geronimo

giovedì 21 marzo 2013

SANTUARIO DELLA SANTISSIMA TRINITA'


N°6) Itinerari, luoghi della Fede

MONTAGNA SPACCATA ,SANTUARIO DELLA SANTISSIMA TRINITA’
Quel suggestivo santuario a strapiombo sul mare.
Antiche leggende di pirati si mescolano alla storia della crocifissione di Cristo in un contesto naturale di eccezionale bellezza. A Gaeta, ai confini tra Lazio e Campania

Laddove gli Appennini si affacciano sul mare e si vedono riflessi nell’acqua, tra due lembi di una montagna spaccata in tre parti, sorge il santuario della Santissima Trinità . Il complesso della Montagna Spaccata  si trova a Gaeta, tra il Lazio e la Campania, incastonato tra le falesie dell’estremità del promontorio, oggi appartenente al Parco naturale urbano di Monte Orlando.
Dedicato alla Santissima Trinità: Secondo la tradizione , la montagna fu una di quelle che si spaccarono quando Gesù fu crocifisso, così come racconta Matteo nel suo Vangelo: “Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono”. Lambita dai bastioni fatti costruire al tempo dell’imperatore Carlo V, il santuario della Santissima Trinità si trova sul pendio del Monte Orlando, risale all’XI secolo, e fu fondato dai benedettini, ma il suo aspetto  attuale e quello donatole da un restauro del XIX secolo operato dei padri francescani.
Vi si giunge mediante una strada che sovrasta la spiaggia di Serapo, da dove si possono ammirare scorci mediterranei che rievocano la storia di un mare antico e dominato dai pirati . All’interno della chiesa  a navata unica coperta da volta a botte, una pala d’altare raffigura la Santissima Trinità , la Madonna  e sant’Erasmo. L’abside rettangolare è più basso e di sezione minore rispetto alla navata, dalla quale si dipartono le cappelle con un gruppo della Pietà di Giovanni Duprè, la statua di San benedetto che ricorda l’origine benedettina e i santi Francesco e Antonio a rievocare influenze francescane.
La Grotta del turco: Dal lato sinistro della chiesa, mediante una ripida scalinata di trecento gradini, si raggiunge la fenditura della Grotta del turco, un grande teatro a livello del mare con le quinte in roccia  e il pavimento di acqua. Si chiama così, piega il rettore del santuario padre bernardino Rossi, 2perché durante il giorno dei turchi facevano razzie lungo le coste e la notte venivano in questa grotta a rifugiarsi”.
Lungo la scalinata che porta nelle viscere della montagna , l’impronta di una mano infilata nella parete rocciosa ricorda il miracoloso segno impresso da un marinaio turco miscredente, che, dubitando della nascita della spaccatura delle rocce al momento della morte del Signore, poggiò una mano sulla parete che subito, miracolosamente, si rammollì come cera tra le sue dita, diventando morbida per accoglierne l’orma, provocando così la sua conversione al cristianesimo.
Il corridoio della via Crucis: Alla destra del santuario si può percorrere un corridoio detto “ della via Crucis” per le pareti ricoperte dalle stazioni di riquadri maiolicati opera di Raimondo Bruno del 1849, con commenti in versi, nella parte inferiore di ciascuna formella, attribuiti al drammaturgo Pietro Metastasio. Al termine del corridoio è visibile il mosaico della via Crucis, una grande crocifissione dello stesso Bruno. Superandolo si accede alla stretta scalinata di circa trenta gradini che, fra le pareti a strapiombo della fenditura centrale della montagna, scende fino alla cappella del Crocifisso.
La Cappella sospesa sul mare: Da uno dei costoni di roccia perfettamente combacianti della falesia si staccò, intorno al 1400, un masso, che cadendo si posizionò incastrandosi sulla fenditura centrale: lì venne edificata dai gesuiti una cappella dedicata al Crocifisso, risalente al 1400. Il pavimento è oggi ricoperto da marmi, ma al di sotto vi è la pietra a sorreggerla per un’altezza di ben trenta metri sul livello del mare.
L’ambiente ha forma circolare, e il crocifisso che le da il nome è di legno. Dall’interno è visibile lo strapiombo sul mare e all’esterno una scala scavata nella roccia conduce sopra la cupola. La storia di devozione legata alla cappella del Crocifisso è antica: in passato, vi erano talmente tanti lumini accesi che di notte le barche dal mare, vedendola illuminata, la chiamavano “ il faro”, si fermavano sparavano un colpo in segno di rispetto e poi ripartivano.
Una devozione antica: Il fascino di questa montagna santa non ha colpito solo i marinai: all’interno della Montagna Spaccata, si trova il giaciglio in pietra dove San Filippo Neri dormiva quando visitava il Santuario per pregare.
E’ stato uno dei santi che ha maggiormente frequentato questo luogo, spiega il rettore. Veniva qui da Cassino, passava giorno e notte a pregare davanti al Crocifisso. La tratta Cassino-Gaeta non si poteva affrontare in giornata, quindi spesso rimaneva a dormire, stendendosi sulla nuda roccia.
Ma qui si raccolsero in preghiera anche numerosi pontefici, tra cui Pio IX, sovrani, vescovi e altri santi tra cui Bernardino da Siena, Ignazio di Loyola, Leonardo da Porto Maurizio.
Il santuario dell’Annunziata: Risalente al 1321, la chiesa di origine angioina è a pianta rettangolare, con una sola navata ripartita da crociere ogivali e robusti costoloni.
Si trova all’interno della città di Gaeta, a trecento anni dopo la fondazione è stata ristrutturata fino ad assumere il barocco aspetto odierno. Inizialmente concepita come chiesa-corsia legata a uno stabilimento ospedaliero, dai restauri del Seicento è stata semplicemente un santuario, oggi gemellato a Lourdes.
All’interno, nella parete absidale piatta vi è un trittico cinquecentesco, mentre sulle pareti laterali vi sono due altari di marmo del seicento con tele di Luca Giordano e Sebastiano Conca. Nella chiesa dell’Annunziata si conservano codici preziosi contenenti musica sacra ricopiati a mano dai monaci amanuensi.
La Cappella dell’Immacolata: Detta “Grotta d’oro dopo la ristrutturazione cinquecentesca per l’oro zecchino che la ricopre interamente, risale al XIV secolo e si trova all’interno del Santuario dell’Annunziata.
La cappella è ricoperta da una volta a botte con cassettoni di legno intagliati e dorati e le pareti sono adornate da ventidue quadri dedicati a episodi  della nascita e dell’infanzia  di Gesù. Qui ha pregato anche Giovanni Paolo II, ed è proprio qui che Pio IX si è raccolto in preghiera spesso, nei mesi del suo esilio per via dei moti che portarono alla Repubblica romana, davanti all’immagine di Maria dipinta del Gaetano Scipione Pulzone maturando la convinzione del dogma dell’Immacolata Concezione, proclamato nel dicembre del 1854.
Non solo fede: Il complesso della Montagna Spaccata non attrae solo fedeli, ma anche amanti  della cultura e dello sport. Nei pressi della Grotta del turco, infatti, si trovano le grandi cisterne d’acqua e i manufatti che costituiscono i resti della villa appartenuta al console romano, generale di Giulio Cesare, Cesare Munanzio Planco.
Sui fianchi della montagna, alta circa 130 metri, sono state aperte inoltre una decina di vie attrezzate per consentire agli amanti dell’arrampicata di cimentarsi nella “ via dei camini” , che permette di raggiungere il mare dopo una vertiginosa discesa di 110 metri.

