geronimo

martedì 4 gennaio 2011

I PAPI DELLA SANTA INQUISIZIONE

PAPI NEL PERIODO DELLA SANTA INQUISIZIONE

Papa LUCIO III  (1181-1185)

Come successore di Alessandro II fu eletto papa a Velletri il 1 settembre del 1181 il lucchese Ubaldo Alluccingoli; gia cardinale di Ostia e legato pontificio in diverse circostanze, sotto Alessandro III aveva compiuto numerose ambascerie presso l’imperatore Federico Barbarossa, dal quale era particolarmente stimato. Fu consacrato papa a Velletri il 6 settembre assunse il nome di Lucio III.
Durante il suo pontificato poté risiedere a Roma solo nell’inverno del 1181/82 , a causa dei continui contrasti con la cittadinanza che aspirava a concretizzare la libertà comunale in un preciso trattato, mentre il papa si mostrava contrario e non voleva riconoscere appunto il nuovo assetto del Comune. C’era l’antica discordia con Muscolo che i Romani erano decisi a sottomettere al loro municipio; di fronte all’assedio al quale il castello fortificato venne sottoposto, Lucio, che si era rifugiato a Segni, chiamò dalla Tuscia Cristiano di Magonza che riuscì a disperdere con le sue truppe i romani. Ma quando il 25 agosto del 1183 l’arcivescovo morì proprio a Tuscolo di febbre maligna, i romani tornarono minacciosi sotto le mura del castello e devastarono il territorio circostante, proseguendo le loro scorrerie nel Lazio. " Il loro odio contro il clero era selvaggio e barbarico, segnala il Gregorovius ( scrittore tedesco n. 1821 e morto 1891; ha scritto la storia di Roma nel medioevo); “ una volta che catturarono un certo numero di preti nella campagna, li accecarono tutti salvo uno, li fecero montare sudagli asini e dopo averli incappucciati con mitre di pergamena  su cui erano scritti nomi di cardinali, comandarono a quello che avevano risparmiato  di condurre al papa questo macabro corteo “.
Lucio III non ci pensò due volte a scappare, e riparò a Verona, dove s’incontro con l’imperatore reduce dalla pace fatta con i Comuni a Costanza. Nel novembre 1184 fu emanato un decreto comune contro gli eretici di allora, i Catari e i Valdesi, banditi dalla chiesa e dall’impero.
Contrasti sorsero invece sull’investitura sull’Arcivescovado di Treviri, nel quale era stato eletto a maggioranza Rodolfo di Wied, ben visto dall’imperatore, mentre una minoranza era favorevole a Volcmaro che aveva interposto appello al papa; la sede restò vacante in attesa di un approfondimento della questione. Ma il contrasto fra le parti si animò anche sul problema dell’eredità di Matilde di Canossa, che il Barbarossa non intendeva cedere, e sulla richiesta ufficiale avanzata dall’imperatore dell’unzione del figlio Enrico, rifiutata dal papa. Si arrivò pertanto ad una rottura delle parti.
Federico se ne tornò in Germania, consolandosi con il fidanzamento ufficiale tra suo figlio e Costanza, figlia di Ruggero II di Sicilia, in un legame tra impero e Normanni che preannunciava pericolose prospettive per lo stato della Chiesa.
Lucio III si sfoga lanciando la scomunica ai romani ribelli.
Morì il 25 novembre del 1185 a Verona e fu sepolto nel duomo di quella città.


Papa Urbano  (1185-1187)
Papa Gregorio VIIII  (1187)
Papa Clemente III  (1187-1191)
Papa Celestino III (1191-1198)






Papa  INNOCENZO III  (1198-1216)


