storica che faccia della civiltà greca una formazione sorta per influsso di civiltà medio-orientali (o mediterranee di derivazione medio-orientale) su popolazioni di lingua indeuropea stanziatesi nell’Ellade: quasi una risposta di tali popolazioni agli stimoli derivati dal contatto con culture giudicate superiori alla propria. In un processo di acculturazione così delimitato, diventa anche accettabile l’idea di un politeismo graco che si formi su modelli politeistici di derivazione mesopotamica, ma non come una copia bensì come un prodotto originale realizzato a partire  da elementi pregreci ( o non greci)o prepoliteistici (greci)  in un evoluzione che segue di pari passo l’evoluzione della civiltà greca, dalla fase “micenea” (II millennio a.C.) all’epoca della cosiddetta “invasione dorica” (inizio del I millennio) , che prelude a quella formazione culturale sostanzialmente  nuova che si svolse appieno nella grecità classica. In questa formazione dunque, si includerà anche la religione, non come un retaggio di epoche passate, ma come una creazione originale. E proprio dal confronto con le epoche passate , variamente documentate dalle religioni medio-orientali e mediterranee, o di popolazioni di lingua indoeuropea, emerge viva e incontestabile la sua originalità. L’etnicità della religione greca, ossia la sua immanenza all’ethnos o alla nazione greca , porta a considerare non solo la frattura trail pregreco e la grecità storica, ma anche la sua frammentazione in funzione della divisione  politico territoriale dei Greci. Così che, a rigore, si sarebbe portati a parlare di tante religioni quante furono le città Stato. Il che ci darebbe conto della funzione civica di queste “religioni” ciascuna delle quali ha come fine l’edificazione della polis che ne è portatrice. E tuttavia è corretto parlare di una religione greca, così come si parla di una civiltà greca, per definire un’unità culturale panellenica da cui traggono fondamento e giustificazione le stesse città-stato con le loro particolari tradizioni e istituzioni religiose. Per intendere ciò in chiave specificatamente religiosa si può dire: l’uomo greco si inserisce sacralmente in un sistema di credenze e di culti che procedeva, senza un reale distacco, dall’ambito familiare e gentilizio (a livello di quelle comunità claniche, che erano dette fratrie), fino all’ambito politico sociale della polis, a organismi superordinati (sul tipo delle anfizionie, leghe tra città vicine) e, via via, ai grandi culti panellenici (Olimpiadi, oracolo delfico, misteri eleusini, ecc), in cui ciascuno si riconosceva come greco, oltre che come cittadino di una certa polis, membro di una certa fratria e di una certa famiglia, figlio di un certo padre. Ciò si comprende meglio se si pone mente al fatto che in Grecia, come in altre civiltà arcaiche, l’impegno religioso si esplicava  soprattutto nell’esecuzione di culti. Sul piano più propriamente familiare e gentilizio si svolgevano i culti del ciclo di vita individuale (riti dinascita, nuziali, funerari), i culti domestici, di antenati, ecc. variamente adattati al culto pubblico della polis. Sul piano civico si svolgeva ogni culto destinato all’edificazione sacrale della polis: qui si esprimeva appieno il sistema politeistico che faceva della città un piccolo mondo a immagine del grande mondo (cosmo) governato dagli Dei. Questi erano raggruppati nel numero canonico di dodici, con variazioni da città a città, tranne che per una decina  di divinità di cui nessuna città sembrava poter fare a meno per esprimere la propria cosmologia. La tradizione ionica, risalente almeno al secolo VI a.C., elencava i seguenti dei:  Zeus (il sovrano) , Era (sua sposa), Posidone, Demetra, Apollo, Artemide, Ares , Afrodite, Ermete, Atena , Efesto, Estia.
La varietà delle tradizioni si spiega, oltre che con la loro rispondenza alle realtà particolari delle singole città- stato, con la Mancanza di una sistemazione teologica di tipo dogmatico sacerdotale. L’interpretazione, o la “rivelazione”, delle figure divine era demandata ai poeti, ai quali si attribuiva tanta autorità in materia che le prime critiche filosofiche alle credenze religiose si rivolsero proprio contro i poeti, accusati di averle inventate  e diffuse. Un riconoscimento, non “critico” ma “ storico” , della funzione del poeta è quello celeberrimo di Erodoto che attribuisce ad Omero e a Esiodo la ricognizione e la denominazione degli dei Greci. Era come se i poeti , narrando miti, svelassero la realtà divina  del mondo. Il che spiega l’importanza del mito e dei suoi modi di espressione in tutta la cultura greca. La realtà divina  del mondo era intesa come un cosmo , un ordine  universale, a cui si opponeva dialetticamente un anticosmo (caos), o una non realtà. Ma anche la non realtà era rappresentata da figure divine, in perfetta coerenza con la mentalità politeistica greca..
Ade, fratello di Zeus inteso quasi come uno Zeus negativo, era il dio sovrano della non realtà , come Zeus lo era della realtà: regnava sull’inreale mondo dei morti che i Greci concepivano in antitesi al “reale” mondo dei vivi. Dio della non realtà, in quanto esprimeva un “divenire”, contrapposto dialetticamente all’”essere, era anche Dioniso. E lo erano tutte quelle divinità minori (satiri, ninfe, ecc.) che agivano nel non-abitato (selve, monti, ecc.) o extraurbano , concepito come caotico rispetto al microcosmo delimitato dalla città. La qualificazione negativa del caotico (o irreale) diventava positiva quando venivano messi in crisi i valori del cosmico: erano crisi istituzionalizzate , come le feste di fine d’anno che realizzavano una temporanea sospensione dell’ordine per procedere quasi ad un rinnovamento del mondo; oppure occasionali,dovute a calamità o a iniziative (fondazioni, immissione dei giovani nella società degli adulti, eccJ che trasformavano in qualche modo l’ordine costituito. Ma poteva trattarsi anche di crisi inerenti alla condizione umana che dunque potevano risolversi soltanto con un rovesciamento di valori che, significando un rifiuto della “realtà”, facesse diventare negativo il cosmico e positivo il caotico: si avevano allora formazioni religiose mistiche in permanente opposizione alla religione civica, in quanto edificatrice di un universo da rifiutare per poter accedere  a una salvezza extramondana.
