GLI EGIZIANI
“ Egitto dono del Nilo” : questa antichissima definizione è ricca di un profondo significato . Non è possibile infatti parlare dell’Egitto e trascurare questo straordinario fiume, sulle cui rive nacque una delle più alte civiltà di tutti i tempi, in un epoca in cui tutta l’ Europa era ancora ferma all’età della pietra. L’enorme quantità d’acqua, le piene colossali, l’irruenza delle alluvioni, che presso altri popoli sarebbero state motivo di terrore, erano viste dagli Egiziani con il cuore colmo di riconoscenza e di fiducia nella vita. “ I campi ridono, le rive sono inondate . I dono degli dei scendono dal cielo. Il volto degli uomini si illumina, il cuore degli dei si rallegra”. In queste parole, che cinquemila anni fa un poeta aveva scritto su una piramide, sono perfettamente riassunti i sentimenti di stupore e di riconoscenza del popolo egizio verso il padre Nilo. Uscendo periodicamente dagli argini, le acque coprivano l’immensa pianura e vi depositavano il limo prezioso, ricco di quelle sostanze che avrebbero reso le messi rigogliose . Il sole , eternamente splendente, completava il miracolo: in un anno erano possibili anche due raccolti.
Circa nel 3400 prima di cristo i due regni dell’alto e del basso Egitto si uniscono in un unico impero. Inizia l’Antico Impero che dura all’incirca dal 3400 al 2100 a .C. e durante il quale si succedono quattro dinastie di faraoni. La capitale è Menfi.
Dal 2100 al 1580 a .C. si svolge il così detto Medio Impero. Vi succedono otto dinastie, dalla VII° alla XIV°. Le capitali sono prima Menfi, poi Tebe.
Circa nel 1660, popoli di oscura provenienza, gli Hyksos, occuparono l’Egitto e lo dominano per circa 120 anni.
Nel 1580 il faraone Ahmose I scaccia gli Hyksos e da inizio al cosiddetto Nuovo Impero, che durerà dal 1580 al 332 a .C. Si succedono in questo periodo quattordici dinastie, dalla XVII° alla XXX° . Le capitali sono dapprima Tebe , poi Sais.
Fra il 1475 e il 1442, con Thutmes III, forse il più grande dei faraoni, l’Egitto ha massima estensione, giungendo all’Eufrate.
Fra il 670 e il 667 a .C. il re Assiro Asarhaddon e suo figlio Assurbanipal conquistano l’Egitto, che rimane sotto il dominio Assiro fino al 6123.
Nel 525 a .C. il re Persiano Cambise occupa l’Egitto che rimane sotto la Persia fino al 332.
Nel 332 l’Egitto è occupato da Alessandro magno.
Quando l’Egitto cominciò ad avere una sua religione ufficiale, le divinità riconosciute dallo stato erano nove , raggruppate nella famiglia divina, detta appunto Ennead, che significa nove: Atum il creatore, Shu dio dell’aria, Tefnut dea dell’acqua , Geb dio della terra, Nut dea del cielo, Osiride, Iside, Seth, e Nephtys. Di un culto particolare furono adorati, col passare del tempo, Osiride e Iside. Ricche di suggestione sono le storie che fiorirono intorno a queste due figure divine, marito e moglie. Solo per esse il sentimento religioso degli Egizi, abitualmente così distaccato e severo, si caricò di accenti umani, addirittura patetici. Osiride viene raffigurato spesso col volto dipinto di verde perché in origine era il dio della vegetazione e di ogni cosa vivente sulla terra; e proprio questo fu la causa di tutti i suoi guai: succedendo nell’alto incarico a Geb, dio della terra, aveva involontariamente mosso l’ira e la gelosia del fratello seth, che lo aveva ucciso e gettato nel Nilo. La fedele Iside però si era buttata nelle acque vorticose e aveva recuperato il corpo del marito. Cieco di odio, Seth aveva poi tagliato il corpo del fratello in quattordici parti, ma Iside lo aveva ancora una volta trovato e ricomposto. Osiride era diventato così il Dio dei morti, e suo figlio Horo il dio dei viventi . I faraoni stessi erano adorati come Horo in vita e come Osiride in morte.