L’elezione del successore di Celestino III avvenne  in Roma in ambiente ricavato nel vecchio rudere del Septizonio, trasformato in fortezza e prigione, di proprietà dei Frangipane; secondo alcuni va considerato il primo Conclave  della storia: Infatti come segnala Giancarlo Zizola  “ per la prima volta si tiene in questa elezione la “ oratio de eligendo pontefice”, per la prima volta sono distribuite schede elettorali. Ma è anche la prima, palese ratifica della divaricazione tra il momento elettorale e il momento liturgico, nella scelta del papa”: l’elezione è chiaramente un atto laico, politico, al quale si fanno seguire, altrove, le cerimonie sacre.
E’ l’8 gennaio 1198 e viene eletto papa il cardinale diacono Lotario dei Conti di Segni; nato nel 1160 a Gavignano, vicino Roma, giovanissimo aveva studiato teologia a Parigi e diritto a Bologna. Tornato a Roma era stato consacrato suddiacono e quindi, da suo zio Clemente III, cardinale diacono della chiesa dei Ss. Sergio e Bacco al Foro; sotto Celestino III era stato tenuto in disparte dalla Curia per una vecchia rivalità tra la famiglia degli Orsini, alla quale apparteneva il papa, e quella dei Conti.
Per quanto giovanissimo, con i suoi 38 anni, il neoeletto, che avrebbe assunto il nome di Innocenzo III , aveva maturato personalità, energico e preparato coscienziosamente  ad assumere la dignità pontificia come vicario di Cristo non solo, ma convinto di riunire nelle sue mani, al disopra di ogni altro uomo  in terra, la pienezza del potere. In verità, quando egli fu eletto, la sovranità del papa in Roma era svanita e ben poco rimaneva dello Stato della Chiesa;  era una situazione che non si addiceva alla sua personalità e quindi, ancor prima della sua consacrazione, avvenuta in San Pietro il 22 febbraio, si dette da fare per ristabilire il potere papale in Roma. Era d’impaccio principalmente il Senato, assemblea rappresentativa del popolo e tutrice dei suoi diritti, e il prefetto, rappresentante delle rivendicazioni imperiali.
Quanto al Senato, in un comune ormai decisamente aristocratico, con un potere esecutivo oscillante tra la forma oligarchica e quella monarchica, se nel 1197 erano stati nominati 56 senatori, quando fu eletto Innocenzo III ne era in carica uno soltanto. Fu rimosso dal suo ufficio e sostituito con un altro che prestò giuramento di fedeltà al papa.
Si trattò un vero e proprio colpo di mano, al quale il popolo non seppe o meglio non volle reagire; fu convinto dalle ricche elargizioni di denaro a rinunciare improvvisamente alla democratica conquista di eleggere liberamente il Senato, che il nuovo papa così rivendicava come privilegio pontificio . Il golpe  fu completato dalla sostituzione degli justitiarii , ovvero i giudici, fino ad allora eletti dal Campidoglio, con impiegati pontifici. Quanto al prefetto, Innocenzo III lo costrinse, il giorno successivo alla sua incoronazione, a sottomettersi e prestargli giuramento di vassallaggio, diventando anch’egli una specie di impiegato del papa.
In pratica nelle sei settimane precedenti la sua incoronazione, Innocenzo III riuscì ad avere in mano l’amministrazione civile della città, gettando le basi di una effettiva riorganizzazione del potere., giovandosi in questo ovviamente della  estesissima e influente parentela. Grazie ad essa egli riuscì ad agganciare in una sorta di potere oligarchico molte famiglie nobili romane, che controllarono la situazione con autorità fino al maggio del 1203, quando ci fu una improvvisa sollevazione popolaresche costrinse Innocenzo III ad abbandonare Roma e rifugiarsi a Palestrina.
Si tratta  principalmente di un ritorno di fiamma degli Orsini, che  sotto Celestino III avevano raggiuto prestigio e ricchezza e ora si vedevano messi da parte; ad esso si accompagnò un più esteso contrasto  tra i nobili che appoggiavano il papa e la decaduta famiglia dei Poli. In questi frangenti fu rimesso in ballo il diritto popolare di eleggere il Senato, e la “ plebe”  nelle mani di Giovanni Capocci rispolverò ideali repubblicani; ma si rese conto di essere solo uno strumento in mano dei nobili “ patrizi” e preferì alla fine, dopo una serie di scontri in cui aveva avuto anche la meglio, accettare ancora una volta il denaro del papa rientrato in città nel 1204 e rinunciare ad ogni rivendicazione. La pace tra le varie fazioni si concretizzò nel 1205; il potere esecutivo sarebbe rimasto nelle mani di un solo senatore o podestà nominato direttamente dal papa. La riorganizzazione del potere pontificio all’interno della città faceva parte di un progetto più ampio che tendeva a dare al papato una base sicura al di fuori delle stesse mura di Roma, riformando per quanto possibile nella sua integrità lo Stato della Chiesa con la cosiddetta “politica dei recuperi”, cioè dei recuperi dei territori ritenuti di appartenenza del papato e ingiustamente sottrattigli. In questo , Innocenzo III fu favorito dall’improvviso crollo della sovranità Germanica in Italia dopo la morte di Enrico VI e dall’aver saputo inoltre mettere al servizio dei suoi piani l’innata avversione degli italiani verso i Tedeschi, con un rinnovo propagandistico del germogliante spirito nazionalistico.
Senza particolari difficoltà furono così riammessi nello stato della Chiesa il ducato di Spoleto e la marca di Ancona, sulla base di un omaggio personale degli abitanti di quei territori che vollero sottomettersi alla sovranità papale, riconoscendosi sudditi  del Vicario di Cristo. Il tentativo d’incorporare la Romagna, dando ugualmente peso al sentimento di fede cristiana e spirito pseudo patriottico , fallì però principalmente per il comportamento dell’Arcivescovo di Ravenna che sollevò pretese di autonomia; tanto meno riuscì ad Innocenzo III di rientrare in possesso dei beni di Matilde di Canossa.
In fondo i grandi progetti di ampliamento dello stato della Chiesa furono realizzati solo in parte, ma è certo che sui territori riconquistati la riorganizzazione della sovranità pontificia fu solida e tale da sottrarre definitivamente  il papato e le sue proprietà all’ambito della potenza imperiale.
E’ che alla base di tutto prendeva corpo con Innocenzo III la formulazione precisa dell’ideale teocratico  che già fu di Gregorio VIII, secondo la quale al papato spettava il dominio assoluto su tutti i poteri della terra; quella teoria  ora si fa convinzione pratica e cerca più ampi orizzonti. I termini di riferimento sono sempre gli stessi, dal Costitutum Costantini allo pseudo Isidoro, ma adesso il concetto di Mater Ecclesia sembra ricercare le sue motivazioni di potere su ideali  essenzialmente religiosi e filosofici.
Si parte dal concetto che l’anima è superiore al corpo e che lo spirito deve dominare sulla materia per affermare che all’amministrazione delle cose spirituali deve essere subordinata l’amministrazione delle cose terrene, per cui il papato deve essere considerato superiore all’impero e l’imperatore potrà ricevere il potere solo dal papa, come la luna riceve luce dal sole. Lo spirito cristiano finisce per essere ancor più asservito a finalità politiche; la teocrazia risulta, in ultima analisi, la maschera del potere.
Su questi principi Innocenzo III si accinse ad affrontare la questione della successione all’impero; la moglie del defunto Enrico VI, Costanza, era riuscita a far incoronare il figlioletto di tre anni, Federico, re di Sicilia nel maggio del 1198 a Palermo, ma nel novembre era morta, lasciando stabilito per testamento che Innocenzo III avrebbe dovuto assumere la tutela del figlio e la reggenza del regno di Sicilia durante tutto il periodo di minorità di Federico. Era questa un arma potente in mano al papa che accettò il compito con soddisfazione; si poteva ritenere arbitro della situazione nel vuoto di potere che si era creato in Germania, ma per il quale era in predicato come legittimo erede il suo pupillo Federico: Nel  frattempo però la maggioranza del partito degli Hohenstaufen aveva deciso di offrire la corona di Germania al fratello di Enrico VI, Filippo di Svevia, mentre la minoranza guelfa gli aveva opposto il duca Ottone di Brunswick.
Il papa non intervenne subito nella vertenza, anche perché la guerra civile giocava a vantaggio del suo pupillo, e solo quando capì che era opportuno imporre il prestigio papale per evidenziare in termini inequivocabili i principi basilari della Chiesa sul governo della società cristiana, emise la sentenza. Se a vantaggio di Filippo stavano la maggioranza dei principi e l’appoggio del Re di Francia, Innocenzo III non poteva perdonargli il fatto di essere  stato incoronato  nel settembre del 1198 a Magonza dall’arcivescovo borgognone di Tarantasia, ovvero da un prelato straniero senza alcun mandato, nonché la scomunica lanciata contro dilui da Celestino III e tuttora operante, senza contare il suo ostentato diritto alla corona imperiale come “ Re dei Romani” , in base al quale aveva preannunciato l’intenzione di venire a Roma per essere incoronato  dal papa Ottone, per quanto sostenuto dalla minoranza, era stato invece incoronato nel luogo adatto, ad Aquisgrana, dall’arcivescovo di Colonia a ciò deputato e inoltre era protetto dal re d’Inghilterra, suo zio; ma soprattutto aveva dichiarato che praticamente rinunciava ai diritti germanici in Italia: Favorire lui significava aumentare la portata dei “ recuperi” territoriali, con l’acquisto dei beni della contessa Matilde di Canossa, nonché la salvaguardia della temuta unione dell’impero con la Sicilia: Innocenzo riconobbe legittimo re Ottone IV e gli promise la corona imperiale.
Ma nonostante l’intervento del papa, criticato ovviamente con alterni pareri, non solo dai principi ma anche dai vescovi tedeschi, la guerra civile seguitò; Filippo guadagnò gradatamente terreno ed Ottone rimase isolato, fino ad essere abbandonato dallo stesso arcivescovo di Colonia  che nel 1205 rinnovò ad Aquisgrana l’incoronazione imperiale sulla testa di Filippo. Quell’unzione fatta con tutti i crismi riconosciuti dal papa mise nei pasticci Innocenzo III che, vedendo sempre più precaria la posizione di Ottone, fu costretto a prendere coscienza del mutamento della situazione e ad arrivare a un abboccamento con Filippo. Ma, nel ben mezzo delle trattative, Filippo veniva assassinato a Bamberga nel giugno 1208, probabilmente dai sicari di Ottone. La situazione a quanto pare si era risolta e Innocenzo III già sognava il trionfo della sua politica; Ottone rinnovava le proprie promesse e nell’agosto del 1209 s’incontrava col papa a Viterbo, spergiurando sulla rinuncia ai beni matildini e ai diritti sull’ex esarcato. Il 4 ottobre del 1209 veniva solennemente incoronato in San Pietro da Innocenzo III fiducioso come non mai. E invece Ottone IV tradì ogni sua aspettativa; l’anno dopo occupava alcune zone dell’Italia meridionale, inviava truppe in Sicilia, affidava in feudo a funzionari tedeschi i territori recuperati da Innocenzo, il quale non trova altra difesa se non nella scomunica, che liberava peraltro automaticamente i principi tedeschi dall’obbedienza a ottone.
Era la disfatta della politica pontificia a livello imperiale e bisognava correre ai ripari; Federico aveva solo 16 anni, ma era l’unica carta che rimaneva in mano al papa. Innocenzo appoggiò apertamente la candidatura del ragazzo e nel 1211 i principi germanici lo elessero formalmente re.
Federico veniva incoronato “re dei Romani” nel 1212 a Magonza e l’anno dopo, nella Bolla d’Oro di Eger, rinnovava la promessa fatta dieci anni prima dal guelfo Ottone: la separazione della Sicilia dall’impero e i famosi “ recuperi  territoriali dello Stato della Chiesa”. Ma Federico era pur sempre un ragazzo; un rafforzamento della posizione del pupillo pontificio la si ebbe però nel 1214 dalla sconfitta di Ottone a Bouvines contro le forze congiunte di Federico e di Filippo II di Francia.
Per più di dieci anni Innocenzo III aveva dovuto impegnarsi ai vertici dell’impero e, nonostante lo smacco subito da Ottone IV,la sua brillante strategia e la perfetta padronanza dell’ideologia teocratica avevano finito per imporre la personalità di questo papa  a livello europeo; egli era diventato l’incarnazione della legge e dell’ordine e questo significò che il papato poté interferire, proprio per tutelare questa rinnovata immagine del suo potere, nella politica di diversi regni.
Innocenzo aveva infatti costretto, con l’interdetto, il re di Francia Filippo Augusto a riprendersi la moglie ripudiata Ingeborga e il re d’Inghilterra Giovanni Senza terra a riconoscersi come vassallo della Chiesa di Roma ; aveva ricevuto l’omaggio feudale da parte di Pietro II d’Aragona, di Ottone di Boemia ,, di Alfonso IX di Leon e di Sancio  I del Portogallo; nel 1212 infine gli eserciti dei re di Spagna, incoraggiati con spirito cristiano, avevano definitivamente  frenato a Las Navas di Tolosa la potenza espansiva araba.  Ma la signoria feudale di Innocenzo sulle monarchie europee, coma ha osservato il Falco, fu “un potere in gran parte illusorio fondato su una fede che veniva meno” e che doveva cedere il campo ai nuovi organismi nazionali e comunali; “ la sua teocrazia diventa, contro l’Europa che essa ha creato e che si fa ogni giorno più insofferente  di tutela, uno strumento di ordine e di conservazione”.
In un Europa siffatta non avevano più il significato di una volta le crociate e la lotta contro gli eretici, che pure furono due questioni  che Innocenzo III ebbe particolarmente a cuore. Della quarta crociata, che si concluse nel 1204, egli fu uno dei massimi  promotori; ma i crociati, avendo deciso di arrivare in Terra Santa via mare, avevano fatto un contratto con la repubblica di Venezia per il trasporto, e non potendo pagare l’alta somma richiesta, finirono per divenire uno strumento delle ambiziose mire venete in Levante.  Per quanto riguarda gli eretici , Innocenzo III partì in linea di massima col piede sbagliato , considerandoli alla stessa stregua degli eretici dei primi secoli della Chiesa; essi in realtà propagandavano una vita cristiana all’insegna del Vangelo e andavano considerati una conseguenza logica di quei movimenti popolari a suo tempo difesi dalla Chiesa, come la Pataria . Gli umiliati, gli Spirituali o i Gioachimiti non mettevano in discussione  dogmi, ma condannavano il malcostume ecclesiastico e laico, naturalmente ormai senza mezzi termini, mettendo sotto accusa Vescovi e sovrani, denunciando ai vertici dello stesso papato un declinare dello spirito religioso e un prevalere su di esso della politica, sia pure in stampo teocratico, nel tradimento del messaggio evangelico. Naturalmente un pontefice teocratico come Innocenzo questo movimenti pauperistici non andavano bene  e furono messi perlopiù al bando della Chiesa;  all’insegna di uno spirito ortodosso, che in realtà tradiva l’ansia di soffocare  un incendio subdolo, indomabile sempre minaccioso, gli eretici saranno d’ora in poi perseguitati in vere e proprie spedizioni sterminatrici per le quali in un enorme errore politico  e religioso, si cercò la solidarietà degli stati.
Tristemente famosa restò quella contro gli Albigesi tra il 1208 e il 1209, sfrontatamente chiamata crociata da Innocenzo , che l’aveva appunto promossa, infiammando l’animo dei crociati con l’ardente parola di San Domenico di Guzman. Fu una vera e propria caccia al cristiano eretico, contro il quale il crociato si sentì di agire come contro gli infedeli, con la più spietata ferocia. Anche se gli Albigesi erano giunti a negare le verità più sacre della religione cristiana, come la pratica dei sacramenti, e come tale la condanna del papa era evidentemente sacrosanta. Fu un errore coinvolgere il mondo politico in una vertenza di ordine religioso. Un fatto che per i Vassalli del re di Francia la crociata fu solo una scusa per portare le armi contro il fiorente stato di Tolosa, e il papa, una volta vinte le resistenze propriamente eretiche, non riuscì a tenere a freno l’ambiziosa ingordigia dei crociati, così che il significato religioso della spedizione si vanificò. Oltretutto, una volta caduta Tolosa, la Chiesa di Roma si sarebbe trovata padrona del contado Venassino.
In definitiva Innocenzo, nel combattere i movimenti religiosi del suo tempo, fu indiscutibilmente animato da un rispetto dell’ortodossia, cercando di andare nello stesso tempo incontro a quello spirito di povertà e giustizia evangelica in nome del quale essi denunciavano la chiesa. Le sue riforme all’inizio del pontificato in seno alla curia e all’amministrazione di Roma probabilmente tendeva a ripulire gli ambienti della Sede dell’Apostolo Pietro dalla corruzione e riportarli alla loro dignità Ma un fatto che, in tutto questo, Innocenzo fu guidato da un impegno politico che snaturò lo spirito di purificazione, se essi stesso si servi del denaro per raggiungere il suo scopo; fu travolto inesorabilmente dagli stessi ideali a cui si era votato, a causa dei mezzi non proprio evangelici usati pur di vedere affermato l’universalismo papale..
E in un simile programma poco poteva essere lo spazio lasciato a certi movimenti pauperistici; si salvarono soltanto quelli che seppero mantenersi nei limiti dell’idealizzazione di una virtuosa vita cristiana, senza atteggiarsi troppo a condannare chi stava in alto, finendo di concordare  una regola e il riconoscimento del loro movimento come vero e proprio  ordine religioso  in seno alla Chiesa. .
Così fu per gli umiliati, i Poveri Cattolici e i Fratelli penitenti di San Francesco d’Assisi; l’autorizzazione concessa a quest’ultimo di esercitare la penitenza e la predicazione peraltro “fu una decisione la cui portata, allora, non fu dato ad alcuno di presentire in tutta la sua importanza”  , come osserva il Seppelt. “ Difatti chi avrebbe potuto allora prevedere che, tramite il poverello di Assisi  con la sua fondazione, si sarebbe avverato quello che, secondo la leggenda di Tommaso da celano, Innocenzo III aveva visto in sogno  un uomo semplice e dispregiato sorreggeva con le sue spalle la crollante basilica lateranense”.
E’ evidente quanto più comprensibile invece possa essere stato per Innocenzo lo spirito di San Domenico: il papa trovò in lui “ un intelletto positivo e risoluto nell’applicazione dei mezzi pratici idonei a sradicare l’eresia” , come nota il Gregorovius; egli “ si consultava con i più tristi eroi della guerra contro gli Albigesi… fu spettatore della strage di un nobile popolo” . Eppure in mezzo a questo orrori, di fronte ai quali Francesco sarebbe indietreggiato tremante, il fanatico spagnolo non provò null’altro che sensi di cocente amore per la Chiesa null’altro che fervida umiltà, poiché la sola passione che lo animasse era un impulso irrefrenabile a distogliere gli uomini dalle opinioni che egli riteneva delittuose. Per questo non poté non essere considerato una sorta di braccio destro della politica teocratica di Innocenzo III.
Questo papa fu a conclusione un grande uomo di potere, che mascherò i propri intenti con una conquista cristiana del mondo, celebrandone il trionfo nel dodicesimo concilio ecumenico, quarto del Laterano, aperto l’11 novembre del 1215, che registrò un numero straordinario di partecipanti: più di 70 patriarchi e arcivescovi, circa 400 vescovi e 800 abati, oltre a diversi ambasciatori dei sovrani europei e la presenza personale di Federico II. L’esito delle discussioni conciliari, pubblicato in 70 canoni, che finirono nella loro integrità nel Corpus iuris canonici , partiva dall’approvazione del termine “ transustanziazione” , per indicare la trasformazione sostanziale della forma eucaristica, all’imposizione per i cristiani di confessarsi e comunicarsi almeno una volta l’anno e alla condanna delle varie forme eretiche, tra le quali fu relegata anche la Congregazione Forense di Gioacchino da fiore, morto nel 1202 e le cui reliquie erano peraltro venerate dai fedeli del monastero di San Giovanni in Fiore. Veniva essenzialmente condannata la sua profezia di una terza età del genere umano, senza Chiesa e senza Stato, per una comunità di credenti destinati a vivere finalmente in una società egualitaria e umile; essa costituiva una condanna principalmente all’assetto gerarchico della Chiesa, e come tale fu condannata . Il concilio dette infine precise disposizioni per una nuova crociata contro i Turchi che sarebbe dovuta partire il 1 giugno 1217; essa doveva esser condotta sotto la direzione personale della Chiesa per evitare le solite influenze politiche deviatrici. E, infatti, chiuso il concilio, Innocenzo III nella primavera del 1216 si recò nel nord d’Italia, per comporre le controversie esistenti tra le città marinare di Pisa e Genova e inculcare nelle loro cittadinanze uno spirito strettamente religioso, onde evitare che si ripetesse con loro lo sfruttamento commerciale che nella quarta crociata era stato messo in atto da Venezia.
Durante quest’opera missionaria, la morte lo colse a perugina il 16 luglio del 1216; fu sepolto nella cattedrale di quella città, ma nel 1890 Leone XIII ne fece trasportare le ceneri nella basilica del Laterano, ove gli eresse un monumento.