Tre parole per definire questo luogo? Ne dico quattro: natura, impressione, meraviglia, grandiosa.


Come raggiungere la Montagna Spaccata: In auto, provenendo da nord, prendere l’autostrada A1 e uscire a Roma sud sul grande raccordo anulare in direzione Sud-Napoli. Imboccare poi la Strada Statale 148 Pontina. Superata Terracina si può scegliere la litoranea statale 213 Flacca per raggiungere Gaeta, o la statale 7 Appia per inoltrarsi nell’entroterra e raggiungere Itri per poi proseguire in direzione Gaeta. Provenendo da sud è anche possibile percorrere  la statale Domiziana da Napoli. In treno, i collegamenti da Roma e Napoli sono frequenti, mediante lo scalo di Formia, dal quale è poi possibile raggiungere Gaeta con gli autobus di linea. Gli aeroporti più vicini sono Roma Fiumicino/Ciampino e Napoli.

martedì 19 marzo 2013

EREMI DELLA MAJELLA


n° 5) Itinerari, luoghi della Fede

EREMI DELLA MAJELLA
Gli eremi della Majella sono quasi 100, nascosti in remoti anfratti, in solitari valloni o sulle pendici delle rigogliose montagne del Parco nazionale, in Abruzzo

Francesco Petrarca la chiamava Domus Christi, casa di Cristo. E con i suoi quaranta luoghi di culto, la montagna della Majella è una zona decisamente abitata dalla spiritualità. Sono soprattutto gli eremi, spesso nascosti in anfratti difficilmente raggiungibili, a punteggiare di fede le rocce racchiuse nei confini del parco nazionale. La sua area si raccoglie attorno al grande massiccio calcareo che gli da il nome, alle montagne del Morrone a occidente e, a oriente, attorno ai monti Pizi e Porrara. L’Abruzzo, con i suoi quasi 100 eremi, custodisce un patrimonio di straordinaria bellezza, che testimonia una forte esperienza religiosa eremitica. Ma il maggior numero di siti è sul versante occidentale della montagna, lungo le vallate di Santo Spirito e dell’Orfento.
Una storia antica: “L’isolamento e l’inaccessibilità dei profondi valloni che solcano la Majella, ha profondamente inciso sulla spiritualità degli abitanti dei suoi villaggi” spiega Nicola Cimini, direttore del parco Nazionale della Majella: “sono iniziati, annuncia, i lavori di sistemazione dei sentieri e della segnaletica informativa (2013) per l’allestimento di totem, e l’avviamento di un corso di formazione per gli operatori turistici che accompagnano i visitatori sugli eremi”.
La vocazione spirituale di questa zona ha origini antichissime, ma a compiere una vera e propria ristrutturazione degli eremi fu, nel XIII secolo, Pietro da Morrone, futuro papa Celestino V.
Sulle orme di Pietro da Morrone: Nato a Isernia nel 1215, dopo un breve periodo trascorso nel monastero di Santa Maria in Faifoli, Pietro fugge alla ricerca della solitudine estrema. Studierà e prenderà i voti a Roma per poi lasciarla, nel 1241, e ritirarsi alle pendici del Morrone, in una grotta vicino a una chiesetta dedicata alla Madonna. In questo luogo la sua santità richiama molti discepoli, desiderosi di condividere, con lui la vita eremitica. Ma il desiderio di solitudine è più forte, e nel 1246 decise di dirigersi proprio sulla Majella, dove comincia a dimorare nell’eremo di Santo Spirito, vicino a Roccamorice. Qui rimane, tranne alcuni periodi, per circa cinquant’anni. E’ in quello di Sant’Onofrio , invece che il 17 luglio 1294 lo raggiunge la notizia del suo pontificato, al quale rinuncia, lo stesso anno , per rivestire il saio da eremita fino alla fine dei suoi giorni.
Il custode del Santarello: L’eremo di San Bartolomeo fu costruito in un periodo anteriore al Mille, e qui Pietro da Morrone visse in preghiera dal 1274 al 1276. Dal momento che la sua fama faceva accorrere migliaia di fedeli, il futuro papa decise di spostarsi in un luogo più difficoltoso da raggiungere, nell’allora impenetrabile valle dell’Orfento. Inserito in uno scenario arido, l’eremo è accessibile mediante una scala ricavata nella roccia, che porta a una balconata rocciosa alla fine della quale si trova la chiesa. Sulla facciata ci sono affreschi risalenti al XIII secolo.
All’interno, su un semplice altare è posta una statua ritraente San Bartolomeo . Sulla parete sinistra, invece una vaschetta raccoglie acqua che i devoti ritengono miracolosa. La statua di San Bartolomeo, chiamata affettuosamente “il santarello” poiché molto leggera, tiene in mano una lama estraibile che gira per le case dei devoti come una reliquia itinerante.
Il Romitario di San Giovanni: E’ il luogo dove, per quasi nove anni, dal 1284 al 1293, Pietro da Morrone, insieme a pochi discepoli, condusse vita completamente isolata, nella valle dell’Orfento. Posto a 1227 metri di altezza sulla parete di un’aspra valle, era raggiungibile solo con una passerella di legno che, una volta tolta, lo rendeva inaccessibile. Oggi rimane la parte eremitica dell’antico convento: un tempo vi erano le cellette dei monaci, una chiesetta e una foresteria per i pellegrini. Per accedervi il visitatore è costretto a strisciare per terra per alcuni metri.
La casa madre dell’ordine dei Celestini: Quello di Santo Spirito, risalente al XI secolo, è il più grande eremo celestinanio, . Vi dimorò prima papa Vittore III, nel 1053, che vi costruì una chiesa, e poi , nel 1246, Pietro da Morrone, che fece edificare un oratorio con la prima cella.
Alla fondazione della chiesa è legato un racconto leggendario secondo il quale uno stuolo di angeli e santi apparve al santo eremita, assieme a San Giovanni evangelista che, in splendide vesti sacerdotali, si mise a celebrare messa sulle povere pietre dell’altare..
Il nucleo originario dell’eremo è scavato nella roccia e si trova nella parte bassa della chiesa: il portale in legno, così come la statua di San Michele Arcangelo e il tabernacolo, risalgono al 1894, quando la chiesa fu riaperta al culto. Fu allora che vennero ricollocate al suo interno le opere che erano state spostate nella chiesa di Roccamorice: un busto di papa Celestino V, una statua di Cristo in legno e i dipinti raffiguranti la Madonna, la discesa dello Spirito santo  nel Cenacolo, San Giuseppe e Sant’Elena. Sull’altare di fondo della chiesa è ancora visibile l’affresco della Pietà dipinto nel 1737 dal pittore locale Domenico Gizzonio. Vicino alla foresteria, che si sviluppa su tre piani, si trovano i trentuno gradini della Scala santa, interamente scavata nella montagna, che conduce a due grandi balconate rocciose e all’oratorio della Maddalena, ricavato nello sperone interno alla balconata.
Sant’Onofrio al Morrone: La leggenda narra che Sant’Onofrio, figlio del re di persia, scontò le sue colpe chiuso in una grotta, dove tutt’ora i credenti giungono per poggiarsi nella cosiddetta “Culla di Sant’Onofrio” , giaciglio del Santo la cui tradizione attribuisce capacità curative per febbre e dolori addominali. L’eremo, che si trova a circa 700 metri di altezza e si raggiunge attraverso una scalinata scavata nella pietra, ha un oratorio con la volta azzurra coperta di stelle. Alle pareti vi sono pregiati affreschi duecenteschi raffiguranti la Vergine con il Bambino, i busti di tre santi, un ritratto dello stesso papa Celestino e la Crocifissione di Cristo.
Secondo la tradizione, quando Pietro Morrone fu raggiunto dalla notizia della sua elezione, vide il Crocifisso accennare con il capo e solo allora pronunciò queste parole: “Do il mio assenso ai voti del sacro collegio ed accetto il sommo pontificato. Mi aiuti il signore a portare il gravissimo giogo”.
Al piano superiore sono visitabili gli alloggi, oggi adibiti a sedi di ritiri spirituali, e la terrazza da cuimi fedeli lanciano sassi nel precipizio, simboleggiando la volontà di allontanare le tentazioni.