Ma la divinità che presso gli Egizi godette di un vero culto universale fu senza dubbio Ra, il sole . Le innumerevoli testimonianze del suo potere erano talmente vive e così vicine all’esperienza di ogni giorno che tutti si sentivano in qualche modo legati a lui. Il beneficio calore, la luce vitale e quindi la rigogliosità delle messi e le possibilità della sopravvivenza umana dipendevano dal sole, da Ra. In suo nome erano sorti diversi culti, era stata costruita una città, Elaiopoli (città del sole) , a lui vennero perfino sacrificate vite umane. Nulla sembrava troppo degno per un dio tanto potente.
Una delle caratteristiche di Ra era quella di assumere vari aspetti: a seconda delle particolari preferenze di una città o di singole persone , egli veniva accoppiato con l’immagine di qualche divinità locale. Diventava così, di volta in volta, falco, ariete, uomo, scarabeo e perfino piramide. Aton-Ra, cioè Ra disco del sole, fu l’incarnazione che trovò forse il maggior numero di seguaci, per merito anche del faraone Amenophi IV. “ Tu splendi di bellezza, signore degli dei. Belle sono le cose che hai creato sulla terra “, è inciso su una piramide. Furono molti, del resto, i faraoni che si proclamarono figli di Ra e instaurarono per questo Dio un culto particolare.
Il fanatismo di Amenophi IV per il dio Aton-Ra non era ingiustificato: in un periodo di sfrenato politeismo (adorazione di molti dei) , il giovane faraone si era impegnato in una tremenda lotta nell’affermazione di un monoteismo (adorazione di un solo dio) che avesse appunto in Aton il suo rappresentante. Per questo aveva anche cambiato nome aveva voluto chiamarsi Eknaton , colui che piace ad Aton. In questa sua coraggiosa opera lo assisteva la bellissima regina Nefertiti che con lui, alla fine, condivise il dolore della sconfitta. Mentre il sogno di una unità religiosa si andava spegnendo, l’Egitto si avviava alla conclusione della sua esistenza. Mancava circa 1300 anni alla nascita di Cristo.
La commovente leggenda di Osiride e di Iside ebbe influenze notevoli nella politica dell’Egitto. Le ingiustizie e le sofferenze patite da lui, l’eroica fedeltà di lei, la simpatia e la tenerezza che emanavano dalle loro tragiche vicende, così umane, tanto simili a quelle di ciascun mortale, portarono a una rapidissima diffusione del loro culto.
Già simboli di vita, protettori degli esseri viventi sulla terra e passati contro la loro volontà a governare il misterioso e oscuro mondo dei morti, Osiride e Iside ebbero in sorte di potere avere un figlio. Nelle silenziose paludi di Kemmis, lontani da occhi indiscreti, gli eroici e sventurati consorti diedero alla luce Horo. Lo allevarono segretamente perché sfuggisse alle ire del terribile Seth. Divenuto grande Horo vendicò il padre e divenne re dei viventi: i genitori poterono così avere la consolazione di veder trionfare di nuovo la loro divina progenie.
La dottrina religiosa che si fondava sul divino Ra, faceva discendere i faraoni dal sole. L’alba e il tramonto dell’astro dio simboleggiavano l’eterna vita del faraone divino. In ogni circostanza civile e religiosa nessun Egizio poteva dimenticare che al vertice di ogni potere sulla terra stava il dio-re. E come c’erano le colossali piramidi composte di enormi blocchi sovrapposti l’uno a l’altro, così nella società egizia esisteva una massiccia piramide di funzionari, ministri e sacerdoti al sommo della quale il dio-re dominava con potere assoluto. L’intangibilità del vertice massimo di questa piramide , cioè il faraone , garantiva la stabilità e la sicurezza di tutta l’organizzazione gerarchica.