Papa ONORIO III  ( 1216-1227 )

Solo due giorni dopo la morte di Innocenzo III, il 18 luglio del 1216, a Perugina il collegio dei cardinali elesse il nuovo papa nella persona del cardinale Cencio Savelli. Romano. Gia canonico di S. Maria Maggiore , era stato amministratore di Santa Romana Chiesa, ovvero più propriamente camerarius , cioè camerlengo, sotto Clemente III e Celestino III, legando il suo nome a quel Liber Censuum di cui si è parlato nella biografia di quest’ultimo papa .
Cencio Savelli fu consacrato a Perugina il 24 dello stesso mese in cui era stato eletto, assumendo il nome di Onorio III , ma s’insediò solo nel settembre in Laterano, accolto con gioia dai Romani che finalmente vedevano  papa di nuovo un loro concittadino. Cencio Savelli era arrivato al soglio pontificio ormai in età avanzata e forse aveva gia speso il meglio di se come camerlengo; non era proprio fornito di una energia pari a quella del suo predecessore e non appariva particolarmente indicato per opporsi al giovane Federico II. Un solo appassionato proposito sembrò sempre guidarlo nel suo pontificato, il compimento della crociata  proclamata da papa Innocenzo III; e confidò di vederla attuata da Federico II. Infiammato da questo proposito e conoscendo le aspirazioni imperiali del giovano Hohenstaufen, pensò che il modo migliore per impegnarlo nell’impresa era quello di conferirgli la corona imperiale; ma ancora prima di incoronare il pupillo di Innocenzo III, Onorio il 9 aprile del 1217 consacrò l’imperatore d’Oriente. Fu un fatto eccezionale, perché mai un papa aveva incoronato un imperatore bizantino, ma anche del tutto casuale; il conte francese Pierre de Curtenay era stato chiamato al trono di Costantinopoli avendo sposato Iolanda, sorella dell’imperatore Enrico morto senza eredi. Il conte fu incoronato però in San Lorenzo fuori la Mura e non in San pietro, una forma di  distinzione nei riguardi dell’imperatore d’Occidente; una volta partito da Roma con moglie e figli alla volta di Costantinopoli, non raggiunse tuttavia il trono.  Nel tentativo di conquistare Durazzo per i Veneziani, finì nelle carceri di Teodoro Angelo, deposta dell’ Empiro, e morì l’anno dopo.
Onorio intanto aveva cominciato ad esortare Federico a prendere l’iniziativa per la crociata; in realtà una grande impresa che riunisse tutta la cristianità occidentale, come era nei piani di Innocenzo III, appariva già impedita in partenza dalle persistenti contese tra francia e Inghilterra; da parte sua Federico era riuscito ad ottenere una dilazione per la spedizione. Finche era vivo, Ottone IV non poteva pensare di lasciare la Germania abbandonata al suo avversario; tuttavia anche dopo la morte di questi , avvenuta nel maggio del 1218, riuscì a differire l’esecuzione, pur rinnovando gli impegni assunti verso la chiesa. In realtà lui non pensava affatto a mantenerli; la crociata era l’ultimo dei suoi pensieri e Onorio seguitò ad essere preso in giro. Tutte le cure di Federico erano tese a riunire nelle proprie mani la Sicilia e l’impero, andando quindi contro tutte le aspettative del papa.
Infatti nella Dieta di Francoforte del 1220, all’insaputa di Onorio, faceva eleggere dai principi tedeschi il suo giovane figlio Enrico re di Germania; si affrettò comunque ad assicurare al papa che l’elezione era stata un improvvisata decisione della Dieta, a sua insaputa, proprio perché i principi tedeschi volevano che durante la sua assenza per la crociata il governo del regno non dovesse subire pericoli di sorta. Peraltro si sarebbe quanto prima messo in viaggio per Roma, proseguendo poi per la crociata. Lo rassicurava inoltre sulla indiscutibile separazione della Sicilia dall’impero e, a prova delle sue buoni intenzioni, obbligò i nobili della Toscana a prestare giuramento al papa peri beni matildini.
Persuaso dal furbo Federico, Onorio gli offrì la corona imperiale, anche se la situazione a Roma si era fatta nuovamente turbolenta; una serie di tumulti avevano costretto il papa nel giugno 1219 ad allontanarsi da Roma e riparare  a Viterbo. Il comune tentava di riconquistare la libertà di un tempo, visto il carattere mite del nuovo papa, ma Federico intervenne con energia sfruttando l’occasione per mettere in mostra le sue doti di protettore della Chiesa. Inviò come legato a Roma l’abate Conone di Fulda, che lesse pubblicamente in Campidoglio delle lettere del Re, con le quali i romani venivano ammoniti a prestare obbedienza al papa. Il senatore Parendo dette assicurazione che la città avrebbe rinnovato la sua fedeltà al papa, eliminando ogni dissidio in modo da permettere oltretutto a Federico di poter essere incoronato in una città tranquilla; il Comune non aveva la forza di opporsi alla volontà del re, e così Onorio nell’ottobre del 1220 poteva rientrare nella sua sede.
Federico raggiunse Roma a novembre, accompagnato dalla moglie Costanza, e pose l’accampamento sul Monte Mario; ci fu un incontro con i legati pontifici e il re fece recapitare al papa una dichiarazione documentata in cui si escludeva l’unione all’impero della Sicilia , riconosciuta ancora come feudo della Chiesa, e si confermavano i diritti della Chiesa sul territorio da Radicofani a Ceprano, su Spoleto ed Ancona. Rassicurato in tal modo, Onorio il 22 novembre procedeva solennemente all’incoronazione imperiale di Federico e sua moglie.
Tre giorni dopo, Federico raggirò nuovamente il papa e ottenne un altro rinvio per la crociata all’agosto del 1221; voleva recarsi in Sicilia e Onorio ci restò male, così per raddolcire il suo animo l’imperatore  si fermò a Capua, dove, oltre ad emanare subito nuove leggi per l’Italia meridionale, riconfermò al papa il possesso delle terre della contessa Matilde.
Ma anche il 1221 doveva passare senza che Federico partisse per quella benedetta crociata; il regno di Sicilia era in un tal caos amministrativo e militare, che l’imperatore dovette occuparsi a fondo della riorganizzazione dello Stato e del ripristino dell’autorità regia. Evidentemente l’impegno era tale che non gli sarebbe bastato un anno; così, in una serie di incontri in pratica annuali con il papa, Federico seguitò sempre a rinviare la spedizione incantando Onorio con il rinnovo di promesse territoriali, in realtà mai integralmente mantenute, tanto che a Spoleto il partito imperiale aveva scacciato i rappresentanti pontifici.
Nel frattempo egli era riuscito a dare un nuovo volto al suo regno italiano, trasformandolo in uno stato ben ordinato, nel quale regnava assoluta la volontà del re; nel 1224 aveva fondato l’università di Napoli, dandogli un’impronta puramente statale, alla quale si sarebbe formata la cultura laica degli impiegati imperiali. Tutta la struttura del regno era all’insegna di un accentramento civile del potere, tanto che Federico si era impossessato dei beni di cinque vescovadi vacanti, scacciando i legati pontifici che volevano provvedere all’istituzione dei nuovi vescovi. La sua in pratica era chiaramente una politica avversa alla chiesa e questo modo di governare era fatalmente destinato ad uscire fuori dei confini del regno meridionale, ad infiltrarsi nel territorio della Chiesa, per creare anche là dei seguaci e premunirsi contro le rivendicazioni delle città lombarde che si rifiutavano di rispettare i diritti riconosciuti all’impero dal trattato di Costanza.
Onorio era effettivamente un papa troppo benevolo e nella Curia regnava un’atmosfera di grave sfiducia nei confronti di Federico, che seguitava a fare promesse da marinaio, ma in fondo dello stesso papa. Federico, rimasto vedevo, aveva sposato nel 1225 in seconde nozze Isabella, erede del regno di Gerusalemme, come figlia di Giovanni di Brienne; con quel matrimonio la curia sperava di spingere finalmente l’imperatore a partire, perlomeno nell’aspettativa della riconquista di un suo regno al di là del mare. E invece, tramite il suocero, Federico ottenne una nuova dilazione alla crociata, giustificandola con il comportamento ostile dei Comuni lombardi che avevano riorganizzato la lega; nel trattato di San germano del luglio di quell’anno, l’imperatore, alla presenza dei legati pontifici, giurò che sarebbe partito per la crociata nell’agosto del 1227, sotto pena di scomunica e di perdita del regno di Sicilia, del quale il papa avrebbe potuto disporre come voleva. Era un impegno che sembrava veramente definitivo, dal momento che erano state messe in ballo condizioni tali che sarebbero state fatali per il prestigio  dell’imperatore; peraltro alle lamentele di Onorio per il comportamento anticlericale mostrato nel meridione, Federico rispose con la convocazione per l’aprile del 1226 di una grande Dieta a Cremona, nella quale in pratica, aggirando il problema, l’imperatore si proponeva di definire con precisione la preparazione per la crociata e l’estirpazione dell’eresia che, malgrado tutte le premure del papa, dilagava sempre più in Italia settentrionale, dove inoltre bisognava provvedere alla restaurazione dei diritti imperiali.
Nel frattempo il papa aveva dovuto nuovamente abbandonare Roma; Riccardo Conti era stato defraudato da federico della città di Sora e si era recato a Roma sperando di trovare un appoggio nel pontefice, che aveva in testa solo la crociata. Trovò appoggio in gran parte della nobiltà e nel senatore Parendo, e fudi nuovo sobillato il popolo, così che il papa aveva dovuto rifugiarsi a Rieti. L’imperatore, che aveva proprio allora stretto con il papa il trattato di San Germano, riuscì a farlo ritornare nel febbraio del1226 sostituendo l’anti clericale Parendo con Angelo de Benincasa, decisamente più vicino  alla famiglia Savelli. A Giovanni di Brienne  il papa affidò il governo del territorio pontificio da Viterbo fino a Roma, assicurando in questo modo una protezione valida contro ulteriori rivolte e tumulti.
La Dieta di Cremona nel frattempo non poteva avere luogo, perché la lega Lombarda aveva bloccato la chiusa veronese impedendo alla truppe germaniche, fatte venire dall’imperatore al comando del figlio Enrico, di avanzare; peraltro le truppe di cui disponeva Federico non erano tali da poter fronteggiare la situazione, per cui egli se ne tornò deluso nel sud. Di lì lanciò il bando contro i federati e trovò anche alcuni  vescovi compiacenti che lanciarono scomuniche in suo favore; in questo modo però si evidenziava la mancanza di autorità del papa e Federico non voleva perdere completamente i contatti con Onorio, Lo pregò pertanto di farsi mediatore nella vertenza con i comuni Lombardi e, sempre per mostrare le sue buone intenzioni, richiamò i vescovi esiliati a suo tempo in Sicilia.
Onorio ancora illuso dal comportamento dell’imperatore, si sentì probabilmente investito come non mai di una autorità consona alla sua dignità pontificia; era stato chiamato come arbitro di una vertenza tra l’impero e i Comuni e sognava forse nel suo intimo di ricalcare le orme di Alessandro II . Sentenziò che i Lombardi dovevano riconoscere la supremazia  dell’imperatore fornendo come pegno quattrocento cavalieri che militassero per due anni in Terra Santa. La sentenza chiaramente non ebbe alcun peso poiché risultò molto generica e sostanzialmente il contrasto rimase.
Onorio III non era del resto il papa adatto per impegnarsi a certi livelli politici; fu effettivamente un papa votato al fine religioso della carica che ricopriva e questo torna a sua lode. Con zelo protesse il rapido diffondersi del cristianesimo nei paesi dell’Europa settentrionale, come la Danimarca, la Svezia e la Norvegia, in un’opera missionaria che si estese anche in Polonia e Russia; esortò inoltre il re di Pastiglia a combattere gli Arabi, proseguendo nell’opera di Riconquista.
San Domenico di Guzman vide approvato il suo Ordine dei Predicatori nel dicembre del 1216 e rimase poi a Roma per ricoprire l’alta carica di “ Maestro del Sacro Palazzo “; Francesco d’Assisi, essendo aumentato notevolmente il numero dei suoi seguaci, dovette provvedere ad un rinnovamento della regola che, sottoposta ad Onorio con le garanzie del cardinale Ugolino, il futuro papa Gregorio IX, protettore dell’ordine, ebbe la solenne approvazione con una bolla nel novembre del 1223. Tre anni dopo Francesco moriva.
Onorio non sopravvisse molto al santo di Assisi; impegnato fino all’ultimo nel predicare ovunque la partecipazione alla crociata ormai prossima, non riuscì a vedere l’esito dei suoi sforzi. Morì il 18 marzo del 1227 e venne sepolto in Santa Maria maggiore.