L’uomo greco trovava  nel sistema politeistico una garanzia alla sua presenza in un mondo ordinato, in cui ciascuno aveva il proprio posto e chi superava i propri limiti peccava di hybris (superbia, tracotanza: il peccato per antonomasia nella cultura greca). Ma il sistema che dava la certezza di una vita “civile”, condannava anche alla infelice condizione di “mortali”, inesorabilmente distinta dalla felice condizione degli dei “immortali”. Per evadere a questa condizione si doveva rinunciare al sistema e a tutti i vantaggi civico-politici che esso offriva, e questo fu soprattutto facile per le donne e per le classi che, come le donne, erano escluse dalla vita politica, per rifugiarsi nell’anti sistema, ossia nel campo d’azione delle divinità dell’irreale e del caotico. Di qui ebbero origine quelle formazioni mistiche che fecero capo a Persefone, la regina dei morti, sposa di Ade, e a Dioniso, il dio delle trasformazioni, invocato  contro una “ immutabilità” indesiderata. Il culto mistico di Persefone, associata alla madre Demetra, si esplicò nei misteri di Eleusi, da dove si diffuse per tutta la grecità e oltre. Il culto mistico di Dionisio si espresse soprattutto in quelle formazioni che vennero chiamate orfiche dal mitico poeta Orfeo che ne avrebbe rivelato i principi fondamentali.

Una vita non mistica per sfuggire alle strette del sistema potrebbe essere considerata la concezione dell’eroicità, una elaborazione tipicamente greca di retaggi prepoliteistici, quali la nozione dell’eroe culturale e il culto degli antenati. L’eroe greco è un personaggio mitico che proprio per mezzo della morte , ossia per mezzo del marchio stesso della condizione umana , raggiungeva una condizione sovrumana caratterizzata da poteri divinatori , guaritori e genericamente salvifici. L’eroizzazione, oltre che un concetto, fu anche una pratica rituale riservata  a personaggi storici che parvero ricalcare le imprese degli eroi mitici (guerrieri, agonisti, poeti, fondatori, ecc). Le fonti del comportamento religioso greco, sia a livello civico sia a livello individuale e mistico, furono soprattutto i santuari, di cui si ricordano quelli che ebbero importanza panellenici: i santuari di Olimpia e di Dodona che, sia pure diversamente (il primo con gli agoni e il secondo con un culto oracolare), imposero la sovranità di Zeus; il santuario di Delfi che con i suoi responsi oracolari esercitò un grandissimo influsso nella costituzione di una religione panellenica; il santuario di Eleusi che suggerì ai Greci le formule di una soteriologia a carattere mistico.

Religione degli antichi Romani

RELIGIONE DEGLI ANTICHI  ROMANI
Il concetto di sacralità che distingue la religione romana va correlato al concetto di “profano” (come in tutte le religioni) anche ai concetti di “pubblico” e di “privato”.
La formula sacro: profano = pubblico: privato rende questo sistema di relazioni; essa ordinava al mondo romano tutta la realtà e teneva, in tale funzione, il posto di una cosmogonia. Mancano in effetti alla religione romana miti cosmogonici e teogonici, tanto da farla apparire  come una religione demitizzata. In luogo di un ordine cosmico dato una volta per sempre (da un evento mitico), i Romani ebbero una formula cosmica alla quale adeguavano il mondo oggettivandolo nel loro sistema di valori per mezzo di un azione storiografica e giuridico-rituale. Tale azione era demandata al collegio sacerdotale dei pontefici e aveva per oggetto il mondo e gli uomini. La natura del mondo era ridotta a sostanza storica, la natura degli uomini a personalità giuridica. Ne deriva che il predetto dell’azione pontificale è riconoscibile in una storiografia e in una giurisprudenza. Per la storiografia diremmo che si trattava della ricognizione religiosa del tempo storico, la quale si muoveva in due sensi: i pontefici fissavano sacralmente la periodicità e la qualità del tempo storico, dando a questo una sistemazione calenderiale; di pari passo ne fissavano il corso, sottraendolo alla contingenza e registrandolo significativamente (ossia interpretandolo) in annali, atti e memoriali. Il momento giurisprudenziale nella formulazione di riti e nella definizione della loro efficacia  come dimostra il fatto che i codici prodotti erano sempre e soltanto codici di procedura.  In nessuna religione il termine per indicare l’azione rituale è così pregnante  come in Roma (la radice di ritus è la stessa di rta, il concetto cosmico fondamentale della religione vedica); di fatto a Roma è il rito che stabilisce tanto il patto con gli Dei (pax deorum) quanto il patto sociale che fa di ogni singolo uomo un civis, un cittadino, una persona giuridica. Il collegio pontificale comprendeva, oltre ai pontefici cui era riservata la teoria religiosa, altri sacerdoti destinati alla pratica, ossia al culto divino: un rex sacrorum, sacerdote che assolveva i compiti sacrali dell’antico re; quindici flamini, ciascuno addetto al culto di un singolo Dio; sei vestali, addette al culto di Vesta. L’azione teorica  e pratica del collegio pontificale era completata da quella di altri tre  collegi sacerdotali: auguri, quindecemviri sacris fanciundis , ed epuloni . I primi due collegi esercitavano la divinazione (la consultazione della volontà degli Dei, un’attività che secondo la tradizione era stata in origine di pertinenza dei pontefici. Il terzo, che aveva la funzione di approntare due volte l’anno un banchetto a Giove, fu istituito nel 196 a.C. per liberare i pontefici da questa cura. Dunque tutti e tre i collegi in questione possono essere riguardati come profanazioni del collegio pontificale, e in effetti è questo collegio che rappresenta il nucleo della religione romana. Altri gruppi sacerdotali (tecnicamente chiamati “sodalizzi” e quindi distinti dai “collegi”) erano: i Luperci, i Salii, gli Arvali e i Feziali. Questi sodalizi non avevano la funzione di stabilire  un rapporto culturale con gli Dei, come accadeva con i sacerdoti del collegio pontificale, ma quella di liberare il popolo romano da una “ sacralità” insita in certe azioni, addossandosela simbolicamente e permettendo agli altri di non curarsene , come individui. In questa funzione i Feziali agivano per stabilire  rapporti di pace o di guerra con gli altri popoli. Più complessa era l’azione dei Luperci, Salii e Arvali: in sintesi diremmo che essi esplicavano simbolicamente la sacralità insita in una vita  di pastori , di guerrieri e di agricoltori (nell’ordine9. Dal punto di vista delle divinità, la struttura fondamentale e quindi permamente , della religione romana era costituita dalla triade Giove – Marte – Quirino insieme a Giano e Vesta. La Triade, al cui servizio erano i tre flamini maggiori (rispettivamente: il Diale, il Marziale e il Quirinale),  procedeva probabilmente dalla concezione  trifunzionale della società, che Dumezil attribuisce ai popoli indoeuropei. Comunque sia, si può dire che la triade rappresenti lo Stato romano mediante personificazioni divine. Ma a questa rappresentazione statica o qualificante va aggiunta una rappresentazione dinamica o dialettica: in tale funzione si possono interpretare altre due personificazioni divine: Giano e Vesta. Giano, al cui servizio era il rex sacrorum , personificava l’apertura alla contingenza alla trasformazione , al divenire storico. Vesta, per contro personificava il limite concesso alla trasformazione, e dunque la stabilità o la necessità rispetto alla contingenza . La dialettica Giano-Vesta poneva il Dio agli “inizi” di ogni cosa e la dea alla “fine”.