Innumerevoli erano i compiti che spettavano al faraone per diritto divino, ma alcuni venivano affidati ai suoi funzionari. Tra questi, uno dei più importanti era l’amministrazione della giustizia.
Gli Egizi, per potere ospitare degnamente il dio-re mentre era in vita, costruirono regge incomparabili , le cui rovine ancor oggi, dopo millenni, lasciano sbalorditi e ammirati i visitatori. La loro imponenza e la loro armonia sono miracoli di perfezione e di bellezza.
Gli Egizi tuttavia credevano anche nell’immortalità, e perciò costruirono per i faraoni defunti tombe altrettanto stupende quanto le regge , ma ancora più massicce e potenti, adatte a sfidare i secoli e i millenni.
Una di queste tombe, meglio sarebbe dire “templi funerari “ viene comunemente chiamata “ Casa dei milioni di anni”, tale è la sua possente struttura. Si trova a Medinet Habu, prossima a Tebe, ed è ancora pressoché intatta dopo tremila anni. Fu costruita infatti 1180 anni prima della nascita di Cristo. Questo magnifico e grandioso tempio dalle mura spesse otto metri fu costruito dal faraone Ramsete III. Il culto a questi tributato però, com’era consuetudine in Editto, veniva esteso contemporaneamente anche a tutti gli dei raffigurati sulle mura del tempio: una interminabile schiera di solenni divinità protettrici.
Nella parte più segreta della costruzione era collocata la tomba, l’urna che doveva conservare per l’eternità il corpo del faraone. I faraoni, i re-dei, che governarono per millenni il civilissimo popolo egizio, furono assai numerosi. Di alcuni si è perduta perfino la memoria, ma di altri non solo sono conosciuti i fatti più importanti della loro vita, ma anche il carattere, i gusti, le tendenze. Di molti sono note le esatte sembianze in quanto vennero effigiati in sculture graffiti e dipinti giunti fino a noi; molte di queste sculture sono addirittura colossali. In tutte le raffigurazioni dei re sono riportati i segni del loro grado e della loro potenza: vesti e paramenti indicano infatti a noi, come indicavano del resto al popolo egizio millenni or sono, i segni dell’autorità. La barba diritta era ornamento rituale dei faraoni , che così si distinguevano dagli dei, raffigurati con la barba ricurva . La corona era simbolo di sovranità: del Basso Egitto se era rossa, dell’Alto Egitto se era bianca. Amenhotep III porta due corone riunite perche sotto il suo regno avvenne l’unificazione dell’Egitto. Il bastone ricurvo era segno di potere. Il serpente sacro raffigurava la potenza di Ra, che contrastava i nemici del faraone.
Per capire quanto fosse importante per gli Egizi l’immortalità, basta considerare la parola “ankh!, vita, che per essi significava nello stesso tempo la vita terrena e quella dell’oltre tomba . Morte e vita quindi erano due aspetti della medesima realtà. Il richiamo della vita terrena esercitava una così forte suggestione sull’animo degli egizi da indurli a credere possibile il godimento delle medesime gioie anche nel regno dei morti. Più che di una morte si trattava del mutamento della vita stessa: bisognava perciò preparare il corpo a sostenere un così lungo cammino. Era infatti credenza degli Egizi che per godere dell’immortalità fosse necessario che il corpo restasse il più possibile intatto: un corpo dissolto non meritava il premio eterno. Nacque così una vera e propria arte dell’imbalsamazione , vale a dire della conservazione dei cadaveri. “ Mummie” erano appunto chiamati i corpi imbalsamati e il dio tutelare di quest’arte era Anubi , guardiano dei sepolcri, raffigurato con la testa di sciacallo.