Papa GREGORIO IX  ( 1227-1241)

Come successore del pacifico Onorio III, il collegio dei cardinali riunito in San Gregorio elesse il 19 marzo del 1227 il cardinale Ugolino, vescovo di Ostia. Apparteneva alla famiglia dei Conti di segni ed era nato ad Anagni tra il 1145 e il 1150; aveva visto il governo di parecchi papi e in numerose occasioni si era potuto fare un’esperienza a diversi livelli.
Innocenzo III, suo parente, lo aveva consacrato cardinale ed era stato suo legato in Germania varie volte, finendo per entrare in amicizia con Federico II.
Sotto Onorio III era stato di nuovo legato pontificio nell’Italia settentrionale e grazie al suo intervento, più che per l’opera del papa, era riuscito a mettere pace in molti contrasti tra Comuni guelfi e ghibellini, con una energia che faceva ben sperare alla Curia di aver ritrovato finalmente un papa autoritario, anche se ottantenne , capace di contrastare l’imperatore . A certe doti politiche si accompagnava un grande spirito di fede, che lo aveva portato ad ergersi come protettore dell’ordine dei Francescani  , aiutando Francesco ad avere l’approvazione di Onorio III alla seconda regola nel 1223.
Consacrato in San Pietro il 21 marzo del  1227 con il nome di Gregorio IX, tre giorni dopo scriveva a Federico per annunciargli l’elezione, ricordando che in agosto scadeva improrogabilmente il termine per la partenza della crociata; il tono di Gregorio era fermo ma cordiale, nel nome di una antica amicizia. Federico sapeva bene comunque  con chi aveva a che fare e questa volta si era gia impegnato in seri preparativi; essendo affluite diverse truppe dalla Germania, tutte le schiere degli armati radunate nel luglio a brindisi per l’imbarco risultavano in numero così grande, chele navi non erano sufficienti per il trasporto e inadeguati i mezzi di sussistenza. Scoppiò un’epidemia, e lo stesso Federico si ammalò: Ciononostante era salpato, ma poi aveva dovuto fermarsi ad Otranto , rinunciando temporaneamente alla crociata, per l’aggravarsi del morbo. Si era infine ritirato ai bagni di Pozzuoli per ristabilirsi. Immediatamente aveva comunicato ogni cosa a Gregorio per mezzo di un’ambasceria ma, dati i precedenti, era difficile che il papa credesse alla sua malattia;  e infatti, convinto che l’imperatore avesse tirato fuori l’ennesimo pretesto, Gregorio denunciò l’inadempimento del trattato di San germano e il 29 settembre scomunicò Federico, annunziando con un enciclica all’intera cristianità gli spergiuri, la dissolutezza e la tirannia dell’imperatore.
Federico in realtà questa volta non era in colpa; diciamo che gli era andata storta e Gregorio aveva forse agito troppo impulsivamente . L’imperatore infatti, in un comunicato del 6 dicembre, ribadiva con tono pacato la sua innocenza e annunciava che era intenzionato a partire per il maggio dell’anno successivo. Gregorio seguitò a non credergli e il 23 marzo 1228 gli rinnovò la scomunica, motivata questa volta anche dalle oppressioni esercitate da Federico contro la chiesa in Sicilia. Di fronte alla ferma posizione del papa una parte della nobiltà con a capo i Frangipane, agganciati dall’imperatore alla sua causa, cinque giorni dopo organizzò un tumulto in San Pietro durante la messa, mentre Gregorio teneva un omelia contro Federico; i rivoltosi lo insultarono e lo cacciarono dalla chiesa. Ci furono scontri nelle strade e il papa fuggi prima a Viterbo, poi riparò a Perugina, da dove lanciò la scomunica contro i sudditi ribelli. Federico a questo punto, proprio per mettere Gregorio dalla parte del torto, partì finalmente per la crociata, lasciando l’amministrazione del regno a Rinaldo, ex duca di Spoleto; imbarcatosi a brindisi nel giugno, otteneva pacificamente Gerusalemme e i Luoghi Santi, stipulando con il sultano d’ Egitto un trattato nel febbraio dell’anno dopo.  Incoronatosi re di Gerusalemme nella chiesa del Santo Sepolcro, nel giugno del 1229 era di nuovo in Italia.
Durante la sua assenza i sudditi del regno di Sicilia e dell’impero erano stati prosciolti dal giuramento di fedeltà; mentre in Germania il figlio Enrico era riuscito ad opporsi al tentativo di creare un antire nella persona  del nipote di ottone IV, in Italia Rinaldo era uscito sconfitto dalle truppe pontificie nel tentativo di riconquistare il proprio ducato.
Federico s’impegnò subito nel domare le insurrezioni nel regno con un esercito forte anche di molti tedeschi reduci dalla crociata e avanzò verso i confini dello stato della chiesa; qui si fermò, intenzionato a riappacificarsi col papa in un incontro chiarificatore. Gregorio dal febbraio 1230 era riuscito a tornare a Roma, richiamato dal popolo stesso che, vedendo la città colpita da un’inondazione del Tevere e in preda alla carestia, aveva superstiziosamente creduto ad una punizione divina.
Il papa era riluttante all’incontro con Federico, ma di fronte ai successi da lui ottenuti in terra santa, dovette infine acconsentire alle trattative che portarono alla pace di Ceprano il 23 luglio del 1230: l’imperatore promise di sottomettersi alla chiesa in tutti i punti che gli avevano causato la scomunica, di restituire i beni di monasteri e chiese, e riconoscere il legame di vassallaggio della Sicilia con Roma. Il 28 agosto Federico fu prosciolto dalla scomunica e il 1 settembre, incontrandosi ad Anagni col papa, restaurava di nuovo gli amorevoli rapporti tra papato e impero.
Ma in realtà si trattava di una tregua: Federico non aveva rinunciato al sogno di restaurare una sorta di nuovo impero romano, per il quale condizione primaria era quella di esercitare su tutta l’Italia un controllo effettivo. A questo scopo incrementò gli attacchi contro le città lombarde per assicurarsi i diritti imperiali al nord, rinnovò le scorrerie nello stato pontificio e promulgò un codice di leggi per il meridione, compilato da Pier delle Vigne, che mirava a stabilire un assoluto dominio del re ai danni dei beni ecclesiastici.
Il papa non poté contrastare questo operato con la scomunica; l’imperatore non agiva allo scoperto e le operazioni anticlericali erano sempre mascherate apparentemente ad altri intendimenti. Agiva con doppiezza: nel novembre del 1231 a Ravenna aveva emanato contro gli eretici delle leggi più severe di quelle esistenti e Gregorio non poteva certo lagnarsene; ma poi aveva permesso agli alleati saraceni di Lucera il saccheggio di una chiesa. In queste imprese egli era il mandante , non appariva mai in prima fila; e oltretutto, quando nel maggio del 1234 una nuova rivolta dei Romani aveva costretto Gregorio a riparare in Umbria, federico era accorso nel proprio ruolo di protettore della Chiesa di Roma. Sconfitti i ribelli a Viterbo nell’ottobre, potè sottometterli definitivamente l’anno dopo e permettere il rientro di Gregorio nella sua sede nell’ottobre del 1237. Solo per l’aiuto dell’imperatore dunque il potere temporale della Chiesa era stato mantenuto in Roma e Gregorio non poté che essergliene riconoscente, contraccambiando il favore per quanto era nelle proprie possibilità. Quando il figlio di Federico, Enrico, si ribellò al padre minacciando ancora sedicenne il suo trono imperiale , Gregorio lo scomunicò e così l’imperatore poté farlo arrestare, detronizzandolo e tenendolo prigioniero fino alla morte che avvenne nel 1242. In ogni caso Federico, dopo tutto ciò, si senti quasi giustificato ad ogni ulteriore mossa e si accinse ad infliggere alla lega lombarda una tremenda sconfitta a Cortenuova nel 1237; ma per quanto egli decantasse la vittoria ed inviasse a Roma, come trofeo di guerra, il Carroccio, non ci fu una resa incondizionata dei Comuni. Determinò solo uno stato di euforia del partito imperiale con un'altra fuga di Gregorio alla volta di Anagni nel luglio 1238; ma lo scontro tra Guelfi e Ghibellini si risolse presto con la vittoria dei primi, così che nell’ottobre il papa poteva già rientrare nella propria sede. A questo punto Federico comunque aveva buttato giù la maschera; era chiaro che l’invio del Carroccio suonava come una dichiarazione di guerra. Ignorando ormai la pace di Ceprano, egli aizzava apertamente i romani contro il papa, imprigionava i legami pontifici inviati nelle terre e impediva le nomine vescovili. E che fosse intenzionato ad abbattere il potere temporale della chiesa apparve evidente quando concesse al figlio Enzo, che aveva sposato la vedova del giudice di Torres e di Gallura , il titolo di re di Sardegna, territorio rivendicato dal papato sulla base della Donazione di Costantino. Il grande pericolo per l’esistenza stessa dello Stato della Chiesa suggerì a Gregorio di scomunicare nuovamente Federico II in forma solenne la domenica delle Palme del 1239.
La nuova scomunica dette via ad una guerra ad oltranza tra papato e impero in un susseguirsi di invettive a botta e risposta; l’uno chiamava Gregorio folle, profeta da quattro soldi, infedele, profanatore del tempio, seme di Babilonia; l’altro vedeva in Federico la bestia dell’Apocalisse, un eretico che considerava Cristo un impostore. Come osserva Walter Ullmann, “su entrambi i fronti gli opuscoli, i manifesti e le encicliche erano capolavori di stile,di espressione e di linguaggio. Non erano più trattati eruditi e pedanti, ma articoli che miravano ad accendere gli animi e a creare l’atmosfera adatta per le mosse successive” Questa guerra ideologica aveva per centro Roma che, nel sogno di Federico , sarebbe dovuta diventare la capitale dell’impero, presieduta non da un sovrano fittizio come papa Gregorio ma da un imperatore autentico come lui. E questa guerra ideologica fu accompagnata naturalmente da scontri armati: Federico giunse ad occupare vaste zone dello Stato pontificio con il fine di isolare Roma; Gregorio spinse i veneziani ad invadere le Puglie, in un vano tentativo di bloccare dal sud l’avanzata del nemico, e convocò a Roma un concilio ecumenico per la Pasqua  del 1241. Federico riuscì a mandarlo a monte; bloccate le vie di accesso a Roma, si dette alla cacciategli ecclesiastici convocati e ne fece prigionieri più di cento, tra i quali due cardinali e numerosi vescovi e arcivescovi.
Il papa non si piegò neanche in quella circostanza; esortò i prigionieri a sopportare  con pazienza la dura sorte, perché altri pericoli si annunciavano per la Chiesa dall’est. In quei mesi infatti sull’ Europa si erano abbattute le orde dei Mongoli: Gregorio cercò di rivolgere l’attenzione del mondo cristiano al pericolo comune contro il quale bisognava mettere da parte ogni personale  attrito e unirsi in una vera e propria crociata. Corrado, re di Germania dal 1237, nel maggio proclamò in una dieta una pace generale raccogliendo l’appello del papa; ma la crociata non si fece e i Mongoli nel dicembre rientrarono fortunatamente nelle loro terre interrompendo l’avanzata.
Intanto nell’agosto l’imperatore si era accampato a Grottaferrata, invitato espressamente dal cardinale Giovanni Colonna , venuto ad un’aperta rottura con Gregorio; era un tradimento in seno al collegio cardinalizio, un colpo alle spalle di un papa quasi centenario, ma ancora non domo. L’occupazione della città sembrava ormai prossima, quando il 22 agosto del 1241 Gregorio IX moriva, come un generale che cade sulla breccia davanti al nemico, secondo un’espressione del Gregorovius: “ allora in tutta fretta giunsero messaggeri all’accampamento di Federico: il papa era morto !”. Per lui fu una gioia quella notizia e per dimostrare al mondo che il suo nemico non era la Chiesa ma soltanto Gregorio IX, tolse l’assedio a Roma e se ne tornò nel proprio regno.
Ma è vero quanto ha scritto il Seppelt: “ come papa, Gregorio si dimostrò una natura dominatore, di impavido campione di libertà e dei diritti della Chiesa, di elegante comportamento, distinguendosi per la straordinaria energia, conseguente e senza riguardi fino a raggiungere una estrema durezza; irremovibile  nella sua fiducia in Dio e impavido anche nelle difficoltà e nel pericolo “, come testimoniano i tribunali della Inquisizione da lui istituiti nel 1232 per la repressione degli eretici e affidati con una bolla del 20 aprile di quell’anno ai Domenicani. Probabilmente l’organizzazione di questi malfamati e tristi tribunali rientravano nella mentalità tutta giuridicadi gregorio, come lo fa capire del resto  l’incarico affidato al domenicano Raimondo di Penafort di raccogliere in una <summa> di cinque libri tutte le decretali pontificie indicate comunemente come Liber extra; esso costituì poi la base del Corpus iuris canonici di Pio X e Benedetto XV.
“ Eppure questo fiero gerarca, con il suo temperamento passionale, non era affatto insensibile ai teneri moti dell’anima”, nota ancora Seppelt. “ circa la sincerità e profondità della sua pietà tinta di misticismo, non è possibile alcun dubbio. Era legato con ammirevole venerazione e sincera amicizia alle maggiori personalità religiose del suo tempo”, come il gia ricordato Francesco d’Assisi, che lui stesso canonizzò nel 1228, nonché Antonio da Padova e Domenico di Guzman  successivamente sempre da lui elevati agli onori degli altari. In questo doppio volto della sua energica figura è forse la chiave di volta della capacità che ebbe di opporsi da pari a pari a Federico, cosi machiavellisticamente ambiguo da geniale uomo di stato quale egli fu.