Il pantheon arcaico si completava con le 12 divinità attestate da 12 flamini minori (ci restano soltanto 9 nomi: Carmenta, Cerere, Falacer, Flora, Furrina, Pomona, Portuno, Volturno, Vulcano), più un'altra desumibile dai nomi di giornate festive (Conso, Termino, Nettuno, Ope, Robigo, Matuta, Saturno, Larenta, Carmenta, Agerona). Col passare del tempo queste divinità evidentemente non ritenute  necessarie alla struttura permanente dello stato, furono tagliate fuori dalla storia: o scomparvero come quantità identificabili (ce ne resta appena il nome) o furono identificate con divinità greche (come Nettuno con Posidone, Vulcano con Efesto,) . Altre divinità, anche se arcaiche , erano variamente ricordate dalla tradizione, ma alcune di esse  erano specialmente importanti in quanto, come vedremo appresso, venivano assunte a protagoniste nello svolgimento storico del culto pubblico romano: Diana, Fortuna, Cerere, e Minerva. Infine, tra le divinità complementari del nucleo fondamentale, c’era Giunone, la cui complementarità era diversa, in quanto la dea era presente in qualche modo anche nel nucleo stesso; al suo culto erano addetti due personaggi femminili, la flaminica (titolo ufficiale della moglie del flamen Dialis)  e la regina (titolo ufficiale della moglie del rex sacro rum); perciò si potrebbe dire che la complementarità di Giunone rispetto al nucleo divino fondamentale era la stessa delle “mogli” rispetto ai “mariti” nella società romana. Ciò che convenzionalmente viene definito come riforma  dello Stato a opera della dinastia  etrusca si riduce, dal punto di vista religioso, all’istituzione del culto di Giove Ottimo e Massimo sul Campidoglio, e di quello di Diana sull’Aventino. A parte gli epiteti, questo Giove non era funzionalmente lo stesso Dio che figura nella triade Giove-Marte.Quirino; tanto che, nella sua nuova funzione e nel nuovo tempio a lui eretto sul Campidoglio, gli si affiancavano Minerva e Giunone, invece di Marte e Quirino (sorge una nuova triade che, in certi settori, prende il posto dell’arcaica). Il Giove Ottimo e Massimo, come la dea Diana, era un dio sottratto alla lega Latina. Giove e Diana, rispettivamente venerati sulla cima e alla falde del Monte Albano (oggi Monte cavo), erano stati assunti dalle città della lega Latina come simboli e protettori della confederazione. Giove era stato scelto per la sua “sommità”, che lo poneva al di sopra degli interessi delle singole città, e Diana, quale dea del bosco e quindi dell’extraurbano per eccellenza, per la sua estraneità (all’urbano) che la teneva al di fuori di ogni particolare politica cittadina. Il trasferimento in Roma di queste due divinità “universali” fu quasi una presa di possesso, da parte romana, della realtà metafisica della Lega latina. Fu anche una presa di coscienza dell’”universalità” romana: Roma si faceva non soltanto egemone delle città latine, ma addirittura le incorporava; si stabilivano così i fondamenti  di uno stato interetnico (come interetnica era la Lega) in senso moderno, che emersero come superamento della tradizionale città-stato. La cacciata del re e l’avvento della repubblica possono essere visti per quel che concerne la religione romana, come l’acquisizione da parte delle assemblee deliberanti del diritto di determinare il “sacro”, realizzata come presa di coscienza del valore superindividuale, e perciò assoluto o universale, delle deliberazioni comiziali: per loro mezzo si assolutizzava (o sacralizzava)  la storia e si dava ordine al mondo (lo si oggettivava in un determinato sistema di valori). Dal punto di vista la costituzione della magistratura consolare annua, più che una limitazione temporale del potere, va considerata in funzione dell’esercizio periodico dell’azione comiziale. Questa azione  era quasi un rito che il popolo doveva compiere annualmente; il luogo e il giorno del ritiro dovevano essere regolarmente “inaugurati”, ossia “aumentati” dall’assenso di Giove. L’ingresso in carica dei consoli dava inizio all’anno ufficiale, dunque era come se,l’elezione di nuovi consoli (eponimi dell’anno) , i comizi “creassero” l’anno stesso (il che sul piano religioso equivale a “creare” il mondo) Il costituirsi di una organizzazione plebea comportò da un punto di vista religioso l’istituzione di un culto di Cerere sull’Aventino. La Dea, venerata insieme  ai suoi figli Libera e Libero (quest’ultimo identificato poi con il greco Dionisio), era diventata il simbolo dell’azione plebea, tanto che i patrizi finirono per adottare , quasi in funzione  di anti-Cerere, la frigia Cibele (205 a.C.)  che negli schemi del mondo ellenistico-romano poteva in qualche modo opporsi a Demetra (con la quale dea greca i Romani identificavano la loro Cecere) . Ma le lotte plebee ottennero ben di più: ottennero il ripudio degli iura gentis e l’instaurazione degli iura civilia. I primi erano sentiti quasi come una “dote religiosa” che si trasmetteva per sangue e che dava ai patrizi certeprerogative come quella di esercitare i sacerdozi e di trarre gli auspici. Con la legge Ogulnia (300 a.C.) anche i plebei ebbero l’accesso al sacerdozio e furono considerati capaci di esercitarlo per il solo fatto di essere cittadini romani (ossia per iura civilia) . I luoghi e i tempi dell’azione divina erano fissati in templi e sacrari (aedes, templa, fana delubra, sacella) e in feste occasionali e periodiche, mobili e fisse; queste ultime componevano un calendario festivo che costituisce  il più antico e più importante  documento della religione romana. Il calendario festivo, legato alle origini, come ogni altro calendario, al ciclo agricolo, conservava dell’ antica funzione soltanto un certo schema; come pure manteneva convenzionalmente  nei mesi lo schema delle lunazioni con il rilievo, pure convenzionale, di due fasi, il novilunio e il plenilunio, nei giorni detti rispettivamente calendae e idi (il primo del mese e il 13 o il 15 secondo i