Una vita da Eremita: preghiera, lavoro, digiuno
Nelle valli della Majella, tra gli ermi scavati nelle pietre, hanno vissuto le loro vite uomini straordinari . Di questi luoghi e degli eremiti abbiamo parlato con l’antropologa Gabriella Marucci.
Chi erano gli eremiti? Uomini giudicati santi, che rinunciavano ai luoghi dell’aggregazione, alla vita sociale e ai beni materiali per acquisire indipendenza totale. Erano giudicati molto umili, vivevano in penitenza e in posti freddissimi, mangiavano e dormivano il meno possibile, non prendevano ordini sacerdotali perché non si ritenevano degni. Dopo la fine dell’impero romano, in una società completamente disgregata, cosa potevano fare degli uomini per diventare guide di qualcun altro? Rifiutare tutto quello che cercavano gli altri.
Come venivano percepiti dagl’altri? La Majella è una montagna sacra, la gente era attratta dalla sacralità della montagna e della prepotenza della sua natura. Erano tempi durissimi, e le persone venivano affascinate dalla fama di queste vite straordinarie e da questi uomini con il dono della preveggenza, della profezia e della guarigione. Pietro da Morrone era stato ordinato sacerdote e aveva fondato i celestiniani, ma si allontanava sempre di più dal mondo. Quello era già un eremitismo tardivo, sacerdotale e benedettino: il lavoro era importante, i monaci scavavano canaline per lo smaltimento delle acque.
Come vivevano? Vi era chi stava solo e chi viveva in piccoli cenobi, lavoravano, digiunavano molto, stavano in preghiera e combattevano il demonio, quello delle tentazioni di ambizione, del lasciarsi andare ai desideri umani. Pietro da Morrone era un uomo molto solitario, dalla fortissima vocazione ascetica.
Come attrae i pellegrini? Questi sono luoghi angusti, immersi in una natura prepotente che mostra la grandezza del creatore. Si percepisce che è un piccolo luogo sacro, abitato di uomini che vivevano di meditazione: è impossibile sfuggire a questa sensazione. Qui davvero, l’incontro con il soprannaturale è più facile.

Come arrivare al parco: Per raggiungere il Parco nazionale della Majella in auto, provenendo da Roma, imboccare la A24 Roma L’Aquila e la A25 Torano-Pescara, uscite di Pratola Peligna, Bussi, Torre De’ Passeri, Alanno-Scafa da cui si prosegue verso i paesi del massiccio con le strade statali 17,487,614,81,84. Provenendo da nord percorrere la A14 fino a Pescara e proseguire verso l’interno con la A25. Il versante orientale della Majella si raggiunge dalla Val di Sangro proseguendo poi verso Casoli, oppure dall’uscita Pescara-Chieti proseguendo verso Guardiagrele.




mercoledì 13 marzo 2013

CERTOSA DI SERRA SAN BRUNO (Calabria)


4)  Itinerari della fede
CERTOSA  DI SERRA SAN BRUNO
Luogo di contemplazione lungo il cordone verde che unisce la Sila all’Aspromonte, a 800 metri d’altezza, si erge l’altopiano dove sorge la secolare abbazia.
Un particolare accoglie i visitatori: “ingredatiur gens iusta”, entri il popolo giusto, alla ricerca di un alloggio per dare alla luce Gesù