Papa Celestino IV   (1241)







Papa INNOCENZO IV (1243-1254)

Alla morte di Celestino IV subentrarono due anni i sede vacante , spiegabili con le condizioni di scarsa sicurezza che regnavano in Roma, sempre sotto l’incubo di un assedio da parte di Federico II, con tentativi compiuti dai cardinali per ottenere il rilascio dei due colleghi ancora prigionieri dell’imperatore e con le dure condizioni da questi imposte per la loro liberazione. Gli otto reduci del conclave del 1241, riuniti ad Anagni dal febbraio del 1242, riuscirono dopo vari tentativi ad accordarsi con Federico, o meglio egli volle infine dare una prova della sua magnanimità rilasciando i due cardinali, che poterono unirsi al Sacro Collegio nel giugno e procedere con gli altri finalmente alla nuova elezione.
All’unanimità fu eletto il 25 giugno del 1243 Sinibaldo Fieschi, nato a Genova verso il 1195; già uditore della Curia al tempo di Onorio III e poi vicecancelliere della Chiesa, era stato creato cardinale da Gregorio IX con il titoloni S. Lorenzo in Lucina. Fu consacrato ad Anagni il 28 giugno e assunse il nome di Innocenzo IV. Federico II gli scrisse da Melfi per congratularsi, infiorando la lettera di elogi sul suo casato genovese, tradizionalmente devoto all’impero. Innocenzo  non si lasciò commuovere dalle parole, mostrando un atteggiamento deciso nell’avviare immediatamente le trattative; egli inviò una delegazione guidata dal cardinale Ottone con la richiesta perentoria del rilascio di tutti i prelati ancora prigionieri. Peraltro gli fu fatto presente che la scomunica nei suoi confronti era pur sempre operante e quindi lo si invitava a dare segni evidenti di buona volontà per essere riammesso in seno alla chiesa; il papa si riservava di esaminare il problema in un concilio. Federico, da parte sua, metteva avanti una serie di giustificazioni e lamentele, ma non intendeva comunque includere nelle trattative il problema dei Comuni lombardi; un’intesa era possibile sul rispetto dei diritti pontifici ai propri territori, in modo da permettere tra l’altro l’insediamento tranquillo in Roma di Innocenzo.
Nonostante queste discordanze le trattative non furono interrotte; a minacciarne seriamente la felice conclusione intervenne comunque un incidente provocato dal cardinale Ranieri, un battagliero avversario degli Svevi, che fomentò una rivolta a Viterbo, città fedele a Federico e presidiata appunto da una sua guarnigione. Questa si era asserragliata nel castello, mentre la maggior parte dei cittadini e le truppe pontificie guidate dal Ranieri avevano in mano il resto della città.
Federico pose subito Viterbo sotto assedio, ma non riuscì ad espugnarla; il cardinale Ottone lo convinse a desistere dall’impresa, garantendo personalmente  sull’incolumità della guarnigione. E invece Ranieri, volendo andare a fondo alla cosa, aggredì gli imperiali sottoponendoli a maltrattamenti: Innocenzo stesso condannò il vergognoso comportamento del cardinale e minacciò Viterbo di censure ecclesiastiche, ma i prigionieri non furono liberati. Alle ulteriori proteste dell’imperatore, il papa fece presente che in fin dei conti <Viterbo era pur sempre una città dello Stato della Chiesa. E le trattative poterono così concludersi in un accordo che fu giurato a Roma, dove Innocenzo aveva potuto nel frattempo rientrare, il 31 marzo del1244 in Laterano dai plenipotenziari  Imperiali. Federico II garantiva l’impunità dei sostenitori del papa e la restituzione dei territori della chiesa, condizione essenziale per il proscioglimento  della scomunica; non era stata chiarita la questione dei diritti imperiali in Lombardia e questo fu l’aspetto precario delle condizioni di pace che ne determinò di li a breve tempo il fallimento. Infatti, quando gli ambasciatori di Federico si presentarono al Papa per conoscere le penitenze a cui doveva assoggettarsi l’imperatore per ottenere il proprio scioglimento dalla scomunica, fu risposto che condizione determinante e primaria era la immediata restituzione dello Stato della chiesa. Ci fu ovviamente un rifiuto da parte della delegazione imperiale, al quale Federico stresso cercò di rimediare prospettando al papa una immediata restituzione  di una parte dei territori, pregandolo però di concludere  la cosa in un incontro personale  con lui. Innocenzo accettò e , poiché l’imperatore aveva preso residenza a terni, si portò a Narni, ma poi di lì andò  a Civitacastellana , preferendo inviare a terni il cardinale Ottone per tastare il terreno; in realtà lo scoglio era costituito dalla restaurazione dei diritti imperiali in Lombardia, conquista irrinunciabile per Federico, ma che al papa appariva come un pericolo mortale per la libertà della chiesa e la sua stessa incolumità, stretto come sarebbe stato fra due fuochi  in un Italia perlopiù imperiale.
Così improvvisamente, Innocenzo IV decise di troncare ogni trattativa e mettersi in guerra con federico, cercando alleati oltre le Alpi; il 27 giugno abbandonata Civitacastellana e, travestito, raggiungeva Civitavecchia, dove lo attendevano delle galere genovesi.. Salpato di lì il 30 giugno, raggiungeva Genova, dove si trattenne per malattia fino ai primi di ottobre, proseguendo poi la sua fuga verso Lione, dove aveva deciso di convocare un concilio ecumenico, che giudicasse Federico II, per il giugno del 1245.
Intanto nell’agosto del 1244 Gerusalemme era nuovamente caduta nelle mani dei Turchi; il Patriarca Alberto d’Antiochia , desideroso di vedere in pace il papa e l’imperatore, con il quale era in amichevoli rapporti, per predisporre un clima favorevole ad una nuova Crociata, si fece intermediario di un recupero delle trattative. Ma il comportamento di Federico mandò a monte tutto: le sue truppe avevano invaso lo Stato della Chiesa e posto nuovamente sotto assedio  Viterbo. Il patriarca di Antiochia, che era riuscito ad ottenere da Innocenzo la promessa del proscioglimento della scomunica, fece pressioni sull’imperatore perché desistesse dall’Impresa ; Federico tolse l’assedio, ma il cardinale Ranieri, che fungeva in Italia da controllore pontificio sullo stato della Chiesa, denunciò immediatamente l’accaduto al papa, che fece marcia indietro. E tutto fu rimesso al concilio. Il tredicesimo concilio ecumenico si aprì a Lione il 28 giugno del 1245, ma i prelati intervenuti erano soprattutto spagnoli e francesi, oltre ad alcuni inglesi ; argomento principale, la posizione di Federico II, rappresentato e difeso dal giudice Taddeo di Suessa. Il 17 luglio egli veniva scomunicato e deposto dalla carica d’imperatore; fu ritenuto colpevole di eresia , di essere venuto meno al giuramento di vassallaggio al papa e di avere tenuto prigionieri i prelati che si stavano recando a Roma per il concilio bandito da Gregorio IX. I suoi sudditi tedeschi e italiani vennero sciolti dal giuramento di fedeltà e il collegio elettorale e germanico ricevette l’ordine di procedere ad una nuova elezione.
La deposizione di Federico fece un enorme impressione sull’Europa del tempo e la cancelleria dell’ex imperatore fu quanto mai attiva nel diffondere editti ad appelli a tutta la cristianità perché insorgesse contro l’Anticrsto rappresentato da Innocenzo IV: si rinnovò subito il clima di guerra ideologica   e militare che aveva caratterizzato lo scontro tra Federico e Gregorio IX, e il re di Francia cercò invano d’interporvi la sua mediazione.
In Germania il nuovo re, Enrico Raspe, riusciva anche a sconfiggere il figlio di Federico, Corrado, ma nel febbraio del 1247 moriva. In Sicilia era il caos, con sommosse e congiure in continuazione; l’imperatore vagava nell’Italia settentrionale, dove poteva contare su Ezzelino da Romano e il figlio Enzo, ma la sua vita era in pericolo tra i comuni in continuo fermento. Riuscì a mettere sotto assedio Parma, ma gli assediati il 18 febbraio  del 1248 in una improvvisa sortita distruggevano l’enorme tendopoli di Vittoria eretta dall’imperatore nei pressi della città; negli scontri trovò la morte Taddeo di Suessa e Federico si salvò a stento rifugiandosi presso Cremona. Nel maggio dell’anno dopo gli veniva anche meno l’aiuto di Enzo, sconfitto e fatto prigioniero nella battaglia di Fossalta dai Bolognesi. A questo punto si trasferì nel sud; diffidente ormai di tutti , giunse a fare accecare il cancelliere Pier delle Vigne, supponendo oreo di segrete intese col papa, e lo rinchiuse in carcere dove l’incolpevole giurista si uccise. L’Alighieri così lo ricorda nel suo inferno ( XII,58-78).
Federico era ormai solo e non lo entusiasmò neanche la notizia delle vittorie riportate da Ezzelino al nord; il 13 dicembre del 1250 moriva a Fiorentino, in Puglia, all’età di cinquantasei anni. Come lui aveva goduto per la morte di Gregorio IX, così allora fu il papa a manifestare la propria gioia per la scomparsa del “ nemico giurato della Chiesa cristiana” con lettere ai sovrani europei rimaste famose per il trono sprezzante nei confronti del defunto imperatore e poco dignitose in verità per il vicario di Cristo in terra.
Innocenzo IV lasciava Lione dopo la Pasqua del 1251 e ai primi di novembre era a Perugina, dove si trattenne un anno e mezzo. Ora lo attendeva lo scontro con gli eredi di Federico II: in Germania Corrado IV e in Puglia Manfredi, il figlio nato da una relazione dell’imperatore con la contessa Bianca Lancia, che fungeva da luogotenente del fratellastro in Italia. Il papa era intenzionato ad incorporare nello Stato della Chiesa il regno di Sicilia, deciso a stroncare qualsiasi rivendicazione Sveva; così quando il re Corrado nell’ottobre del 1251 scese dalla Germania fino alla Sicilia, ricevendo dalle mani di Manfredi il governo del regno dell’Italia meridionale, senza incontrare peraltro resistenze nel fratellastro, al quale concedeva solamente il principato solo il principato di Taranto, il papa oppose un netto rifiuto agli ambasciatori di Corrado che chiedevano il riconoscimento di costui a re di Sicilia e imperatore.
Fu allora che Innocenzo, comprendendo di non poter contrastare solo con i propri mezzi militari e finanziari la potenza sveva, pensò di affidare la conquista del regno di Sicilia a un principe straniero; svanite in un primo tempo le trattative con Carlo d’Angiò, il cardinale Ottobono Fieschi, suo nipote e futuro papa con il nome di Adriano V riuscì a concludere nel 1253 un accordo preciso con Enrico III d’Inghilterra per l’investitura della Sicilia nella persona del figlio di nove anni , il principe Edmondo.
Scomunicato nell’aprile del 1254 Corrado IV, accusato di commettere soprusi contro la Chiesa, Innocenzo IV conferiva ufficialmente l’investitura del feudo di Sicilia al principe Inglese il 14 maggio, ma undici giorni dopo Corrado IV moriva improvvisamente all’età di soli 26 anni. L’accordo momentaneamente veniva accantonato in attesa degli eventi, perché nel testamento Corrado aveva affidato il figlioletto di due anni Corradino alla custodia della Chiesa, incaricandone indirettamente della tutela il papa, quale presupposto ad un suo futuro riconoscimento come re di Sicilia. Innocenzo IV doveva vedere la reazione di Manfredi e per questo si recò ad Anagni, ai confini dello stato della Chiesa, dove ricevette una delegazione germanica guidata da Manfredi stesso, che richiese ufficialmente il riconoscimento di Corradino. Il papa affermò che avrebbe preso in considerazione gli eventuali diritti del piccolo svevo quando questi avesse raggiunto la maggiore età;per ora, forte della tutela di cui era stato insignito da Corrado, esigeva l’immediata consegna del regno. Manfredi, che si sottomise al papa senza riserve, probabilmente per prendere tempo anche lui e allontanare il pericolo dell’investitura del principe Edmondo, fu nominato vicario pontificio nel sud, con la conferma del feudo di Taranto.
Innocenzo IV aveva finalmente raggiunto lo scopo della sua politica: era a tutti gli effetti sovrano dell’Italia meridionale e non esitò a partire verso il sud per prenderne possesso. Improvvisamente, ma per breve tempo, lo Stato della Chiesa diventa immenso come poi non fu mai più, dalla Toscana alla Sicilia .
Nel suo viaggio verso Napoli Innocenzo passò tra ali di folla esultanti e nella città partenopea, ove giunse il 27 ottobre del 1254, ebbe onoranze splendide. Già aveva dato le prime istruzioni per l’impostazione dell’amministrazione pontificia, con concessione di autonomia ad alcune città, distribuendo privilegi e favori per l’immediata instaurazione della sovranità papale, quando seppe che Manfredi stava tramando in Puglia alle sue spalle. Organizzava tumulti e soprattutto aveva ripreso al proprio servizio le schiere dei Saraceni, già fedeli a suo padre; l’esercito pontificio si organizzò in una resistenza a Foggia, dove venne sconfitto il 2 dicembre.
La triste notizia raggiunse Innocenzo che giaceva infermo a Napoli, nel palazzo che era stato di Pier della Vigne; morì cinque giorni dopo, il 7 dicembre del 1254 Fu sepolto in un primo tempo nella chiesa di S. Restituta, ma le sue ossa furono poi definitivamente traslate nella cattedrale di S. Gennaro, in un fastoso monumento funebre che gli fu  eretto nel 1318.
Fu essenzialmente un politico e, sia pure per pochi giorni, vide coronato il sogno di alcuni suoi predecessori; certamente il comportamento tenuto nei confronti degli ultimi Svevi può apparire un po’ avventato ed è un fatto che il deciso abbandono di una politica filogermanica avrebbe avuto bisogno di maggior coerenza, per affrontare l’intrico dei singoli regni e principati tra i quali si stava invischiando il papa ormai solo, privo del suo imperatore.
Con l’impero minacciava di decadere anche la potenza politica del papato nel contesto europeo e rischiava così di essere compromessa la portata universale del messaggio cristiano della Chiesa. Una dimostrazione poteva offrirla gia il fatto che l’appello rivolto a Lione nel 1243 a tutte le nazioni per una nuova crociata fosse stato raccolto soltanto dal re di Francia Luigi IX, in una spedizione che si risolse oltretutto in un disastro, completamente inascoltato rimase poi l’appello a una crociata contro i Mongoli. Più redditizia si fece invece l’attività missionaria con i due grandi ordini dei Francescani e Domenicani, dall’Europa  orientale fino al Caracorum, in una serie di iniziative di ampio respiro evangelico. Macchia indelebile resta poi la bolla Ad extirpanda emenata nel 1252, con la quale Innocenzo IV permise che l’ Inquisizione facesse uso della tortura