mesi brevi o lunghi). Il calendario festivo, sottratto ai suoi concreti scopi originari, serviva soltanto a esigenze religiose, dividendo ed organizzando il tempo in funzione dei vari dei. Per esempio, la parte “oscura” del mese, quella che culminava  col novilunio convenzionale (calende9 era sacra a Giunone, mentre la parte “ luminosa”, culminante  col convenzionale plenilunio (idi), era sacra a Giove: le calende erano una festa di Giunone e le idi una festa di Giove. I vari mesi, poi, erano particolarmente dedicati a qualche dio, a parte le singole giornate festive messe sempre in relazione con una divinità. Un gruppo di sei mesi, da gennaio a giugno, costituiva una particolare festa dell’anno che cominciava con l’attiva presenza di Giano (il quale dava nome al primo mese, gennaio) e finiva con quella di Vesta (l’ultima festa di giugno) , così come in ogni azione sacrificale si cominciava col nome di Giano e si finiva con quello di Vesta.  A giugno seguiva una seconda serie di sei mesi senza nome, che venivano indicati semplicemente con un numerale (quintile, sestile, settembre, ecc) Si cominciava con un quintile (che si chiamerà poi luglio, Iulius, in onore di Giulio Cesare) perché il computo era fatto a partire da marzo, considerato il primo mese dell’anno sacro. I mesi di febbraio e di dicembre, che rispettivamente precedevano il capodanno  di marzo e quello di gennaio, erano caratterizzati da feste “caotiche” di fine d’anno. Vi era un terzo capodanno , il 21 aprile (i Parilia), natale di Roma, considerato capodanno dei pastori. Bastano questi rilievi per far comprendere la complessità del calendario festivo romano, che non era certo uno strumento per computare il tempo a qualsiasi fine pratico, ma era una sapiente elaborazione  religiosa per poter dare la migliore esecuzione  al culto divino. Il culto privato non presenta  rispetto agli altri popoli antichi caratteri originali. Il capofamiglia (pater familias)  aveva la responsabilità dei riti, per lo più rivolti alle divinità domestiche (lari, penati). Ogni individuo , poi, coltivava,  il suo genio personale. Le idee sulla morte non espressero mai un’escatologia che improntasse a suo modo la religione. Bastava fornire al morto le dovute onoranze (iusta9. Il morto si trasformava  in larva o lemure ed entrava a far parte  dei mani, gli dei dello stato di morte. Il sovvertimento di valori che portò alla fine della repubblica ebbe naturalmente un riflesso religioso. Indicativi, al riguardo, sono i casi di Venere e Fortuna. Queste due Dee, che rappresentavano rispettivamente gli aspetti “gratuiti” e “fotuiti” della realtà, erano per l’innanzi contrapposte a Giove come elementi negativi di un ordine adeguato alla “volontà” del dio, in cui niente era lasciato al caso o all’arbitrio. Con l’enorme espansione della città risultava materialmente impossibile una partecipazione responsabile della massa dei cittadini alla vita politica, e così il “gratuito” e il “fortuito” vennero acquistando un senso più adeguato al sentire comune, a spese della “responsabilità” civica sostenuta  dall’antica tradizione. In questo cambiamento di prospettive sia Venere sia Fortuna emersero a sostenere un nuovo ed importante ruolo nell’attualità politico-religiosa, soprattutto Venere che la leggenda faceva madre  di Enea e pertanto la progenitrice della stirpe romana.

Si preparava l’avvento di un’imperatore , e questo sarebbe stato un affiliato alla genes Iulia, discendente di un mitico Iulio, figlio di Enea e nipote di Venere. Roma non aveva più bisogno di un Dio (Giove) romanizzato; ma aveva bisogno di un romano (l’imperatore) divinizzato; se prima infatti si voleva adeguare alla volontà di Giove l’esistenza di Roma, adesso era necessario adeguare il mondo alla volontà di Roma. Su questa strada al culto dell’imperatore si affiancò ben presto  il culti di Roma fatta dea. L’ingresso in Roma  dei culti orientali segnò la crisi della religione tradizionale, tanto più inadeguata tanto più si consideri la tendenza a razionalizzare  il culto, seguita all’introduzione e diffusione di Roma  del pensiero filosofico greco. I culti orientali si esprimevano nell’ambito domestico e privato nelle forme più svariate di misticismo, che si ritrovavano anche nelle loro manifestazioni collettive (misteri). La religione pubblica  invece malgrado i ripetuti tentativi di Augusto di ripristinare la tradizione, assumeva la forma della venerazione dei sovrani, iniziatasi con Tiberio come religione “di Stato”.

Religione Egizia

Quando l’Egitto cominciò ad avere una sua religione ufficiale, le divinità riconosciute dallo stato erano nove , raggruppate nella famiglia divina, detta appunto Ennead, che significa nove: Atum il creatore, Shu dio dell’aria, Tefnut dea dell’acqua , Geb dio della terra, Nut dea del cielo, Osiride, Iside, Seth, e Nephtys. Di un culto particolare furono adorati, col passare del tempo, Osiride e Iside. Ricche di suggestione sono le storie che fiorirono intorno a queste due figure divine, marito e moglie. Solo per esse il sentimento religioso degli Egizi, abitualmente così distaccato e severo, si caricò di accenti umani, addirittura patetici. Osiride viene raffigurato spesso col volto dipinto di verde perché in origine  era il dio della vegetazione e di ogni cosa vivente sulla terra; e proprio questo fu la causa di tutti i suoi guai: succedendo nell’alto incarico a Geb, dio della terra, aveva involontariamente mosso l’ira e la gelosia del fratello seth, che lo aveva ucciso e gettato nel Nilo. La fedele Iside però si era buttata nelle acque vorticose e aveva recuperato il corpo  del marito. Cieco di odio, Seth aveva poi tagliato il corpo del fratello in quattordici parti, ma Iside lo aveva ancora una volta trovato e ricomposto. Osiride era diventato così il Dio dei morti, e suo figlio Horo il dio dei viventi . I faraoni stessi erano adorati come Horo in vita e come Osiride in morte.