La delicata operazione di imbalsamazione poteva richiedere fino a due mesi di lavoro. Nella casa perfetta, così veniva chiamato l’apposito laboratorio, prima di tutto si procedeva a togliere le viscere del cadavere e poi, per mezzo di un procedimento di cui si è perduto conoscenza, si ungeva il cadavere con le “ lacrime versate dai celesti per Osiride e Iside. Al di fuori del linguaggio immaginoso degli Egizi queste “ lacrime “ non erano altro che speciali unguenti: mirra, miele, Sali e una specie di bitume che in egizio prendeva il nome di “mum”, da cui appunto derivò il termine mummia. Alla fine il corpo veniva completamente avvolto in candide bende e chiuso in casse lavorate e dipinte, i sarcofaghi. Ancora oggi, dopo quattromila anni, alcune mummie conservano la stessa espressione che avevano quando furono imbalsamate. L’oltretomba immaginato dagli Egizi raccoglieva tutti i giusti in un luogo di pace: nella frescura delle palme e dei sicomori, tra i filari di viti, in mezzo ai canali dei fiumi ricchi di pesce e di selvaggina..
Una delle qualità più straordinarie degli Egizi era la loro intelligenza pratica. Le enormi difficoltà tecniche che i costruttori, quasi sempre sacerdoti, incontravano nell’edificazione dei colossali templi, dovevano prima essere risolte da studi matematici difficilissimi, a quel tempo praticamente sconosciuti ad altri popoli. Nello studio della geometria, intesa come misurazione del terreno, gli Egizi dovettero farsi una notevole esperienza fin dai tempi più antichi, per assoluta necessità. Ogni anno infatti il Nilo, straripando e coprendo enormi estensioni di terreno con uno strato di limo fertilissimo, cancellava tutti i confini preesistenti. Gli agrimensori, cioè i misuratori del terreno, dovevano pertanto ogni anno rifare i calcoli e le misurazioni, in modo da restituire a ciascuno la quantità di territorio coltivabile di sua proprietà. Non era compito facile, e in più lo stato aveva tutto l’interesse a controllare che i calcoli fossero eseguiti in modo perfetto, dal momento che le tasse erano strettamente legate alla quantità di terreno che ciascuno coltivava. Gli agrimensori avevano così due controllori severissimi: i proprietari e lo Stato. La loro abilità nel misurare si basava sul concetto elementare, ma geniale, che qualsiasi figura piana, per quanto irregolare, purché limitata da linee rette, è scomponibile in tanti triangoli: era perciò la scoperta della “ triangolazione”, usata ancora oggi. Altre scoperte nel campo della matematica e della geometria permisero agli Egizi di essere i primi veri architetti dell’antichità. I numeri, per loro erano quasi un rito magico.
Più che nei rotoli di Papiro, i sapienti Egizi lasciarono testimonianza delle loro progredite conoscenze matematiche nelle costruzioni.. Parecchie di queste infatti venivano orientate esattamente verso i punti cardinali, o verso la posizione del sole in determinati giorni dell’anno , o venivano edificate in base a calcoli perfetti in cui ricorrevano certi numeri magici combinati con l’astronomia. La conoscenza degli astri era un’altra specialità degli Egizi, che riuscivano a calcolare esattamente non solo i punti cardinali ma anche molti complicati fenomeni celesti e strutturavano un calendario quasi perfetto. Come gia accennato, si può affermare senz’altro che i primi veri Architetti furono proprio gli egizi, soprattutto perché scoprirono l’enorme valore della pietra come materia prima da costruzione. Questa innovazione fu determinante per la civiltà antica: in seguito, i popoli ebbero un formidabile esempio cui ispirarsi.
Ciò che appunto sorprende di più è come gli Egizi non si siano accontentati semplicemente di usare la pietra per le necessità quotidiane, ma come ne abbiano fatto un uso così largo da riuscire a sfidare i millenni. Alcuni templi e alcune colossali statue furono addirittura scavate direttamente nella roccia. A rendere esteticamente perfette queste meraviglie è l’equilibrio delle parti, una misurata armonia dei complessi e un gusto raffinato d’insieme. Questa modernità artistica fa dell’antico Egitto una perenne fonte di civiltà.