Papa Alessandro IV  (1254-1261)
Papa Urbano IV       (1261-1264)
Papa  Clemente IV   (1265-1268)
Papa Gregorio X      (1271-1276)
Papa Innocenzo V    (1276)
Papa Adriano V       (1276)
Papa Giovanni XXI (1276-1277)
Papa Niccolò III      (1277-1280)
Papa Martino IV     (1281-1285)
Papa Onorio IV       (1285-1287)
Papa Niccolò IV       (1288-1292)
Papa Celestino V      (1294)










Papa BONIFACIO VIII  (1294-1303)

Dieci giorni dopo l’abdicazione di Celestino V, secondo le disposizioni gregoriane ristabilite dal papa eremita, il conclave si radunò nel Castelnuovo di Napoli il 23 dicembre 1294; fu brevissimo perché gia il 24 si raggiunse la maggioranza  dei due terzi e fu eletto il cardinale Benedetto Castani,che assunse il nome di Bonifacio VIII . Ci fu probabilmente simonia;  Dante ne era certo, categorico come fu nel destinare Bonifacio a far compagnia tra i simoniaci a Niccolò III (inferno, XIX,52-57) e mettendo in bocca a Guido da Montefeltro l’espressione “ io principe dé nuovi farisei” (inferno XXVII, 85) . Chiaramente si era accordato con i suoi elettori da quando aveva consigliato Celestino V ad abdicare..
Nato nel 1235 ad Anagni, apparteneva alla nobile famiglia dei Castani, discendente da Galasio II, una famiglia che però solo con questo papa era destinata a raggiungere un enorme importanza in seno allo stato della Chiesa con l’acquisto di grandi proprietà terriere e notevoli mezzi finanziari. Esperto di diritto, grazie agli approfonditi studi a Todi e Bologna, aveva fatto una rapida carriera ecclesiastica con missioni di fiducia presso le corti di Francia e Inghilterra, entrando a far parte del collegio dei cardinali nel 1287.
Come primo atto del suo pontificato, egli si affrettò a riportare a Roma la residenza papale da Napoli, per sottrarre la curia all’influsso di Carlo II, che aveva chiaramente condizionato il suo inesperto predecessore. Per questo Bonifacio VIII dichiarò nulle le decisioni affrettate prese da Celestino V, pur riservandosi di condurre a buon fine le trattative già avviate dall’Angioino con Giacomo d’Aragona per il recupero della Sicilia.
Bonifacio VIII fu incoronato in San Pietro il 23 gennaio 1295 in un’atmosfera di grandiosa sontuosità, con la cornice di tutti i nobili romani e la presenza del re Carlo e suo figlio Carlo martello. Ma su quella fastosa cerimonia incombeva minacciosa, pur nella sua umiltà, l’ombra di Celestino V; probabilmente Bonifacio non si sentiva tranquillo finché lo sapeva libero nell’eremo sul Morrone. Qualcuno avrebbe sempre potuto insinuare che il cardinale Castani avesse fatto pressione, sul quel “povero cristo” spingendolo ad abdicare; voci in tal senso avrebbero fatto presto acircolare , accreditate dai Cardinali francesi contrari a Bonifacio VIII, fino a sostenere nulla quella bolla di abdicazione. Era meglio soffocare ogni sospetto e far presente all’ingenuo eremita che “ un papa abdicatario non aveva più alcun diritto di essere libero”, facendogli intendere, secondo quanto ipotizza il Gregorovius, “che i doveri della pietà religiosa esigevano dopo la rinuncia alla tiara, quella della Libertà”.
A comunicare questo messaggio si prestò in pieno Carlo II, con un atto di cortese vassallaggio, al quale invano Pietro da Morrone cercò di sottrarsi con la fuga, restio ovviamente ad espletare certi estremi “doveri” inventati e perversamente impostogli da Bonifacio VIII . Come già ho ricordato nella sua biografia, catturato il 16 maggio 1295 dal connestabile del regno, Guglielmo l’Estendard, e consegnato al papa, avrebbe trovato la morte nella rocca prigione di Fumone. Il sospetto che egli sia stato assassinato per ordine di Bonifacio resta, e a lungo se ne è sempre discusso senza però giungere ad una conclusione certa in una situazione che ricalca per molti aspetti quella verificatasi più di sette secoli prima con i pontefici Silverio e Virgilio. Ma in ogni caso la prigionia di Celestino V, certamente voluta da papa Castani, è già di per se una colpa gravissima assolutamente inconfutabile, che da sola condanna questo pontefice.
Una volta messo in carcere Celestino V, comunque Bonifacio VIII si sentì più sicuro sul trono e si affrettò a ripagare Carlo il favore. Il 20 giugno 1295 Giacomo II d’ Aragona con la pace di Anagni rinunciava ai diritti sulla Sicilia a favore della Chiesa , che la rassegnava a Carlo II. Ma il passaggio delle consegne non ci fu, perché i siciliani non vollero rinunciare alla loro autonomia e riconobbero come unico signore Federico, già governatore dell’isola da quando il fratello Giacomo II regnava in Aragona. Il 25 marzo del 1296 veniva incoronato re nel duomo di Palermo; in praticala politica pontificia si avviava ad una sconfitta, che fu sanzionata ufficialmente nella pace di compromesso firmata nel 1302 a Caltabellotta tra Roberto, figlio di Carlo II, e Federico che, vita natural durante , otteneva dalla chiesa la Sicilia come feudo col titolo di re di Trinacria. Ma in realtà l’isola non fu più restituita agli Angioini , legata agli Aragonesi  come avamposto della futura espansione spagnola nel Mediterraneo, che il papato non avrebbe mai potuto frenare.
L’episodio della Sicilia non costituisce comunque un caso a sé nella storia delle relazioni tra la Chiesa e gli stati; non è l’unico smacco subito da Bonifacio VIII nel contesto Europeo. Egli era destinato a chiudere il bilancio di simili relazioni  in modo umiliante per lui e la Chiesa, non per debolezza o inabilità personale, ma per l’anacronismo dell’ideologia da cui si lasciò guidare. Attraverso una serie di bolle appare infatti chiaro come secondo Bonifacio VIII la sfera del potere ecclesiastico dovesse dilatarsi fino ad assorbire quello temporale dei principi, perché la sovranità  papale non poteva conoscere limiti, essendo “ plenitudo potestatis” per la sua origine divin. Era una concezione tutta medioevale spinta alle estreme conseguenze logiche, in un epoca in cui però il Medio Evo volgeva al tramonto e si profilavano le grandi nazioni.
Tutto cominciò con la pubblicazione della bolla Clericis laicos del 25 febbraio 1296; proibiva ai laici, sotto la minaccia di scomunica e interdetto, d’imporre qualsiasi tassa e imposta agli ecclesiastici senza il consenso della Chiesa di Roma, e inoltre vietava agli ecclesiastici , sotto uguali pene, di versare tali contributi. La bolla stigmatizzava su un piano storico l’ostilità tra laicato e clero e si impostava così la grande questione, secondo le parole del Seppelt, “se oltre al papato, padrone assoluto dei beni della Chiesa in virtù del suo potere giurisdizionale, spettava anche allo stato un diritto autonomo di esazione tributaria dalle sue chiese e dai conventi”. Per lo stato era un gioco  addirittura la sua stessa esistenza.
In Germania il nuovo re Adolfo di Nassau, temendo un’opposizione di alcuni principi e vescovi alla propria candidatura imperiale, non si oppose all’applicazione della bolla ; in Inghilterra Eduardo III  non avrebbe voluto tenerne conto, ma dovette arrendersi di fronte alla ferma opposizione dei vescovi al pagamento di nuove imposte.
In Francia le cose presero un’altra piega; il re Filippo il Bello rispose alla bolla con due editti nei quali si vietava ai clerici e laici l’esportazione di oro, argento e preziosi, e proibiva agli stranieri la residenza nel suo regno, il che significava l’impossibilità per la Curia di inviare oltralpe i legati per la riscossione dei tributi. Il papa cominciò ad esser malvisto in Francia, dove circolavano ribelli contro di lui; i vescovi, come i cardinali in conclave, erano perlopiù ostili al suo comportamento, e questo poteva rinfocolare sentimenti di autonomia in seno alla chiesa francese. Allora Bonifacio si rese conto di dover venire ad un accomodamento della legge emanata nella Clericis laicos ; autorizzò pertanto Filippo  il Bello a riscuotere le imposte del clero in caso di estrema necessità, anche senza consultazione papale. Il re da parte sua revocò gli editti e la pace tra Francia e Papato fu ulteriormente concretizzata dalla solenne canonizzazione di Luigi IX, nonno di Filippo , il 17 agosto del 1297.
Questo improvviso mutamento nei rapporti con la Francia, con un cedimento in pratica umiliante della chiesa di fronte a uno stato, si spiega con la precaria situazione in cui venne a trovarsi il papa a Roma per il carattere dispotico  del suo potere. Infatti si era inimicato molti membri dell’aristocrazia romana e in particolare i Colonna; due Cardinali di questa famiglia, Giacomo e Pietro, lo criticarono apertamente in curia dichiarando che la sua elezione non era legittima perché non valida, a sua volta, l’abdicazione di Celestino V. Si erano fatti promotori di un’aspra opposizione di una parte del clero e del popolo di Roma  e della campagna circostante, trovando sostegno negli spirituali francescani; portavoce di quest’ultimi era Iacopone da Todi, che  in una delle sue veementi laudi arrivò a chiamare il papa “novello anticristo”. La lotta si concretizzò il 10 maggio 1297 nella sottoscrizione di un memoriale, il cosiddetto “ manifesto di Lunghezza”, da parte dei Colonna e di diversi Spirituali, che dichiarava decaduto il pontefice e intimava ai fedeli di negargli l’obbedienza.
La reazione di Bonifacio fu violenta e tempestiva; i due cardinali furono destituiti, con un apposita bolla che sottolineava gli oltraggi della loro “ dannata stirpe e del loro dannato sangue”, che avrebbe voluto sterminare perché essa sollevava in ogni tempo il suo capo pieno di superbia e di disprezzo.
Alla bolla i due cardinali reagirono con un nuovo memoriale, protestando per l’ingiusta condotta del papa; Bonifacio VIII da parte sua ordinò la confisca dei loro beni. In effetti i Colonna speravano in un intervento di Filippo il Bello, ma il re non se la sentì di complicare la situazione dei rapporti con Roma, dal momento che il papa lo aveva in fondo accontentato sulla questione dei tributi ecclesiastici.
Le rocche dei Colonna caddero una dietro l’altra: Zagarolo e Palestrina furono distrutte. Jacopone fu imprigionato in un convento e scomunicato; solo dopo la morte di Bonifacio sarebbe stato riabilitato. I due cardinali Colonna, scomunicati, furono espulsi dallo stato della Chiesa e ripararono presso Filippo, alla cui corte avrebbero seguitato a tramare contro il papa; i beni confiscati ai Colonna vennero divisi tra i Castani e i loro tradizionali nemici, gli Orsini. Roma raggiunse una pace apparente; e in questo clima di armistizio Bonifacio VIII decise di celebrare il primo GIUBILEO della storia