Lungo il cordone verde che unisce la Sila all’Aspromonte, in una terra di fiumare e scorci selvaggi, di carbonai ed eremiti, si erge il silenzioso altopiano di Serra San bruno. Scelto dieci secoli fa da Bruno di Colonia, la certosa di Serra San bruno si trova nella Calabria centro-meridionale, a circa 800 metri di altezza, ed è inaccessibile in ogni sua parte meno che nel museo.
Una storia travagliata: Nato a Colonia nel 1030, Bruno studiò in Francia, alla scuola capitolare di Reims. Maturata la vocazione, distribuì i suoi averi ai poveri e andò all’abbazia di Molesnes, allora governata da San Roberto, uno dei fondatori dei cistercensi . Qualche anno dopo, con sei compagni fondò il primo monastero a Grenoble nel cuore di un massiccio che si chiamava Certusia da cui deriva il termine italiano certosa. Lì, consapevole che l’esistenza vera si trovava altrove, Bruno diede inizio alla solitaria vita certosina. Dalla quale si distaccò per la chiamata di papa Urbano II che lo voleva a Roma. La Certosa di Calabria, che porta il suo nome, è il luogo in cui ha vissuto gli ultimi anni della sua vita ed è poi morto.
Richiamati a Serra all’inizio del 1500 dal Papa a custodire le ossa del fondatore, i monaci non hanno avuto vita facile: subiti i danni del terremoto del 1783, a seguito del quale il chiostro, la chiesa, le cappelle private e le celle furono completamente rifatte, vennero espulsi nei primi anni dell’800 da Napoleone. Con l’Unità d’Italia il complesso passò al Comune di Serra, prima che, nel 1887, la casa madre dell’ordine certosino la riacquistasse per dar via alla ricostruzione, ultimata nel 1894.
Il cuore della Certosa: Da un campanile con l’orologio si ha accesso al chiostro quadrangolare, che occupa una superficie di circa 640 metri quadrati ed è ripartito in quattro settori che ripropongono il ritmo della giornata tipica di un certosino, identificati mediante nomi di fiumi: Phison (lectio), Tigri (oratorio), Gyion (meditario), Eufrate (contemplatio). Uno dei settori ospita un cimitero: trentatré nude croci senza iscrizioni ricordano i monaci che lì, senza bara, vengono seppelliti vestiti della loro tunica. Il giorno dei funerali è un giorno di festa e la comunità esprime la propria gioia per il monaco che ha raggiunto la meta della sua esistenza mangiando insieme nel refettorio. Dal chiostro si accede al complesso del priorato, che comprende un ufficio, il refettorio, le cucine e la biblioteca. Quest’ultima, composta da cinque sale, è ricca di volumi teologici e patristici, ma anche di letteratura, storia, scienze e geografia, giunti in certosa dopo la ricostruzione di inizio 900: circa 30mila in totale.
Il mondo in una cella: Dal grande chiostro si diramano l’abitazione del priore e le tredici celle dei monaci, ciascuna struttura su due piani . Al piano superiore si accede ad un anticamera detta “ Ave Maria” perché spiega il priore Dom Jacques Dupont, “solitamente vi si trova una statua della Vergine e anche perché il monaco quando torna dalla chiesa, qui si inginocchia e recita una preghiera alla Madonna” . Nella stanza successiva, detta cubiculum, il letto, un tavolo e l’angolo per la preghiera. In questo ambiente, prosegue Dom Jacques, “ ciascun monaco  trascorre venti ore al giorno, tranne quando ci si ritrova in chiesa per la preghiera e la domenica quando ci sono più momenti comunitari. Qui se non c’è la presenza del Signore si ha difficoltà a vivere, ammette, ma un monaco entra qui proprio per vivere una stretta amicizia con Gesù. Il segreto della nostra vita è condividere la vita con Lui, solo così non si viene schiacciati da queste mura”.
Nella parte inferiore della cella vi è un laboratorio dove due tre ore al giorno ogni monaco lavora con le sue mani, in modo da evitare il rischio di isolarsi dimenticando gli altri, o di stare in un mondo totalmente immaginario: “ Al di là dell’esercizio fisico e della distensione all’aria aperta, aggiunge, la cura del verde ha un significato teologico. Il giardino è il luogo in cui Dio aveva messo Adamo, prima che finisse nel deserto. Ed è dal deserto che Dio ci chiama per farci ritornare nel giardino, che sarà il paradiso: ciascuno deve trasformare il suo deserto in giardino.
La chiesa conventuiale: E’ una scultura in pietra bianca raffigurante San bruno intento a meditare che accoglie, sul sagrato, il visitatore che accede alla chiesa del convento. La statua proviene dalla facciata della distrutta certosa, oggi fatiscente così come è stata lasciata dal terremoto. La chiesa nuova, dove i padri si radunano tre volte al giorno per pregare, viene aperta al pubblico solo due volte l’anno., il lunedì dopo Pentecoste in ricordo della traslazione delle reliquie dall’eremo di Santa Maria alla certosa, e il 6 ottobre, quando il busto reliquario di San Bruno, abitualmente posto sull’altare, in occasione della così detta “gita del santo”, che dura una settimana, viene portato fuori.
Sul busto in argento, protetto oggi da una calotta di plexiglass sono visibili delle ammaccature, provocate dal lancio votivo di confetti, simbolo di fertilità e abbondanza, da parte dei fedeli in occasione dei festeggiamenti del 6 ottobre. Un grande rosone sovrasta il portale d’ingresso e due semitorri  fiancheggiano i lati dell’edificio a navata unica con l’abside caratterizzato da motivi neogotici. Dalla sagrestia, che originariamente era una cappella dedicata a Sant’Anna e apparteneva alla chiesa cinquecentesca distrutta dal terremoto, si accede al cortile della meridiana, un giardino all’italiana con la fontana.
Visita virtuale: Dal momento che la certosa non è visitabile, è stato realizzato all’interno delle mura del monastero, ma isolato dalla clausura, un Museo che dal 1994 aiuta il visitatore ad avere un’idea di come è fatta la struttura e gli consente di entrare in contatto con l’esperienza dei monaci. Quella proposta, spiega il direttore Fabio Tassone, “ è una sorta di visita virtuale e, nel contempo, un percorso spirituale attraverso l’esperienza di fede che ancora oggi continua nello stesso sito da circa 900 anni “. Attraverso apparati descrittivi e multimediali, che si sviluppano in 20 stanze su un unico piano di 1200 metri quadrati, e grazie alla ricostruzione degli ambienti del monastero, “ si conduce chi visita il Museo all’esperienza del silenzio e della contemplazione per come vengono vissuti nell’esperienza certosina”.

Il mistero della vita certosina.
Un’esistenza speciale, quella dei monaci. Dei tredici che vivano nella Certosa, il più giovane ha 50 anni e il più anziano 70 (al 2013) , non mangiano mai la carne, e in alcuni periodi nemmeno i latticini. Senza televisione né radio, la comunità viene informata sulla vita della chiesa e su ciò che succede nel mondo attraverso i settimanali e dal priore sulle notizie dei quotidiani.

Come arrivare a Serra Bruno:
In auto percorrere l’autostrada A3 Salerno Reggio Calabria e uscire a Pizzo Calabro se provenienti da nord, a Serra se provenienti da sud. Imboccare la strada statale 110 fino a Serra San bruno.


lunedì 11 marzo 2013

ABBAZZIA DI MARIENBERG (Trentino)