Le piramidi, pur non essendo i più perfetti esempi di architettura in senso strettamente artistico, furono però le costruzioni in cui più si cimentò l’abilità dei tecnici e degli organizzatori egizi. Per avere un’idea della complessità del lavoro basteranno alcuni dati. La piramide del faraone Cheope, cioè la sua tomba, detta anche grande piramide, copre una superficie di 52 mila metri quadrati, è alta poco meno di 150 metri (in origine; le intemperie l’hanno poi abbassata di qualche metro) ed è formata da circa due milioni e 250 mila blocchi di pietra dal peso medio di due tonnellate e mezzo ciascuno. Per la sua realizzazione fu necessario il lavoro trentennale di centomila uomini. Nonostante l’immensa mole, le poche stanze interne sono piccole e raggiungibili attraverso angusti corridoi: tutto è un immensa e massiccia sovrapposizione di blocchi perfettamente squadrati: una montagna di pietra levigata. E’ chiaro che in costruzioni di tali grandiosità era sufficiente un piccolo errore iniziale perché tutta l’opera risultasse compromessa, sia nelle sue linee architettoniche sia nella sua staticità; ebbene, studi recenti provano che la differenza dei quattro lati uguali della base delle piramidi è di soli pochi centimetri.
Il lavoro di preparazione del terreno e dei blocchi era meticolosissimo: con una iniziale zappatura si preparava l’area necessaria e poi si procedeva nella sovrapposizione dei blocchi. Tale lavoro veniva eseguito a forza di braccia, e per mezzo di due pratici sistemi: lo scorrimento dei blocchi su rulli di legno e l’uso di piani inclinati formati di sabbia . Gli arnesi più comuni per levigare i blocchi erano pezzi di silice, scalpelli di metallo e mazze di legno a forma di campana..
Gran parte delle vicende dell’antico Egitto sono giunte fino a noi stupendamente raffigurate in dipinti e sculture. Una prima analisi della pittura e della scultura egizia ci porta a distinguere l’arte ufficiale da quella popolare.. La prima aveva un valore magico-religioso, l’altra era l’espressione dell’animo popolare, naturalmente portato a cogliere l’aspetto piacevole della realtà.
Quando un personaggio importante si faceva ritrarre, era spinto dal desiderio di essere reso immortale: gli dei quindi erano costretti ad ascoltare i suoi desideri.
Se, per esempio, si faceva raffigurare assieme alla famiglia, in luoghi di deliziosa serenità sulle rive del Nilo, attorniato da centinaia di servi, era segno che in questo modo egli desiderava vivere anche nell’aldilà. Lo scopo dell’arte ufficiale era quindi essenzialmente utilitaristico. Le invasioni dei popoli circostanti e le feroci lotte interne, che occuparono il millennio tra l’Antico Regno (2000 a .C) e il Nuovo (1000 a .C.), provocarono però un notevole cambiamento nell’arte ufficiale: la realtà così spesso tragica imponeva un diverso linguaggio, sia agli artisti, sia ai personaggi stessi che si facevano effigiare . I volti dei re, per esempio, presero l’aspetto di vere maschere tragiche; le raffigurazioni di battaglie cominciarono a esprimere non soltanto la gloria del trionfo, ma anche l’aspetto più drammatico dello scatenarsi delle passioni, dell’ira sterminatrice, della morte violenta. Erano le immagini del lento declino politico dell’Egitto. L’arte popolare si esprimeva in forme ingenue, poetiche e a volte perfino umoristiche. Numerosi erano i dipinti raffiguranti contadini intenti al lavoro: mentre tagliano le messi, in atto di raccogliere le spighe dorate; pescatori seminascosti nei canneti che si accingono a ritirare le reti colme di pesce; leggere imbarcazioni di giunco che a vele spiegate risalgono la corrente del Nilo. Erano le immagini di un mondo semplice e felice, fatto di lavoro e di svago, in una cornice naturale stupenda, nella serena pace di una terra benedetta dagli dei. Una forma d’arte che gli Egizi tenevano in gran conto era quella dell’abbigliamento. Eleganti