La bolla con cui fu indetto l’Anno Santo è del 22 febbraio 1300, la Antiquorum habet fidem; essa decretava un’indulgenza Plenaria per tutti coloro che nell’anno in corso e in ogni futuro centesimo anno avessero visitato le basiliche di San Pietro e San Paolo a Roma. L’avvenimento  fu veramente eccezionale: tutti i cronisti del tempo concordarono nel riferire l’afflusso a Roma di un enorme numero di pellegrini. Villani ne calcolò duecentomila.
Di pellegrini in massa a Roma parla anche Dante, una prima volta per la “Veronica” e una seconda per il giubileo; in un sonetto della Vita Nova (XL,24) , e nell’inferno, rievocando l’afflusso di un “esercito molto”, a significare la continua processione di gente che entrava e usciva dalla città (XVIII,28 e 31-33).
L’avvenimento costituì per Bonifacio, a parte gli abbondanti proventi finanziari derivati dalle offerte e dall’incremento turistico, un rafforzamento del proprio prestigio scosso dalle recenti lotte con i Colonna e dalle mortificanti insinuazioni rivolte alla legittimità del suo pontificato. Il giubileo, in questo senso, servì a rinvigorire in lui la consapevolezza  dell’ostentato primato tra i sovrani della terra : “ in quei giorni potè assaporare nella sua pienezza il senso della propria potenza quasi divina” come nota il Gregorovius, vedendo “affluire a migliaia da tutte le parti del mondo, pellegrini che giungevano fino al suo trono per gettare nella polvere davanti a lui come di fronte a un essere soprannaturale”. Mancarono in verità tra i pellegrini i grandi sovrani, a parte il principe Carlo Martello, ma Bonifacio non ci badò, recitò pieno la sua parte tanto da mostrarsi più volte ai “romei” nello splendore delle insegne imperiali, esclamando:” io sono Cesare, io sono l’imperatore”. E commenta il Seppelt: “ Egli voleva riunire nelle sue  mani ambedue le spade del potere spirituale e temporale, e non voleva riconoscere come la sua reale potenza fosse illusoria”. Tutto ciò però si evidenziò appena terminato l’anno santo, nella lotta che ricominciò con la Francia.
Infatti Filippo il Bello impersonava un concetto nuovo di sovranità: “ non riconosceva nessuno al di sopra di se”, come nota il cronista Pierre Dubois, e aspirava ad una posizione di preminenza in Europa, senza contare che nel suo regno egli si considerava imperatore. Non a caso dal 1299 aveva stretto una alleanza di amicizia e di pace con Alberto d’Asburgo, nuovo re di Germania, accusato però apertamente dal papa di avere assassinato Adolfo di Nassau e invitato a comparire a Roma  per giustificarsi del delitto di lesa maestà. Un sovrano così cosciente della propria potenza e così chiaramente anticlericale come Filippo non poteva non farla da padrone anche nei confronti della chiesa francese, con usurpazioni di beni ecclesiastici, che portarono a un nuovo conflitto tra lui e Bonifacio VIII.
Il 4 dicembre 1301 il papa con la bolla Salvator Mundi abolì i privilegi concessi al re, di cui questi aveva abusato, e il giorno seguente in un'altra bolla, Ausculta fili, convocò per il 10 novembre dell’anno seguente a Roma l’episcopato francese insieme a Filippo per un concilio, nel quale si definissero una volta per tutte i rapporti tra Stato e Chiesa, In quest’ultima bolla Bonifacio esponeva chiaramente il concetto che solo il papa era stato posto da Dio al di sopra di qualsiasi sovrano, per cui Filippo non poteva presumere di non aver alcun superiore; egli era sottomesso al papa, col quale doveva discolparsi.
Filippo fece diffondere in Francia un riassunto delle due bolle, in gran parte deviante dagli originali, e per rafforzare il fine tendenzioso d’inasprire l’opinione pubblica contro il papa, mise in circolazione una sua lettera di risposta a Bonifacio, in realtà mai inviata a Roma, nella quale si dichiarava che il re, nelle cose temporali, non era suddito a nessuno. Nell’aprile del 1302 Filippo riuniva poi a Parigi gli stati Generali che approvarono il suo comportamento; venne redatta nell’occasione una lettera al papa approvata all’unanimità, e quindi anche dal clero, nella quale si protestava per l’atteggiamento offensivo di Bonifacio verso il re di Francia che da parte sua proibiva all’episcopato francese di partecipare al concilio di Roma.
Ciononostante a Roma trentanove vescovi francesi ci andarono ugualmente e vennero poi puniti da Filippo con la confisca dei Beni; frutto dell’Assemblea fu in pratica la famosa bolla Unam Sanctam , emanata il 18 novembre 1302. Essa ribadiva in termini dogmatici che “ nella potestà della chiesa sono distinte due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la chiesa, quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote “, perché “ la potestà spirituale deve ordinare e giudicare la potestà temporale”. Pertanto “chi si oppone a questa suprema potestà spirituale, esercita da un uomo ma derivata da Dio nella promessa di Pietro, si oppone a Dio stesso. E’ quindi necessario per ogni uomo che desidera la sua salvezza assoggettarsi al vescovo di Roma”.
Per tutta risposta Filippo convocò al Louvre il 12 marzo 1303 il suo consiglio di Stato, nel quale Guglielmo di Nogaret espose perla prima volta delle accuse circostanziate contro il papa, confortate dal memoriale dei Cardinali Colonna presenti a Parigi; Bonifacio era ritenuto papa illegittimo, eretico e simoniaco , per cui il re si sentì autorizzato a convocare un concilio generale a Parigi, che in pratica sarebbe stato un vero e proprio processo contro il papa. Occorreva però la presenza di questi all’assemblea, per cui Guglielmo di Nogaret ricevette dal re l’incarico segreto di arrestarlo e condurlo a Parigi.
Bonifacio VIII si rese conto che la situazione precipitava e si affrettò a comunicare con uno scritto a Filippo di essere incorso  nella scomunica per avere impedito all’episcopato francese di recarsi a Roma per il concilio; era in realtà un modo per prendere tempo in attesa degli eventi. Comunque il latore dell’epistola fu arrestato per ordine del re e la lettera non ottenne alcuno scopo. Il papa cercò allora di guadagnarsi l’appoggio di Alberto d’Asburgo; si conciliò con lui e in concistoro del 30 aprile lo riconobbe re di Germania, nonché monarca sovrano di tutti i re della terra, in previsione di una sua incoronazione imperiale. Era un modo efficace per spezzare l’alleanza franco- tedesca, e in effetti Alberto promise solennemente al papa protezione e difesa contro tutti i suoi nemici; ma poi, al momento opportuno, questa promessa non ebbe una pratica attuazione. A metà giugno a Louvre si ebbe una nuova assemblea degli Stati Generali, una sorta di istruttoria contro Bonifacio VIII ; sostituiva nella pubblica accusa il Nogaret, partito per Romanella missione segreta, il suo amico Guglielmo di Plasian. Il papa fu accusato di essere sodomita e assassino di Celestino V, di negare l’immortalità dell’anima e di aver costretto alcuni sacerdoti alla rottura del segreto confessionale. Il re si disse convinto della necessità di convocare il  concilio ecumenico che destituisse il papa¸ nonostante l’opposizione di numerosi appartenenti a Ordini Minori, che finirono in prigione, la massa del clero e del popolo francese manifestò compatta la sua adesione alle decisioni del re.
Alla notizia degli avvenimenti, il papa, che si trovava ad Anagni, respinsein un concistoro tutte le accuse e preparò una bolla di scomunica del re, la Super Petri solio, che doveva essere proclamata l’8 settembre 1303, ma il giorno precedente scoppiò il complotto che ne impedì la pubblicazione.
Guglielmo di Nogaret, in Italia dalla primavera di quell’anno, si era messo in contatto con la famiglia Colonna, nemica mortale del papa, e il cui capo era allora Sciarpa; si organizzò una congiura che si estendeva dalla borghesia  di Anagni a una parte del collegio dei cardinali. La mattina del 7 settembre i congiurati fecero irruzione nella cittadina al grido di “viva il re di Francia  e i Colonna” e spinsero gli abitanti all’assalto del palazzo pontificio, che la sera cadeva nelle mani dei congiurati. Bonifacio VIII, abbandonato dagli stessi servitori, rivestì le insegne della sua dignità e,con la tiara in testa, attese gli aggressori seduto sul trono.
Quando Nogaret e Sciarpa Colonna entrarono nella sala gli intimarono di reintegrare i due cardinali Colonna nelle loro funzioni, di abdicare e consegnarsi prigioniero se voleva avere salva la vita: “Ecco la mia nuca, ecco la mia testa!” gridò il papa, respingendo indignato quelle condizioni. Se è solo frutto di fantasia il fatto che Nogaret abbia schiaffeggiato il papa con il suo guanto di ferro, certamente fu maltrattato, ingiuriato e specialmente da Sciarpa Colonna, che avrebbe desiderato la sua morte. L’affronto riempì di sdegno anche molti avversari della sua politica come Dante, che considerò l’offesa come rivolta a Cristo stesso (purgatorio, XX, 86-90) . Nogaret non voleva la morte di Bonifacio; era deciso a portare il papa alla presenza del suo re, al contrario di Colonna. E a questo contrasto di opinioni salvò la vita al papa; dopo tre giorni di prigionia, la borghesia di Anagni improvvisamente si volse a difesa del concittadino e con un rinnovato assalto al palazzo pontificio il 9 settembre mise in fuga i congiurati e liberò Bonifacio.
La sera di quello stesso giorno il papa benedì il popolo e lo perdonò, non si sentiva più al sicuro nel paese natale; sotto la protezione degli Orsini il 25 settembre tornava a Roma, stroncato nel fisico e nel morale, un’ombra ormai del grande papa che si era illuso di essere . Morì l’11 ottobre del 1303 e fu sepolto in S. Pietro, nella cappella Castani che si era fatto appositamente costruire da Arnolfo di Cambio; essa però fu poi abbattuta quando venne edificata la nuova basilica e le sue spoglie finirono allora nelle grotte del Vaticano.
E’ indiscutibile che quella tomba “è il monumento del papato medioevale che le potenze dell’epoca seppellirono con lui”  come nota il Gregorovius; “ fu l’ultimo papa a concepire l’idea della chiesa gerarchica dominatrice del mondo” Questa mania di grandezza  è confermata anche dal suo mecenatesimo: dietro la fondazione dell’università della Sapienza a Roma, e del duomo di Orvieto e Perugia , affiora  una follia che si concretizzò in una narcisistica idolatria.
Nessun papa prima di lui si fece immortalare ancor vivo in un così gran numero di statue in marmo e bronzo, tuttora visibili ad Orvieto, Bologna, Firenze, Anagni e nel Laterano, senza contare l’affresco di Giotto, che lo tramandò ai posteri  mentre leggeva dalla loggia di S. Giovanni la bolla di proclamazione del giubileo. Questa mania non costituisce un semplice peccato di debolezza, nel segno di una smodata ambizione della fama postuma; è boria e superbia in un autentica divinizzazione della propria persona. La colpa più grave in cui potesse incorrere colui che in effetti avrebbe dovuto essere, secondo le parole di San Gregorio magno, “servus servorum Dei”.