N°3) Itinerari, luoghi della fede
ABBAZIA DI MARIENBERG
Abbracciata dal verde della foresta, è una goccia bianca tra le montagne della Val Venosta, in Sudtirol. Pace, serenità e aria buona.
E’ il convento benedettino più alto d’Europa: a 1300 metri di quota, nel cuore dell’Alto Adige Sudtirol, incastonato nel Monte di Maria, è sempre stato un vero e proprio faro per tutta la valle e fa tutt’oggi da crocevia tra Italia, Svizzera e Austria.
Un po’ di storia: Eretta nel XII secolo, grazie ad una donazione da parte dei nobili Tarasp, un’antica famiglia svizzera, l’abbazia di Marienberg, dietro le sue alte mura bianche di calce che la rendono simile ad una fortezza, è uno dei centri di fede, scienza e arte più importanti del Vecchio Continente.
Il complesso dell’abbazia, di proprietà della congregazione benedettina svizzera, sorge dove un tempo c’era una cappella dedicata alla Vergine. Racchiude la chiesa, la cripta, un giardino ed un chiostro, costruito in epoca barocca e decorato da affreschi di Jacob Dreher. L’ordine fu fondato intorno al 1090 nella bassa Engladina a Scuol, in Svizzera, dai nobili fratelli Eberhard e Ulrich I di Tarasp. A causa di avvenimenti avversi, i monaci benedettini furono poi costretti a cambiare sede per trasferirsi qui nel 1146.
Prima di divenire un convento dove oggi vive una comunità di 13 monaci seguendo la regola dell’ora et labora, la struttura ha ospitato un ginnasio, fondato nella prima metà del XVIII secolo dai monaci di Merano. Nonostante numerosi incendi, i saccheggi e la chiusura dell’abbazia in epoca napoleonica e fascista, Mariemberg è rimasta un luogo mistico e ricco di tesori, tra cui le reliquie di santa Emerenziana, onorata dal 1630 come seconda patrona della chiesa del convento. Accedendo al cortile, abbiamo da una parte l’economato e il museo, dall’altra i luoghi della preghiera e un antico mulino dove in passato i monaci concretizzavano la regola con il lavoro manuale.
Oggi i consacrati si dedicano all’attività pastorale nelle parrocchie  di Burgusio e Slinga, ma anche alla cura spirituale dei pellegrini. “ Chi viene qui, spiega padre Martin Angerer, archivista dell’Abbazia, cerca la pace, l’atmosfera e l’aria buona.
La chiesa conventuale: Risalente al XII secolo, la chiesa romanica a tre navate è stata trasformata nell’attuale forma barocca mediante interventi voluti dall’Abate Jiakob Grafinger nel 1643 e nel 1648. La chiesa conventuale, dedicata a Nostra Signora, è l’unico esempio in Val Venosta, di Basilica a pianta rettangolare con tre navate separate da colonne. In passato le navate erano addirittura cinque, ma le due a est sono state separate e trasformate in coro, sacrestia e cappella dell’abate. Pregevole il campanile a bulbo e il portale romanico del 1200 con la bella madonna nel timpano dell’arco e all’interno gli affreschi e gli stucchi nello stile della scuola di Wessobrunn. Dal XIX secolo, esclusi alcuni interventi risanatori dei danni arrecati dopo la chiusura in era napoleonica, l’edificio non ha subito modifiche rilevanti. Il quadro dell’altare maggiore, cos’ come il pulpito, appartengono all’arredo originario. Sopra la chiave d’arco, a mo’ di promemoria, è possibile ammirare otto grandi statue raffiguranti i fondatori ed i santi appartenenti all’ordine, ciascuno con i segni con cui vengono raffigurati. Pertanto della parete nord della navata centrale, si vedono San bruno, fondatore dei cartesiani, col libro a teschio, San Domenico di Clairvaux dei cistercensi con gli strumenti della passione di Cristo e San Benedetto con la coppa avvelenata, il corvo e il pane. Sul lato sud, si trovano le nicchie di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei gesuiti, con il libro e l’ostensorio, San Francesco con il teschio ed il crocifisso, San Norberto, fondatore dei premostratensi , con il ciborio, Sant’Agostino con il bastone vescovile e un bambino.
La Cripta: Rimasta intatta nel corso della travagliata storia dell’Abbazia, è la parte più antica dell’intero edificio. Scavata nella roccia, con i suoi affreschi romanici dagli influssi bizantini raffiguranti angeli che invitano alla preghiera è il più significativo monumento romanico nel Tirolo. Il vano nascosto, seminterrato, è incassato nella roccia con vista dall’abside sulla vallata ed è circondato da muraglioni di pietra. Consacrata nel 1160 dal beato Agalgod, vescovo di Coira, inizialmente la cripta era dedicata al culto. Vi si celebravano le messe e vi si recitavano le preghiere corali. Oltre all’Abside, dedicata alla Santissima Trinità, alla madre di Dio e a tutti i santi, ci sono tre altari dedicati ai santi Pietro e Paolo, alla Maddalena, a Martino e Niccolò. Dal 1643 fu adibita a luogo di sepoltura dei monaci e per questa ragione gli affreschi, anonimi, non sono stati visibili fino alla rimozione degli inserti tombali, avvenuti nel 1980. Le volte, ad altezza d’uomo, consentono una visione ravvicinata dei dipinti, nei quali cromaticamente prevale il blu. Ottenuto dalla pregiata polvere di lapislazzuli.
Cristo in trono e l’annuncio della parola: Nella volta dell’abside della cripta domina, avvolta da una mandorla di luce, la figura di Cristo pantocrator, ossia sovrano di tutte le cose, in gloria tra angeli e santi.
Gesù irrompe nell’eternità seduto su un arcobaleno, con un libro aperto e la mano benedicente. L’affresco rimanda l’annuncio della parola. Il figliod i Dio è circondato dagli angeli e dagli animali simbolo degli evangelisti: leone (Marco), toro (Luca), angelo (Matteo) e aquila (Giovanni).
A differenza degli angeli, che poggiano i piedi su panchette colorate, gli evangelisti, così come Paolo e Pietro, sono senza base. Sono adagiati su una fascia marrone decorata con piante che richiamano la sfera terrena. A fare direttamente riferimento al convento è la raffigurazione nella nicchia della finestra absidale, delle due martiri Santa Panafreta e Climaria, le cui reliquie furono trasportate da Colonia a Maienberg da Ulrich III di Tarasp, benefattore del convento.
La cripta, visitata da Papa Benedetto XVI l’11 agosto del 1980 quando era ancora il cardinale Joseph Ratzinger, è adoperata oggi solo per le preghiere dei monaci.
D’inverno è chiusa, ma da giugno a ottobre, dal lunedì al sabato, è possibile assistere alla celebrazione dei Vespri.
La stanza dei principi: Segno tangibile del rinnovamento spirituale e, al tempo stesso, dello sviluppo economico vissuto dall’abbazia nella prima metà del Seicento, la stanza dei principi è interamente ricoperta di affreschi in stile tardo rococò commissionati dal prelato Franz Maria Dinsl. Si tratta del luogo in cui venivano accolte le grandi personalità. Non mancano i riferimenti alla fede e alla spiritualità.
Gli affreschi raffigurano i vari momenti della giornata: la mattina con il sole che sorge, l’ora media con il sole in alto, la sera con il tramonto, e la notte con la luna, le stelle e gli angeli che vegliano sul riposo delle persone. Il risultato è quasi una catechesi per immagini concepita per ricordare i momenti principali della preghiera che scandiscono la giornata dei monaci.
Il Museo di Marienberg:
Conserva la casula in lino ricamato di Uta Von Tarasp, che morì monaca a Gerusalemme, e la cronaca del monaco Goswin, che rappresenta la principale fonte storica sui primi 200 anni del convento. Il museo dell’abbazia di Marienberg, sorto nel 2007, cui si accede dal pianterreno, è progettato in modo che si possa visitare senza guida. Tutte le descrizioni e i filamti sono bilingui, spiega la direttrice Annemarie Schwarz.
La prima stanza è dedicata a San benedetto, Nella seconda ci si può fare un’idea della vita quotidiana dei monaci qui a Marienburg sia tramite un filmato, sia mediante l’osservazione di diversi oggetti.
Lungo il corridoio si trova una tavola cronologica con i più importanti avvenimenti della storia abbaziale. Con l’aiuto dei travetti bianchi, si può vedere il numero di monaci presenti nel convento durante gli anni. Le sorprese non finiscono qui. Per centinaia di anni i monaci hanno raccolto con cura e assiduità gli oggetti più diversi, li hanno ordinati e custoditi. Oggi possiedono una collezione di minerali che conta ben mille pezzi, provenienti per la massima parte dalle regioni del Nord e Sud Tirol e del Cantone dei Grigioni, prosegue la direttrice, presentando l’esposizione dal pregevole gusto estetico e dalla notevole importanza scientifica.
La collezione di materiale didattico, aggiunge, comprende minerali provenienti da tutto il mondo e una grande quantità di modelli per la dimostrazione e gli esercizi dei sette sistemi cristallografici.