e raffinati, vestivano abiti confezionati in modo estremamente semplice, ma di linea perfetta. Gli uomini nel camminare assumevano un’aria imponente e austera che le vesti contribuivano a sottolineare. Le donne portavano monili squisitamente lavorati. Per truccarsi si servivano di specchi di bronzo ricoperti di una lamina d’argento. Famosissimi sono i gioielli della moglie di Thutmose II : un collare composto da cinque giri di pezzi d’oro a forma di fiaschetta ( che in scrittura egizia significa “buono”) e da un filo di foglie di o loto; una collana formata da 370 pietre preziose: lapislazzuli, turchesi, granata. Solo con l’avvento del Nuovo regno le donne cominciarono a mettere enormi parrucche e a vestire in modo decisamente più vistoso e sgargiante. Dipinte sui papiri o scolpite nella pietra non vi erano soltanto figure, ma anche tanti piccoli disegni di persone, animali, oggetti e molti altri segni strani assolutamente indecifrabili. Per un certo tempo si pensò che fossero formule magiche, poi si capì che si trattava di scrittura: la scrittura degli antichi egizi. Il sapere che quei segni rappresentavano la loro scrittura non era ancora tutto , bisognava trovare anche la chiave per poterla interpretare. Per secoli gli studiosi di archeologia (scienza che studia le cose antiche) si cimentarono nella decifrazione dei “ geroglifici”, cioè incisioni sacre, cercando la chiave di questo mistero . Chiave che in questo caso doveva essere un papiro o una pietra in cui fossero riportati contemporaneamente dei geroglifici e la loro esatta traduzione in una lingua sconosciuta. Chissà per quanto ancora il mistero sarebbe rimasto insoluto, se un soldato dell’esercito napoleonico, il2 luglio 1798, non avesse trovato una pietra, un pezzo di nero e durissimo basalto, su cui era scolpito un brano trilingue: scritto cioè in geroglifico, in tardo egizio e in greco. Ci vollero parecchi studi prima di arrivare alla decifrazione esatta della stele di Rosetta, così chiamata dal nome della città presso cui la scoperta era stata fatta; ma finalmente un appassionato cultore di lingue morte, il francese Champollion, riuscì nell’intento. Da allora i geroglifici non ebbero più segreti.
La scrittura egiziana è definita “ideografica” : la quale significa che ad ogni idea e concetto espressi nel discorso corrisponde una figura. A poco a poco le figure divennero sempre più stilizzate, e si semplificarono, per rendere la scrittura più rapida. Così nacquero le lettere dell’alfabeto moderno: che non corrispondono più a delle idee, ma a dei suoni, che disposti in un certo ordine formano le parole: è il sistema “ fonetico” .
La scrittura non avrebbe avuto in Egitto l’imponente sviluppo che ebbe, se non fosse stato scoperto il foglio di papiro. Incidere e scalpellare sulla pietra, infatti, non era ne semplice, ne pratico e richiedeva moltissimo tempo; scrivere su dei fogli invece era molto più semplice. Per preparare questi fogli gli Egizi si servivano di una pianta del Nilo, il “ papiro” . Ne aprivano il gambo, tagliavano dall’alto in basso, ottenendo così due nastri sottili. Questi venivano poi essiccati e uniti l’uno e l’altro in modo da ricavarne fogli più larghi. Tali fogli erano resi più consistenti perché incollati a due a due e incrociati. La colla che gli univa era fatta con farina di frumento. Un lavoro di martellatura, essiccatura e lucidatura con olio di cedro completava l’opera. Spesso i papiri scritti venivano collocati in anfore di terracotta. Il clima secco, tipico dell’Egitto, favorì la conservazione di innumerevoli rotoli, altrimenti facile preda dell’umidità.
Dalle testimonianze scritte, dai dipinti, dagli oggetti giunti fino a noi possiamo sapere con certezza che l’attività più diffusa dell’antico Egitto era la coltivazione dei campi . La fertilità della terra permetteva infatti agli agricoltori un lavoro sereno, senza eccessive fatiche.