Ma la divinità che presso gli Egizi godette di un vero culto universale fu senza dubbio Ra, il sole . Le innumerevoli testimonianze del suo potere erano talmente vive e così vicine all’esperienza di ogni giorno che tutti si sentivano in qualche modo legati a lui. Il beneficio calore, la luce vitale e quindi la rigogliosità delle messi e le possibilità della sopravvivenza umana dipendevano dal sole, da Ra. In suo nome erano sorti diversi culti, era stata costruita una città, Elaiopoli (città del sole) , a lui vennero perfino sacrificate vite umane. Nulla sembrava troppo degno per un dio tanto potente.
Una delle caratteristiche di Ra era quella di assumere vari aspetti: a seconda delle particolari preferenze di una città o di singole persone , egli veniva accoppiato con l’immagine di qualche divinità locale. Diventava così, di volta in volta,  falco, ariete, uomo, scarabeo e perfino piramide. Aton-Ra, cioè Ra disco del sole, fu l’incarnazione  che trovò forse il maggior numero di seguaci, per merito anche del faraone  Amenophi IV. “ Tu splendi di bellezza, signore degli dei. Belle sono le cose che hai creato sulla terra “, è inciso su una piramide. Furono molti, del resto, i faraoni che si proclamarono figli di Ra e instaurarono per questo Dio un culto particolare.
Il fanatismo di Amenophi IV per il dio Aton-Ra non era ingiustificato: in un periodo di sfrenato politeismo (adorazione di molti dei) , il giovane faraone si era impegnato in una tremenda lotta nell’affermazione di un monoteismo (adorazione di un solo dio) che avesse appunto in Aton il suo rappresentante. Per questo aveva anche cambiato nome aveva voluto chiamarsi Eknaton  , colui che piace ad Aton. In questa sua coraggiosa opera lo assisteva la bellissima regina  Nefertiti che con lui, alla fine, condivise il dolore della sconfitta. Mentre il sogno di una unità religiosa si andava spegnendo, l’Egitto si avviava alla conclusione della sua esistenza. Mancava circa 1300 anni alla nascita di Cristo.
La commovente leggenda di Osiride e di Iside ebbe influenze notevoli nella politica dell’Egitto. Le ingiustizie e le sofferenze patite da lui, l’eroica fedeltà di lei, la simpatia e la tenerezza che emanavano dalle loro tragiche vicende, così umane, tanto simili a quelle di ciascun mortale, portarono a una rapidissima diffusione del loro culto.
Già simboli di vita, protettori degli esseri viventi  sulla terra e passati contro la loro volontà a governare il misterioso e oscuro mondo dei morti, Osiride e Iside ebbero in sorte di potere avere un figlio. Nelle silenziose paludi di Kemmis, lontani da occhi indiscreti, gli eroici e sventurati consorti diedero alla luce Horo. Lo allevarono segretamente perché sfuggisse alle ire del terribile Seth. Divenuto grande Horo vendicò il padre e divenne re dei viventi: i genitori poterono così avere la consolazione di veder trionfare di nuovo la loro divina progenie.
La dottrina religiosa che si fondava sul divino Ra, faceva discendere i faraoni dal sole. L’alba e il tramonto dell’astro dio simboleggiavano l’eterna vita del faraone divino. In ogni circostanza civile e religiosa nessun Egizio poteva dimenticare che al vertice di ogni potere sulla terra stava il dio-re. E come c’erano le colossali piramidi  composte di enormi blocchi sovrapposti l’uno a l’altro, così nella società egizia  esisteva una massiccia piramide di funzionari, ministri e sacerdoti al sommo della quale il dio-re dominava  con potere assoluto. L’intangibilità del vertice massimo di questa piramide , cioè il faraone , garantiva la stabilità e la sicurezza di tutta l’organizzazione gerarchica.
Innumerevoli erano i compiti che spettavano al faraone per diritto divino, ma alcuni venivano affidati ai suoi funzionari. Tra questi, uno dei più importanti era l’amministrazione della giustizia.
Gli Egizi, per potere ospitare degnamente il dio-re mentre era in vita, costruirono regge incomparabili , le cui rovine ancor oggi, dopo millenni, lasciano sbalorditi e ammirati i visitatori. La loro imponenza  e la loro armonia sono miracoli di perfezione e di bellezza.
Gli Egizi tuttavia credevano anche nell’immortalità, e perciò costruirono per i faraoni defunti tombe altrettanto stupende  quanto le regge , ma ancora più massicce e potenti, adatte a sfidare i secoli e i millenni.
Una di queste tombe, meglio sarebbe dire “templi funerari “ viene comunemente chiamata “ Casa dei milioni di anni”, tale è la sua possente struttura. Si trova a Medinet Habu, prossima a Tebe, ed è ancora pressoché intatta dopo tremila anni. Fu costruita infatti 1180 anni prima della nascita di Cristo. Questo magnifico e grandioso tempio dalle mura spesse otto metri fu costruito dal faraone Ramsete III. Il culto a questi tributato però, com’era consuetudine in Editto, veniva esteso contemporaneamente  anche a tutti gli dei raffigurati sulle mura del tempio: una interminabile schiera di solenni  divinità protettrici.
Nella parte più segreta della costruzione era collocata la tomba, l’urna che doveva conservare per l’eternità il corpo del faraone. I faraoni, i re-dei, che governarono per millenni il civilissimo popolo egizio, furono assai numerosi. Di alcuni si è perduta perfino la memoria, ma di altri non solo sono conosciuti i fatti più importanti della loro vita, ma anche il carattere, i gusti, le tendenze. Di molti sono note le esatte sembianze in quanto vennero effigiati in sculture graffiti e dipinti giunti fino a noi; molte di queste sculture sono addirittura colossali. In tutte le raffigurazioni dei re sono riportati i segni del loro grado e della loro potenza: vesti e paramenti indicano infatti a noi, come indicavano del resto al popolo egizio millenni or sono, i segni dell’autorità. La barba diritta era ornamento rituale dei faraoni , che così si distinguevano dagli dei, raffigurati con la barba ricurva . La corona era simbolo di sovranità: del Basso Egitto se era rossa, dell’Alto Egitto se era bianca. Amenhotep III porta due corone riunite  perche sotto il suo regno avvenne l’unificazione dell’Egitto. Il bastone  ricurvo era segno di potere. Il serpente sacro raffigurava la potenza di Ra, che contrastava i nemici del faraone.