Come raggiungere l’abbazia: In auto, imboccare l’autostrada A22 direzione Brennero, uscire a Bolzano sud in direzione Merano. Proseguire per 60 chilometri, attraverso la val Venosta, lungo le strade statali 38 e 40 in direzione passo Restia fino a Malles. Da qui proseguire per Borgusio, frazione a pochissimi chilometri dall’abbazia.

venerdì 8 marzo 2013

CATTEDRALE DI OTRANTO, Puglia


(N°2) Itinerari, luoghi della fede
CATTEDRALE DI OTRANTO
Fiore del Salento, alla scoperta della porta millenaria fra Occidente e Oriente  dove centinaia di uomini sono andati incontro alla morte pur di non rinnegare la loro fede cristiana.

Circondata per tre quarti dal mare, s’innalza con le sue vecchie case oltre le mura che la disegnano come la città più a est della penisola. A guardia del canale omonimo e anello di congiunzione con le vicine Albania e Grecia, Otranto è la soglia che l’umanità ha varcato per secoli nella sua primitiva marcia verso l’Europa. La Cittadina, in provincia di Lecce, è stata dapprima centro messapico e romano, poi bizantino, più tardi aragonese.
Conta quasi sei mila abitanti . Sul Colle dei Martiri, dove ottocento otrantini, durante l’assedio del 1480, preferirono morire per mano turca anziché rinnegare la fede, oggi sorgono la chiesa di Santa maria dei Martiri e il monastero di San Niccolò.
La chiesa ferita dai Turchi: Edificata sotto la dominazione normanna nel 1088, durante il papato di Urbano II, la cattedrale, intitolata a Santa Maria Annunziata, concilia armoniosamente elementi bizantini, romanici e gotici. Sorge sui resti di un villaggio messapico, di una domus romana e di un tempio paleocristiano. E’ stata fortemente rimaneggiata in seguito alle devastazioni turche. Sulla facciata spiccano un portale barocco risalente al 1674 e un rosone di epoca rinascimentale formato da sedici colonnine in pietra leccese disposte attorno ad un nucleo in stile gotico. Il tetto è ricoperto in legno con decorazioni dorate, mentre l’interno, diviso in tre navate da colonne in granito e marmo, ospita sulle pareti affreschi in stile bizantino. La cripta dell’XI secolo, che si snoda nell’area sottostante, è una miniatura della “ basilica azzurra” di Costantinopoli. E’ accessibile tramite due scalinate.
Sulla navata destra sono conservati, in sette grandi teche, i resti degli ottocento martiri. Dietro l’altare è deposto il sasso utilizzato per la loro decapitazione.
Uno spirito moderno: Se le ossa dei martiri sono prova tangibile della consacrazione spirituale della città pugliese e dell’intero Salento, l’elemento più importante della Cattedrale, che raccoglie in se fede, storia, cultura, bellezza e mistero, è il mosaico pavimentale. Realizzato con tasselli di calcare dal monaco Pantaleone, si compone di oltre 600mila pezzi, si estende per circa sedici metri e ricopre per intero il pavimento della chiesa.
Non è solo la dimensione a renderlo unico e a promuoverlo come il più grande d’Europa: i tasselli dell’Albero della vita sono stati testimoni del massacro dei beati martiri. Esso assume un valore eccezionale per il suo messaggio universale e unitario, per la perfezione della forma a croce e per l’armonica compresenza di elementi culturali venuti dal nord Europa, dal mondo giudaico, cristiano, musulmano e buddista. Capolavoro unico dell’arte pittorica medioevale, riflette l’umanesimo  del suo autore e il pensiero di una società ancora perfettamente capace di cogliere l’unità nella verità.
Il mosaico della cattedrale sembra percorrere lo spirito del Concilio Vaticano II, rappresentando in forma visiva l’umanesimo integrale o, come amava chiamarlo papa Paolo VI, l’umanesimo planetario che favorisce lo sviluppo di tutti gli uomini.
Un curioso rapimento: All’interno della Cattedrale, nel cappellone dei martiri, è collocata una statua legnea della madonna delle Grazie risalente al XIV secolo, che fu coinvolta nella presa turca della città. Ad attestarlo, un episodio che la tradizione e la religiosità popolare tramandano da secoli: avendo un turco notato la bella statua e pensando fosse d’oro, la prese come bottino di guerra e la portò con se a Valona. Li si accorse che era semplicemente di legno e, deluso, la mise da parte come cosa di poco valore.
Nei pressi viveva una giovane schiava otrantina, che soffriva per il trattamento riservato alla Madonna proveniente dalla sua città. Quando, durante un parto, la moglie del turco era in pericolo di vita, la schiava disse all’uomo che per guarirla avrebbe dovuto liberare la statua che teneva sotto il letto e restituirla a Otranto. Guarita la donna, il turco affidò al mare la statuetta, che da alcuni pescatori fu vista giungere sulle coste salentine.
Il Monastero di Clausura: Nel luogo del martirio degli ottocento beati, una comunità di venti sorelle clarisse prega perché quella violenza non si ripeta più. Lo stesso accade al di la dello stretto canale di Otranto. Settante chilometri dividono questa comunità dalla gemella fondata nel 2003 in Albania, a Scutari, in un ex carcere del regime comunista. Le religiose si trovano al cuore di problemi d’attualità anche nei monasteri di clausura, spiega l’abadessa, suor Diana Papa.
Dove c’è fraternità che prega, che perdona e si riconcilia, che fa dono nella gratuità, lì si rende visibile la presenza di Dio nella storia del villaggio globale. L’esistenza di una religiosa che si impegna a vivere la regola di Santa Chiara è caratterizzata soprattutto dalla preghiera e dal lavoro. La vita contemplativa continua ad affascinare con la sua radicalità, dice suor Diana Papa, ammettendo la piacevole sorpresa sperimentata dai giovani che si recano in monastero per un esperienza di ritiro. “ Non avevo mai ascoltato il silenzio, ci dicono alcuni”.