Ciò che maggiormente preoccupava gli egizi era il problema dell’irrigazione. In un clima caldo e secco, infatti, la cosa che più mancava era l’acqua; vennero così creati bacini artificiali che potevano contenerne enormi quantità. L’acqua scorreva per mezzo dei canali fino a bonificare estese coltivazioni. Cereali e legumi erano le colture più diffuse: grano, orzo, saggina, lenticchie, fave. La vite era coltivata per lo più vicino alle abitazioni. Il lino era l’unica pianta tessile conosciuta: la sua coltura aveva notevole importanza anche per l’industria che da essa nasceva. L’olio di sesamo era utile per condire i cibi; serviva anche da medicamento.
Nell’alimentazione gli Egizi erano parchi; non disdegnavano naturalmente qualche banchetto speciale, ma di regola consumavano pasti frugali. Il pane era alla base della loro alimentazione: dal faraone all’ultimo schiavo tutti si cibavano di pane. Il contadino riceveva ogni giorno come paga tre pani e due brocche del liquido che noi oggi chiamiamo “birra”. Presso gli altri popoli gli egizi erano conosciuti appunto come i “ mangiatori di pane” . E ne avevano ben motivo dal momento che non solo producevano grano in grande quantità, ma avevano anche imparato a cuocerlo. I chicchi di frumento infatti, prima degli Egizi, non venivano macinati ma solo abbrustoliti e comparsi sugli altri cibi, specie sulla carne per accrescerne il sapore. L’uso di macinare il grano per ottenere farina con cui fare delle schiacciate era proprio nato in Egitto. Ma la scoperta più importante fu quella della fermentazione della pasta. Chissà quando e dove un Egizio si accorse un giorno che la pasta lasciata per qualche tempo inutilizzata si riempiva di bollicine che la rigonfiavano. La pasta “ fermentata” messa a cuocere dava un pane molto più soffice e buono. Con la scoperta della fermentazione della pasta, gli abili fornai egizi riuscirono ad ottenere ben cinquanta varietà di pane. Più o meno con lo stesso procedimento facevano fermentare la birra. Il pane veniva mangiato da solo o con erbe, carne tritata o pesce.
Tra i cibi in uso presso gli Egizi non mancava la carne: di bovini, di selvaggina, di pollame. Sembra addirittura che fosse diffusa l’usanza , ancora attuale, di ingrassare forzatamente oche e anitre per ottenere una carne migliore. Alcuni cibi che noi oggi chiameremo col nome di “ torte” , o” pasticcini” , venivano dolcificati con il mile. Era costume dei ricchi intrattenere gli ospiti con feste che terminavano in lauti pranzi e abbondanti libagioni a base di birra e di diverse qualità di vino. Perché i morti potessero compiere il loro lungo viaggio nell’aldilà, venivano collocati abbondanti cibi anche nelle tombe. Nelle tombe dei faraoni, parte del cibo veniva consumato dai sacerdoti.
Inesauribile fonte di svago era il Nilo, il quale costituiva, con la miriade dei suoi canali, un posto ideale per la villeggiatura. La frescura e la pace che si godeva sulle sue rive era un ottimo ristoro per i ricchi e per i poveri.
Alcuni bassorilievi egizi ci mostrano scene suggestive sulla caccia all’ippopotamo. Ricche di pesce, le acque del Nilo offrivano nello stesso tempo svago ai pescatori e una fonte notevole di alimentazione per tutti. Sul Nilo passavano anche, leggere e veloci, le navi di papiro. Molte appartenevano ai ricchi mercanti egizi che mantenevano traffici intensi con tutti i popoli vicini e che spesso si spingevano anche lontano, lungo le coste del Mediterraneo e del Mar Rosso. Il padre del Nilo, la prima fonte di vita per gli egizi, elargiva così riposo e lavoro a tutti i suoi figli: questo suo popolo laborioso e straordinario.
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