Per capire quanto fosse importante per gli Egizi l’immortalità, basta  considerare la parola “ankh!, vita, che per essi significava  nello stesso tempo la vita terrena e quella dell’oltre tomba . Morte e vita quindi erano due aspetti della medesima realtà. Il richiamo della vita terrena esercitava una così forte suggestione sull’animo degli egizi da indurli a credere possibile il godimento delle medesime  gioie anche nel regno dei morti. Più che di una morte si trattava del mutamento della vita stessa: bisognava perciò preparare il corpo a sostenere  un così lungo cammino. Era infatti credenza degli Egizi che per godere dell’immortalità fosse necessario che il corpo restasse il più possibile intatto: un corpo dissolto non meritava il premio eterno. Nacque così una vera e propria arte dell’imbalsamazione , vale a dire della conservazione dei cadaveri. “ Mummie” erano appunto chiamati i corpi imbalsamati e il dio tutelare di quest’arte era Anubi , guardiano dei sepolcri, raffigurato con la testa di sciacallo.
La delicata operazione di imbalsamazione poteva richiedere fino a due mesi di lavoro. Nella casa perfetta, così veniva chiamato l’apposito laboratorio, prima di tutto si procedeva a togliere le viscere del cadavere e poi, per mezzo di un procedimento di cui si è perduto conoscenza, si ungeva il cadavere con le “ lacrime versate dai celesti per Osiride e Iside. Al di fuori del linguaggio immaginoso degli Egizi queste “ lacrime “ non erano altro che speciali unguenti: mirra, miele, Sali e una specie di bitume che in egizio prendeva il nome di “mum”, da cui appunto derivò il termine mummia. Alla fine il corpo veniva completamente avvolto in candide bende e chiuso in casse lavorate e dipinte, i sarcofaghi. Ancora oggi, dopo quattromila anni, alcune mummie conservano la stessa espressione che avevano quando furono imbalsamate. L’oltretomba immaginato  dagli Egizi raccoglieva tutti i giusti in un luogo di pace: nella frescura delle palme e dei sicomori, tra i filari di viti, in mezzo ai canali dei fiumi ricchi di pesce e di selvaggina..
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La religione era presente in ogni gesto della vita, per potersi guadagnare un giorno l’accesso verso l’adilà.
Una distesa di acqua senza colore, il Num. Niente vita, luce, forma: solo il caos. Poi emerse una collina dove il dio creatore , Atum, potè appoggiarsi e far nascere l’Umido e il Secco, che a loro volta diedero origine al Cielo e alla Terra.
Nella creazione secondo gli Egizi, le versioni potevano variare secondo le diverse scuole teologiche , ma vi figurava sempre il Num , l’ambiente caotico ed indefinito (ispirato evidentemente, da quelle piene del Nilo che sfuggivano al controllo) dal quale spuntava la collina della creazione. Ma soprattutto c’era l’idea che il mondo fosse nato perfetto. Compito del faraone era allora quello di mantenere l’equilibrio e l’ordine contro le forze del caos. Tutto, dalle opere idrauliche ai riti religiosi, fino alla politica estera, tendeva all’equilibrio.
Se la civiltà egizia durò 3000 anni, quasi il triplo di quella di Roma, non fu quindi solo per quel relativo isolamento geografico dovuto al deserto . Il confronto con gli altri popoli avvenne anche in età antica e gli Egizi non scelsero mai di isolarsi, ma solo di affermare la propria identità basata su principi filosofici e religiosi ben diversi da quelli dei Greci e del mondo occidentale, sempre pronto ad espandersi e a trasformarsi.
Gli Egizi erano conservatori: se il loro mondo era perfetto, perché cambiarlo? La religione era la loro forza. Scandiva le regole della società e dava una risposta convincente al problema della morte. Assicurava che era possibile continuare a vivere, bastava prepararsi.. Morire era senzaltro spiacevole, ma dopotutto non cos’ terribile: “Possa tu star bene nel tuo sarcofago, avendo gioito di tutto quanto di buono desiderava il tuo cuore” diceva un iscrizione.
Una bella vita doveva essere coronata dal rispetto di norme morali, non troppo dissimili da quelle che si daranno poi ebrei e cristiani.
Il defunto si presentava davanti al tribunale divino presieduto da Osiride, dio della morte. Anubi poneva sul piatto di una bilancia il suo cuore, che per gli Egizi era sede della coscienza: se il peso era pari a quello di una piuma, simbolo della dea della verità e della giustizia Maat, il morto riprendeva il suo corpo e la sua vita normale nell’aldilà, dove “ara,miete , mangia, beve e fa l’amore e tutto ciò che faceva prima”.
Se il suo cuore era troppo gravato dai peccati, veniva divorato da Ammut, mostruoso incrocio tra un coccodrillo, un leone e un ippopotamo. La morte, questa volta, era per sempre. La permanenza nell’aldilà, all’inizio riservata solo ai faraoni, divenne poi una conquista per tutti, un’eventualità concreta che per ciò dava sicurezza. Ma dadove venivano queste generose divinità che promettevano l’altra vita ? Dalla lontana preistoria. In gran parte da una serie di animali sacri che con il tempo acquisirono forma umana, mantenendo però alcuni caratteri animaleschi. Le diverse scuole teologiche raggrupparono poi in famiglie divinità in origine autonome e adorate solo localmente. “Per esempio Anubi”, il dio con testa di sciacallo che presiedeva all’imbalsamazione, era originario di Assyut. Thot, con testa di ibis, che diede agli uomini la scrittura, aveva un centro di culto Ermopoli. La dea avvoltoio Nekhbet era di Elkab. Sobek, il dio coccodrillo, di El-Faiyum, e così via. Se un faraone era nativo  del luogo dove era adorata una divinità, questa poteva assumere importanza nazionale. E le altre città erano ben felici di ospitare il culto o di scoprire che, in fondo, il loro dio locale era un’altra forma o espressione di quello stesso dio nazionale.