IL FATTO STORICO
I beati ottocento martiri
E’ il 28 luglio 1480 quando un esercito di 15 mila soldati turchi su 140 navi, provenienti dalle coste albanesi per invadere la penisola italiana, assedia Otranto. Nonostante l’eroica resistenza opposta dagli abitanti, dopo tre settimane la città cade nelle mani degli invasori che la saccheggiarono e uccidono l’arcivescovo Stefano, i canonici, diversi sacerdoti e numerosi fedeli riuniti nella cattedrale. Gran parte della popolazione viene sterminata, mentre gli ottocento maschi adulti sopravvissuti sono portati sul Colle della Minerva, dove si trova l’accampamento turco. Il comandante Gedik Achmed pascià, ordina loro di rinnegare la fede cristiana.
Antonio Primaldo, umile calzolaio o cimatore di panni, a nome di tutti i cristiani prigionieri dichiara che essi ritengono Gesù Cristo il figlio di Dio e che piuttosto vogliono mille volte morire che rinnegarlo e farsi turchi.
Di fronte a questa risposta, Achmed Pascià li condanna tutti a morte. Primaldo e compagni sono subito riconosciuti martiri della popolazione.
La chiesa locale, ogni anno, il 14 agosto, celebra devotamente la loro memoria. Nel 1988, l’arcivescovo di Otranto nomina una commissione storica e negli anni 1991-1993 celebra  l’inchiesta diocesana, riconosciuta valida dalla congregazione delle cause dei santi nel 1994. Nel 2007, Benedetto XVI approva il decreto con cui si riconosce che i beati Antonio Primaldo e compagni sono stati uccisi per la loro fedeltà a Cristo. Infine il 20 dicembre 2012 , il papa autorizza la Congregazione a pubblicare il decreto riguardante un miracolo attribuito all’intercessione dei martiri di Otranto, che saranno presto canonizzati.

IL MOSAICO DELLA CATTEDRALE
Il mosaico di Otranto è la più grande opera musiva pavimentale mai eseguita in Europa, realizzata con oltre 600mila tessere calcaree. Le poche certezze rimaste immortalate in tre iscrizioni di questo enorme tappeto policromo dalla simbologia eclettica, riguardano la data di realizzazione (1165), il committente  (Gionata, arcivescovo di Otranto) e l’autore (il prete Pantaleone).
Una miscellanea difficile da decifrare: Oggetto di studi che cercano di svelarne la complessità esegetica, il mosaico è una mescolanza di elementi tratti dal Vecchio Testamento (assenti, e questo è davvero insolito per una chiesa cristiana, riferimenti neotestamentari), dai Vangeli Apocrifi, dalla Cabala ebraica, dal misticismo cristiano della gnosi, dall’esicasmo greco orientale, che rappresentano una summa rara delle conoscenze culturali e teologiche medievali. L’organizzazione della narrazione nel suo complesso è coerente e il progetto compositivo della parte centrale unitario.
Lo si comprende se si effettua una lettura dell’opera partendo non dall’ingresso verso l’altare, come sarebbe usuale, ma dall’abside, dove trovano logica collocazione le storie di Giona. Nella navata centrale la superficie è dominata da un tronco, comunemente identificato con l’Albero della Vita, ma che potrebbe essere anche un metaforico percorso di conoscenza (gnosi) . L’Albero è senza radici, per sottolinearne il carattere spirituale, e poggia su due elefanti, simbolo di forza e stabilità. Tutto intorno una progressione di scene bibliche: la costruzione della torre di Babele, il diluvio universale, la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, Caino e la sua triste vicenda fratricida.
Gli elementi mistici si mescolano a quelli reali con immagini ispirate all’inesorabile scorrere della vita tra i cicli della natura e del tempo, raccontate attraverso la raffigurazione dei mesi dell’anno e dei simboli dello zodiaco, che alludono alle capacità creative dell’uomo. A simboleggiare invece la bramosia di grandezza della natura umana, compare Alessandro Magno. Nelle seminavate laterali Pantaleone riproduce da un lato il giudizio universale, dall’altro allegorie di animali mitologici e mostri, mentre nella zona presbiterale, racchiusi in 12 tondi, i vizi e le virtù.
Disorienta invece la quantità di elementi apparentemente fuori contesto, ancora oggi indecifrabili, che l’opera musiva nasconde. Tra i tanti, il gatto con gli stivali, la Dea Diana e re Artù.
Almeno così dice l’iscrizione posta accanto ad un uomo che monta un ariete e brandisce un bastone al posto della spada, circostanze che aprono discussioni sulla reale identità di quel personaggio. Ma ad avallare la bontà della scritta ci sono un centauro con una scacchiera in testa, simbolo templare, e il Santo Graal ovvero la conoscenza che rimanda a quel discusso albero centrale.
Come arrivare ad Otranto:
In auto imboccare da Lecce la tangenziale fino all’uscita Otranto, Maglie, Leuca. Giunti a Maglie, percorrere la statale 16 Maglie-Otranto per 15 chilometri.

martedì 5 marzo 2013

ABBAZIA DI PIONA


N 1) Itinerari, luoghi della fede
ABBAZIA DI PIONA

Tesoro di arte romanica. Racchiusa tra i monti e il lago di Como, da secoli è metà di chi cerca pace e spiritualità

Come una gemma incastonata tra il verde delle montagne e l’azzurro del cielo, l’Abbazia di Piona si adagia sulla sponda lecchese del lago di Como, nel territorio del comune di Colico, frazione di Olgiasca, sul promontorio roccioso che degrada verso il laghetto semichiuso formato da una strozzatura naturale.
Noto anche come “ priorato di San Nicola”, l’importante e massiccio complesso religioso è considerato un gioello del romanico lombardo. Fondata dai monaci cluniacensi attorno alla chiesa di San Nicola, costruita sui resti di un oratorio edificato dal vescovo di Como Agrippino nel VII secolo, la struttura fu trasformata in commenda secolare prima di venire soppressa nel 1798 e poi restaurata all’inizio del nostro secolo. La prima documentazione storica di questa terra è costituita dal “Cippo di Agrippino”, su cui è stato scolpito che il Vescovo, nel decimo anno del suo mandato, fece erigere un oratorio dedicato a Santa Giustina martire, lo completò in ogni sua parte, ne fece sistemare le sepolture e ne celebrò la dedicazione.
L’Abbazia è oggi di proprietà dei monaci cistercensi della congregazione di Casamari, ai quali fu donata nel 1938 dalla locale famiglia Rocca, che intendeva così onorare una coppia di parenti morti due anni prima in un cantiere vicino a Mai Lahla, in Etiopia.
La chiesa di San Nicola: Le statue solenni di San Benedetto e San Bernardo accolgono il visitatore del complesso, che attualmente è formato dalla chiesa, al cui fianco sorge un campanile ricostruito nel settecento, e dai resti di una porzione di abside attribuito all’oratorium voluto da Agrippino.
Due leoni di marmo sono posti a guardia dell’ingresso della chiesa a pianta irregolare, che risale al XI secolo e costituisce un tipico esempio di edificio comacino in pietra squadrata.
Gli affreschi dell’abside, parzialmente ricoperti da stucco, raffigurano Gesù inscritto in una mandorla che, dall’esteroascendendo al cielo, giudica l’umanità con il libro della verità aperto. Frammenti di affreschi del duecento legati alla tradizione bizantina sono visibili sulle pareti, che culminano nel soffitto ligneo.
La tela in rilievo: Sulla parete a sinistra dell’unica navata è collocata una tela molto venerata di telemaco Pergola (Roma, 1869-1953): la Regina Pacis, che offre al mondo il bambino dal corpo allungato e con le braccia allargate in una postura che richiama la croce. Ai piedi del trono semicircolare, due personaggi in ginocchio, rivestiti di armature, depongono le armi ai lati di un volume spalancato dal quale si possono leggere le parole di cristo: “ Egoautem dico vobis: diligite inimicos vestros” (Ma io vi dico: amate i vostri nemici).
La particolarità della tela, che fu dipinta in occasione di un concorso bandito a Roma dalla Santa Sede al termine della prima guerra mondiale, è che l’elsa della spada  e il mantello sono in rilievo.
Una comunità stanziale: La comunità monastica di Piona è formata da diciotto uomini che, data l’appartenenza a un ordine che è una diramazione di quello benedettino, seguono la regola dell’ora et labora. La liturgia viene svolta con la sobrietà e la solennità tipiche della tradizione cistercense accompagnata dal canto gregoriano. “ I momenti di preghiera, dal mattino fino al compieta, sono sempre aperti a chi vuole condividere con noi l’ora liturgica”, spiega il priore dell’abbazia, padre Ludovico Valenti, originario della provincia di Brescia, che a Piona viene ininterrottamente dal 1967.
La zona molto silenziosa e tranquilla, favorisce la preghiera e la riflessione. Ogni anno accogliamo circa ventimila visitatori, che nei mesi estivi provengono soprattutto dall’estero”. Inoltre, è possibile organizzare ritiri spirituali per piccoli gruppi: “ Il semplice turista viene attratto dall’amenità del luogo, ma, sottolinea, c’è chi viene alla ricerca di un consiglio da parte dei monaci o per incontrare Gesù. E poi riparte con qualcosa in più nell’anima.
Un chiostro ricco di simboli: Oltre a raccogliere degli affreschi in stile gotico raffiguranti scene di draghi e martiri, e un calendario figurato da contadini e scene campestri legati ai mesi dell’anno, il chiostro di Piona, che risale al 1252, è il punto di riferimento della vita dei monaci e ha una sua originalità: nonostante la forma quadrangolare, presenta una pianta irregolare. Infatti, se a disegnare il perimetro vi sono, complessivamente, quaranta colonnine, il numero di queste varia su ogni lato: undici a ovest, dieci a nord, dodici a est e otto sul versante sud. Così come richiesto dalla tradizione, anche a Piona, per il monaco benedettino, il chiostro è porta coeli , disseminato dei simboli che servono da ammonimento ed edificazione per la vita spirituale. Se le decorazioni dei capitelli sono tutte diverse, ricorrente è la raffigurazione dell’aquila, l’unico animale in grado di guardare il sole, e di conseguenza il volto di Dio. Quanto alle immagini che affrescano il chiostro, alcuni serpenti con testa di donna rivolgono ai monaci un monito a guardarsi dal peccato carnale, e alla purificazione della terra verso un mondo nuovo allude la raffigurazione del diluvio universale, con l’acqua come simbolo di distruzione del male.
Più gioiosi gli affreschi del calendario, che fanno riferimento ai ritmi della natura: a Luglio la preparazione delle spighe, a giugno la mietitura, ad aprile una donna che stringe dei fiori a se, a febbraio la potatura degli alberi e a gennaio il sacrificio del maiale.
Infine, un’immagine di San benedetto che fugge da una donna, l’ultima sua vera tentazione, alla quale riuscì a sottrarsi solo gettandosi nudo tra i rovi e le ortiche.
La sala capitolare: Sul lato orientale del chiostro, secondo la pianta tipica dei monasteri benedettini, si sviluppa la sala capitolare, il luogo in cui la comunità si raduna per la lectio divina, le conferenze spirituali, l’elezione del superiore, l’ammissione dei postulanti al noviziato e la discussione dei problemi della vita comunitaria. Qui, più che altrove, la comunità monastica percepisce con chiarezza di formare una famiglia e di compiere un cammino insieme. L’aula, ampia e luminosa, è arredata con stalli e spalliere in legno di scuola veneziana del XVIII secolo, provenienti dalla sacrestia della Basilica di San zeno a Verona. Alcuni pannelli sono impreziositi da figure intarziate, e particolare attenzione meritano, sullo stallo centrale, il sole che irradia luce sulla terra e le figure di Adamo ed Eva cacciati dal paradiso.
La distilleria: L’opera dei monaci, benché immersa nel silenzio necessario al dialogo con Dio, non è mai oziosa e inoperosa, bensì sempre protesa a quel salutare equilibrio tra corpo e mente assicurato dal lavoro creativo. I monaci cistercensi di Piona, in osservanza alla regola, coltivando una superficie di circa tredici ettari, procacciano il necessario per se, per la parrocchia di Olgiasca e per la missione in Africa e Brasile. Tra i prodotti, pregiati liquori ricavati da erbe aromatiche secondo ricette tramandate dai primi monaci, e alcune tisane.

Comunità nei dintorni: IL GABBIANO E LA MALPENSATA.
A circa un chilometro e mezzo dall’abbazia si trova la Malpensata una villa cinquecentesca immersa nel verde e nel silenzio. Antico epicentro della vita economica e sociale del monastero e delle poche famiglie di Olgiasca, è concessa dalla comunità monastica alla onlus “ il Gabbiano”, che ne ha fatto un centro per il recupero dei giovani tossicodipendenti.
La comunità terapeutica attualmente (2013) ospita ventiquattro persone  con problematiche  legate all’abuso di sostanze stupefacenti e alcool , accolte attraverso segnalazioni da parte del servizio pubblico, provenienti dalla famiglia, dal carcere e dalla strada.
Qui viviamo il miracolo della vita che ricomincia mediante l’accoglienza, racconta Carola Molteni, responsabile della comunità per la sede di Piona: “ Con i nostri ospiti, giovani e adulti, uomini o donne che siano, costruiamo progetti basati sulla responsabilizzazione, occupandoli in attività legate alla gestione della struttura: i compiti vengono suddivisi quotidianamente dalla cura dell’orto e del giardino fino ai servizi interni. La riabilitazione, insomma, passa dal lavoro e dalla condivisione”.

Come arrivare all’ABBAZIA di Piona:
In auto, percorrere da Milano la statale 36 dello Spluga, uscire all’omonima uscita e dirigersi a sud, verso Dorio. Dopo poco più di 3 chilometri c’è la deviazione a destra e, passata Olgiasca, si scende verso l’abbazia.
Si può arrivare anche via lago prendendo il battello (due corse al giorno) a Como o Lecco, da cui dista 37 chilometri.