Quando il potere centrale si rafforzò, entrarono in scena le grandi divinità cosmiche, le cui fortune furono legate a quelle delle dinastie reali e del clero che le appoggiava. Per esempio, per i sacerdoti di Eliopoli il dio principale era Atum che, secondo alcuni masturbandosi, secondo altri espettorando, diede origine alla prima coppia divina : Shu, il secco, e Tefnut, l’Umido . Per i sacerdoti di menfi, invece, era stato Ptah, sulla collina della creazione, a fare il mondo con la magia delle parole. Ra fu l’evoluzione solare di Atum, caro ai grandi costruttori di piramidi come Cheope . Atom , cui il faraone Akhenaton destinò tutte le offerte  dei templi d’Egitto , fu al centro di una riforma tendente al monoteismo  che fece infuriare il clero. Infine Amon venne imposto nel Medio regno dalla dinastia regnante a tebe.
Di fatto gli archeologi hanno visto che i più radicati dei dell’Egitto erano Horo e Osiride. Horo, il falco, era un dio solare, originario di Hierakompolis. Nei geroglifici, uno dei segni che significa Dio è costituito proprio dalla figura di un falco pellegrino. Appariva nei nomi dei re  che unificarono l’Egitto (Scorpione e Narmer). Osiride, il dio egizio più popolare in assoluto, inizialmente di casa ad Abido, era invece legato alla fertilità e alla rigenerazione.. Come il seme  che,apparentemente morto, rinasce dopo la semina, Osiride era la proiezione della fiducia degli uomini nell’aldilà.
Le due divinità si ritrovarono come parenti in un famoso dramma dell’antichità, che è poi il mito della fondazione della civiltà egizia. Eccone la trama: Osiride era stato designato dagli dei re dell’Egitto. Ma Seth, fratello invidioso, lo uccise e lo fece a pezzi, spargendone i resti lungo il Nilo. Disperata, la moglie di osiride, Iside, ritrovò tutti i pezzi e ricompose in bende il corpo del marito, fece, insomma la prima mummia. Osiride riebbe la vita, a patto però di restare confinato nella Duat (l’aldilà degli Egizi) . Horo, figlio di Osiride, sarebbe allora dovuto subentrare al padre sul trono. Ma ad opporsi fu ancora Seth. Dopo un lungo processo, in cui si dimostrò la colpevolezza di Seth, gli dei diedero ragione a Horo.
Questa storia di giustizia condizionò anche i faraoni : il re che moriva era assimilato a osiride, e suo figlio (novello Horo) doveva provvedere a garantirgli la rinascita mummificandolo , per poi governare. La credenza era talmente radicata che se il primogenito del faraone deceduto si trovava fuori dall’Egitto e non rientrava in tempo per la sepoltura, gli subentrava in veste di Horo il principe che presiedeva le esequie. Sulle pareti interne delle piramidi , a cominciare da quella di Unis, della V dinastia, si trovano le istruzioni che il faraone doveva seguire per superare le varie porte del regno  dei morti e raggiungere Ra nella barca solare. Sono i cosiddetti “ testi delle Piramidi” .
Con la fine del primo periodo Intermedio, segnato da rivolte sociali, le istruzioni per l’aldilà apparvero direttamente  sui sarcofaghi anche di gente comune. Il diritto al “paradiso” insomma si allargò, finché nel nuovo regno  si giunse alla sua completa democratizzazione. Il famoso libro dei morti, una raccolta di circa 200  formule per raggiungere,, risale a questo periodo e fu scritto su rotoli di papiro in migliaia e migliaia di copie, con tanto di illustrazione  a colori che accompagnavano i testi. Per gli Egizi, chiusa la tomba, tutto si animava per magia (formule scritte, fabbricanti di pane e birra, figure di servi e contadini, gli ushabti delegati a svolgere il lavoro, e persino sensuali bamboline) per il benessere del defunto. Pensavano insomma che immagini e parole producessero effetti reali. Se non ci si poteva permettere una tomba , bastava deporre in un luogo di culto un iscrizione con il proprio nome , la propria storia e una dichiarazione  di non colpevolezza a Maat per assicurarsi l’aldilà. La religiosità era anche un fatto di vita tereena . Aveva un punto centrale i Temli, che erano anche centri amministrativi . Lì si risolvevano le dispute , s’imparava a scrivere , erano conservati gli antichi testi , l’anagrafe, i conti di rendite e donazioni . Si è calcolato che ai tempi di Ramses III (1185-1153 a. C.) un settimo dei terreni coltivabili ne mezzo milione di capi di bestiame fossero di proprietà dei templi .
I sacerdoti, che rispondevano del loro operato al faraone, non avevano l’obbligo di celibato e ricoprivano anche incarichi civili. Le statue contenevano lo spirito del dio e ogni mattina  venivano lavate , vestite ingioiellate e nutrite dai sacerdoti  (ai quali in realtà andava il cibo)
Mostrate in pubblico solo in feste religiose , durante le processioni la gente poteva interrogarle  su malattie, amori ed eventi. La posizione inclinata che assumevano durante il percorso  (in avanti o indietro) suggeriva le risposte. Ma la vera  arma segreta  degli egizi  era l’heka, la magia.  Se ne servivano tutti , contadini, sacerdoti , faraoni , persino medici , e tutti i giorni, con formule , pozioni e sortilegi speciali di cui parlano alcuni papiri.
Il popolo era molto legato anche alle divinità minori (si calcola che ce ne fossero circa 3 mila) come Bes, protettore della famiglia, o la cima della montagna di tebe. Ridicolo? Mai sottovalutare la sapienza popolare! Se ne accorse anche un tale Neferabu, che dopo un grave calo della vista fece scrivere su una stele : “Bisogna rispettare la divinità della cima, perché mi ha dato una lezione.
Gli animali del Nilo: amati, idolatrati, imbalsamati: Convivenza, rispetto, idolatria. E’ il rapporto dell’antico Egitto con l’universo animale, verso il quale aveva una attenzione puntigliosa. I segni geroglifici degli animali sono piccoli capolavori di precisione, e denotano una amorosa osservazione della natura. Sulle pareti delle tombe, specie nell’Antico e Medio regno, erano scolpiti ricchissimi bestiari. Gli animali erano compagni dell’uomo. Il gatto (miu, nella lingua egizia), il cane e il cavallo vivevano con gli egizi. Babbuini e cercopitechi stavano in casa come animali domestici . venerati, tutti gli esseri avevano un doppio volto: familiare e divino. Vi erano animali sacri e dei dal volto animale, venerati anche in forme oggi impensabili. Nella regione di Tebe i coccodrilli erano ammansiti e ingioiellati con bracciali d’oro. Erano sepolti mummificati gatti (a Bubasti, centro religioso della dea Bastet ve ne sono migliaia), cani e non solo: si stima che siano 4 milioni gli uccelli ibis imbalsamati nelle catacombe a nord di Saqqara. Culti che sorprendevano i viaggiatori e che giungeva all’estremo: come nei templi ove si celebravano in pubblico amplessi di sacerdotesse con montoni, in onore di Amon-Ra, dio con la testa d’ariete.
La Dichiarazione d’Innocenza:
Gli egittologi l’hanno definita la “confessione negativa” per poter essere ammesso nell’aldilà, il defunto doveva negare davanti al tribunale di Osiride di aver commesso atti riprovevoli. Molte di queste dichiarazioni trovano eco nei dieci comandamenti ebraici e cristiani. Eccone qualche esempio:
“ Non ho commesso iniquità contro gli uomini”
“Non ho maltrattato i sottoposti”
“ Non ho bestemmiato Dio”
“ Non ho rubato”
” Non ho calunniato uno schiavo presso il  padrone”
“ Non ho affamato nessuno”
“ Non ho fatto piangere nessuno”
“ Non ho ucciso”
“ Non ho commesso atti impuri”
“ Non ho fornicato con donna maritata”
“ Non ho diminuito le offerte nei templi”
“ Non ho barato sui terreni”
“ Non ho alterato il peso della bilancia”
“ Non ho tolto il latte dalla bocca dei bambini”
Gli egizi pensavano che i componenti della persona fossero ben cinque : il Ka, il ba, l’ombra, l’akh e il nome.
 Il Ka era la forza vitale. Poteva trasferirsi dal corpo  del defunto ad una statua.Alcune divinità avevano il loro ka in altre divinità. Le offerte, reali o raffigurate sulle pareti delle tombe, servivano a nutrire il Ka dei defunti.
Il ba, rappresentato spesso come un uccello dal volto umano, era qualcosa di più vicino aciòche oggi si intende per anima: la manifestazione animata e soggettiva del morto. Poteva uscire alla luce del giorno, spaziare in cielo e tornare nel sarcofago. Le altre tre:
L’ombra era anch’essa indipendente dal corpo e poteva muoversi da sola passando il confine del regno dei morti. La dissoluzione della propria ombra da parte del mostro Ammut durante il giudizio divino significa finire perduti nel Caos.
L’akh era quella parte dell’individuo che, dopo innumerevoli riti e formule magiche, poteva salire al cielo e brillare insieme alle stelle. Era parte dell’energia creatrice , la massima luminosità dopo la trasfigurazione che portava l’individuo rinnovato a partecipare allo splendore degli Dei.
Il nome rappresentava in vita una seconda nascita, una “presenza” quando veniva letto e pronunciato. Nel mondo dei morti era indispensabile per la sopravvivenza dell’individuo. La sua cancellazione da statue e tombe era come un omicidio.
L’adilà non era riservato solo al faraone. Dopo la morte, a separarsi dal corpo era dapprima il ka del defunto (la sua essenza vitale) , seguito, dopo la cerimonia funebre, dal ba (l’anima). Il viaggio nell’oltretomba iniziava sotto la protezione di Horo (rappresentato in forma di uomo con la testa di falco) che scortava il defunto davanti al tribunale divino. Ma prima di questo, la salma doveva essere stata correttamente imbalsamata e posto nel sarcofago, contornata di suppellettili e cibo e dalle formule propiziatorie contenute nel Libro dei morti. Questi oggetti non erano altro che il corredo per l’oltretomba, tanto più ricco quanto più elevata era stata la posizione sociale in vita.

UNA GRANDE FAMIGLIA
Il Pantheon egizio fu il risultato della progressiva assimilazione di molteplici divinità locali. Menfi, tebe, Eliopoli ed Elefantina forono le sedi principali di culto, in cui gli dei furono organizzati in triadi familiari e in una enneade (nucleo di nove divinità, più altre collegate).
Enneade di Eliopoli:
ATUM-RA= Divinità solare, creò l’universo;
 MAAT = Energia coesiva dell’universo. Sovrintende all’ordine cosmico e alla giustizia;
SHU= incarnazione del Secco. Fratello e sposo di Tefnut; TEFNUT Dea che incarna l’Umido. La criniera è attributo di forza;
GEB=   Fratello e sposo di Nut. Dio della terra;
NUT =  Sorella e sposa di Geb. Dea del cielo;
ISIDE =    Dea madre, regina e maga;
OSIRIDE =  Dio risorto, re dell’oltretomba;
NEFTI = Patrona della casa, madre di Anubi;
SETH =  Dio del caos, uccisore di Osiride;
HATHOR = Vacca celeste, dea dell’amore;
HORO =   Dio falco patrono dell’Egitto;
ANUBI = Dio sciacallo  custode dei segreti;
THOT = Dio ibis patrono degli scribi.

Triade di Menfi:
PTAH = Creatore, patrono degli artigiani;
SEKHMET = Dea leonessa divinità solare.
API = Toro solare, animale sacro a Ptah;
NEFERTUM = Dio dei profumi il cui simbolo è illoto;

Triade di Tebe:
AMON “ Il nascosto” il suo animale è l’ariete;
MUT = Dea della guerra e dell’inondazione.
KHONSU Dio della luna, con codino da fanciullo;

Triade di Elefantina:
KHNUM = Dio ariete, modellò gli uomini al tornio
SATET = Dea dell’amore, con corna d’antilope;
ANUQUET = Figlia divina, dal copricapo di piume;

Altre Divinità:
SOBEK = Dio coccodrillo delle acque del Nilo,
BES = Protettore di donne e bambini;
NEKHBET = Dea avvoltoio, patrona dell’Alto Egitto;
UADJET = Dea cobra, patrona del Basso Egitto;

BASTET = Dea gatta, sorella lunare di Sekhmet.