Papa Benedetto XI     (1303.1304)

Papa CLEMENTE V      (1305-1314)

Già tre giorni dopo la morte do Benedetto XI, senza rispettare il decreto gregoriano sul conclave, i cardinali si radunarono nel palazzo arcivescovile di perugina, sperando di arrivare a una sbrigativa elezione, che frenasse sul tempo eventuali ingerenze esterne. Il collegio dei cardinali si presentò però profondamente diviso in due fazioni, quella filo italiana con i cardinali Matteo Orsini e Francesco Castani e quella filo francese con a capo Napoleone Orsini e Niccolò da Prato, sulla quale incombeva la longa manus di Filippo il Bello . Le liti tra i porporati andarono avanti un anno intero, accompagnati dagli scontri armati tra i sostenitori delle opposte fazioni a Roma e un po’ in tutto lo Stato della Chiesa; ma alla fine si raggiunse un compromesso. I cardinali filo italiani  avrebbero proposto una terna  di candidati, tra i quali la fazione filo francese avrebbe scelto il nuovo papa ; si dette il caso che i tre proposti, pur essendo Francesi,  erano avversari di Filippo il Bello, al quale fu subito comunicata la notizia, con la controproposta dell’Arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got. Il re convocò immediatamente a Parigi il candidato dei Francesi e si accordò con lui; secondo quanto riferisce il Villani l’Arcivescovo avrebbe promessola re,  in caso di elezione, larghe concessioni tra cui l’uso di “ tutte le decime del reame per cinque anni”  (VIII, 80) Anche Dante è convinto che Bertrand de Got “ pastor senza legge” abbia raggiunto il papato “ comperandosi”  il potente appoggio di Filippo e gli assegnò per questo un posto nel suo Inferno tra i simoniaci (XIX, 83 e 85-87) . Bertrand de Got nativo di Villandraunt nella Gironda, fu dunque eletto il 5 luglio 1305; guascone, aveva studiato a Orleans e Bologna, ed era stato eletto arcivescovo di Bordeaux da Bonifacio VIII. Era comunque in amichevoli rapporti col re di Francia e, desideroso di diventare pontefice, si arrese completamente ai suoi desideri; il primo atto, significativo in tal senso, fu la comunicazione inviata ai propri elettori di trasferirsi in Francia, perché egli desiderava essere incoronato nella sua patria.
Il che avvenne il 14 novembre 1305 a Lione, nella chiesa di St. Giust, alla presenza di Filippo il Bello, di Carlo di Valois, del duca Giovanni di Bretagna e di numerosi baroni francesi; Bertrand de Got assunse il nome di CLEMENTE V .Durante la processione che fece seguito alla cerimonia si verificarono degli incidenti che la voce popolare interpretò subito come segni di malaugurio e sventure per il prossimo futuro; un muraglione rovinò addosso al papa che cadde da cavallo, mentre la sua corona rotolò nella polvere e andò smarrito uno splendido diamante. Il Valois restò ferito gravemente, il duca di Bretagna in seguito alle ferite riportate e dodici baroni del seguito rimasero uccisi sul colpo.
Ma questa fatalità, profetizzanti tempi oscuri per la chiesa, non smossero il re e il papa da quanto avevano già deciso nel loro incontro; la sede papale veniva trasferita da Roma in Francia, dapprima a Lione, poi a Cluny, Bordeaux, Poitiers e poi definitivamente in Provenza ad Avignone. In questa città i pontefici sarebbero rimasti per un periodo di circa settanta anni passato alla storia col nome di “ cattività avignonese” i papa , ufficialmente ospiti del re di Napoli, in quanto conte di Provenza, sarebbero stati secondo la voce popolare sottomessi al re di Francia, anche se vicino a Avignone la Chiesa già possedeva il contado Venassimo. E’ un fatto che  i sette papi di Avignone furono tutti francesi e per spirito nazionale legatissimi alla loro terra d’origine. E poi c’è l’assurdità di un vescovo di Roma lontano dalla sua diocesi e di una chiesa apostolica e romana facente capo ad Avignone, dove nessun apostolo si era mai recato. Per tutto questo periodo Roma fu abbandonata a se stessa, nelle lotte fra fazioni, e lo stato della Chiesa sfuggì quasi completamente alla sovranità pontificia in una tale decadenza che rendeva addirittura impossibile un ritorno della curia romana in un prossimo futuro.
Con Clemente V fu già evidente la sottomissione del papato al re di Francia. Già poche settimane dopo la sua elezione infatti si mostrò compiacente ai desideri di Filippo il Bello nominando ben nove cardinali francesi, parenti o amici del re, in modo da consentire un’incondizionata maggioranza dei francesi in seno al collegio cardinalizio, con un effettivo controllo sulla politica della curia; venivano anche reintegrati nella loro dignità i cardinali Giacomo e Pietro Colonna.
Ma la cosa che premeva a Filippo e alla maggioranza dei porporati era l’istruzione di un processo contro Bonifacio VIII; Clemente V cercò finché gli fu possibile di guadagnar tempo e riuscì poi in effetti ad evitare la condanna ufficiale del papa, ma tutto questo  a costo di numerose concessioni pur sempre lesive della personalità di Bonifacio VIII. Esse cominciarono dal febbraio 1306, quando il papa revocò tutti i provvedimenti contro la famiglia Colonna, che questa volta riuscì a rientrare in possesso di quanto le era stato sottratto a vantaggio dei Castani e degli Orsini. A Filippo furono poi concesse le decime ecclesiastiche promesse in pratica dal papa prima della sua elezione; fu inoltre abrogata la bolla Clericis Laicos  e di conseguenza i rapporti del re di Francia con la Chiesa sarebbero rimasti invariati rispetto a quelli goduti dallo stesso prima dell’emissione della bolla.
Clemente V pensò di avere ricompensato adeguatamente il suo re per averlo favorito nell’elezione al pontificato, ma si sbagliava; in un incontro nel maggio del 1308 a Poitiers e i due giunsero ad un aspro dissidio di fronte ad alcune ferme pretese avanzate da Filippo. Questi voleva la condanna di Bonifacio VIII in un vero e proprio processo e il proscioglimento del Nogaret dalla scomunica;  la convocazione di un concilio ecumenico in Francia; lo scioglimento dell’Ordine dei Templari . Quest’ultimo era un ordine di cavalieri che aveva ricevuto la regola ecclesiastica da Bernardo di Chiaravalle in un attività legata alla Terra Santa ; con il tramonto delle crociate, esso aveva perso ogni incombenza pratica ma aveva seguitato a prosperare specialmente in Francia, con l’apertura di numerosi conventi, veri e propri depositi dei tesori raccolti da questi ecclesiastici. Infatti come nota l’Ullmann, “ con lo sviluppo del commercio fra i levante e l’occidente europeo i Templari cominciarono a fungere da banchieri mercantili. Inoltre, essendo molti coloro che avevano depositato gioielli e altri tesori personali pressi i Templari di Francia, l’Ordine era sulla buona per diventare una grande potenza economica, dato anche che godeva di molti privilegi e immunità”. In pratica Filippo voleva impossessarsi di questa immensa fortuna spingendo il papa a sciogliere appunto l’Ordine dei Templari, a costo magari di cedere sul processo a Bonifacio VIII; e così avvenne.
Clemente V da principio dette subito il suo assenso alla convocazione del concilio, mentre sulle altre pretese si mostrò più restio; in realtà cedette gradatamente, ad arte, proprio per arrivare a salvare la memoria di papa Castani fin dove gli fosse possibile.
Riguardo ai Templari il papa pensò di controllare la cosa assegnando pieni poteri ai Vescovi e all’Inquisizione, in modo che varie commissioni nelle singole diocesi potessero esaminare caso per caso la situazione dei conventi ma in realtà egli non ebbe mano libera neanche nella formazione delle commissioni, tutte più o meno direttamente pilotate da Filippo. E queste commissioni ricorrendo alla tortura , riuscirono ad estorcere ai rappresentanti più eminenti dell’Ordine dei templari confessioni di eresia cosiddette autentiche dall’Inquisizione, che provvide di conseguenza a mandarli al Rogo; le ritrattazioni non furono ritenute valide e i colpevoli furono ugualmente ritenuti “ recidivi” come eretici. Gli appelli al Papa di condannati finirono nel nulla; Clemente V ottenne solo di rinviare una decisione definitiva sulla condanna dell’ordine al concilio, convocato per l’ottobre 1310 a Vienne, ma rinviato poi di un anno perché nel frattempo Filippo e la Corte, sospinti dai Colonna, premevano per il processo contro Bonifacio VIII, continuamente differito dal papa e infine iniziato nel marzo del 1310 ad Avignone.
L’accusa fu sostenuta da Guglielmo di Nogaret e Guglielmo di Plasian che facevano parte del consiglio di Stato del re,e fautori di tutte le losche manovre che avevano portato “l’affronto di Anagni” , mentre i due Cardinali Colonna, nemici personali di papa Castani, fungevano da testimoni, ovviamente non a difesa; a questo punto il re capì che però un qualcosa doveva pur concedere al povero Clemente e, di fronte ad un ennesima sua tergiversazione, decise di rinunciare ad un ulteriore umiliazione del papato. Naturalmente non per un senso di pietà, bensì per accattivarsi definitivamente l’assenso del pontefice allo scioglimento dell’Ordine dei Templari in sede di concilio: D’altronde il 27 aprile 1311 nella bolla Rex gloriae Clemente V riconobbe esplicitamente l’innocenza e il “ bonus zelus”  del re nel suo procedimento contro Bonifacio e arrivò a togliere la scomunica al nogaret; infine in tutte le bolle emanate da quel papa furono letteralmente “ raschiati” i passi che contenevano rimproveri contro il re.
Si arrivò così al concilio di Vienne, il quindicesimo ecumenico che fu aperto alla presenza di Filippo il 16 ottobre 1311; era destinato ad occuparsi essenzialmente  dei templari e lo fece a senso unico, sulla base dei processi già avviati dall’Inquisizione  e della relazione di una commissione episcopale francese. Il papa con la bolla Vox in excelso del 3 aprile 1312, approvata all’unanimità dal concilio, decretò lo scioglimento dell’Ordine dei Templari con la semplice giustificazione che esso non adempiva più ai compiti per i quali era stato creato, legati appunto alla Terra Santa e alle crociate ormai venute meno, ed evidenziando che molti suoi adepti erano stati riconosciuti ERETICI. Tutte le ricchezze e le proprietà templari vennero suddivise tra gli Ospedalieri e i Giovanniti, ma su gran parte di esse finì poi per mettere le mani Filippo il Bello, ricco d’inventiva nel trovare scappatoie ed espedienti per dire in ogni circostanza l’ultima parola. Delle torre del Tempio a Parigi fece addirittura il suo castello residenziale durante la rivoluzione sarebbe stata la prigione di Luigi XVI e Maria Antonietta.
Quanto a Bonifacio VIII, il processo nei suoi confronti fu considerato chiuso ovvero annullato; ma ormai la persona di papa Castani era finita nell’ignominia. Il concilio si pronunciò in favore dell’ortodossia della sua fede così che cadde ogni accusa  di eresia e il nome di Bonifacio non fu cancellato dal canone dei pontefici romani. Come annota Walter Ullmann , “ il prezzo pagato dal papato per evitare il processo contro il defunto Bonifacio fu veramente alto: non v’è dubbio che la sua reputazione ebbe a soffrire moltissimo da tutta questa storia” . Oltretutto la canonizzazione di Celestino V, avvenuta in Avignone il 5 maggio del 1313 e fortemente voluta da Filippo il Bello, fu indirettamente la condanna di un altro operato di Bonifacio VIII, la prigionia del papa eremita; in fondo la memoria di Benedetto Castani fu salvata soltanto nella forma, ma non nella sostanza.
Clemente V era molto malato, sempre meno capace di un’azione all’insegna almeno  della diplomazia; le ultime vaghe speranze di restaurare una parvenza di Stato della Chiesa  egli aveva risposte in un primo tempo sul nuovo re di Germania, Enrico VII. Poi, sollecitato  da Filippo  e dando ascolto agli appelli dei Neri di Firenze, che si erano opposti al suo ingresso nella città Toscana, subendone l’assedio e il saccheggio, finì per schierarsi contro di lui e, per bocca del re, di Napoli Roberto d’Angiò, avocò a se il potere imperiale. Morto Enrico VII nel 1313 , svanirono con lui i sogni degli ultimi ghibellini italiani o di idealisti come Dante, che avevano visto in lui il salvatore di un’Italia ormai in preda all’anarchia. Il papa aveva nominato vicario imperiale in Italia Roberto d’Angiò, che era tutto intenzionato a fare i propri interessi; questo fu l’ultimo atto di debolezza di un papa minato, probabilmente fin dall’inizio del suo pontificato, da un male che ora si faceva irreversibile. Trasferitosi negli ultimi tempi a Carpentras, morì a Roquemaure sul Rodano il 20 aprile 1314; fu sepolto a Uzes, ma la tomba andò poi distrutta: Pochi mesi dopo moriva anche Filippo il Bello.
I severi giudizi sempre pronunciati su Clemente V sono stati in parte ridimensionati dalla critica moderna; in genere si tende a giustificare il debole carattere tirando in ballo la sua malattia. L’Ullmann parla comunque  di “ mancanza di diplomazia, di esperienza, di addestramento e di capacità intuitive, il che spiega il vero e proprio capitombolo del papato” . Ma oltretutto, se egli non era in perfette condizioni fisiche già al momento della sua elezione, ancor più gravi appaiono le losche manovre da lui architettate per arrivare al pontificato che, con un fisico malandato, non avrebbe potuto in tutta coscienza condurre in porto in piena libertà d’azione.
In ultima analisi ogni giustificazione di questo tipo si vanifica di fronte all’acceso nepotismo che contraddistinse il suo pontificato; come ricorda il Seppelt,” non meno di cinque membri della sua numerosa famiglia furono ammessi al collegio dei cardinali; parecchi altri furono corredati di episcopati e taluni di ricchi benefici. Ai parenti secolari furono conferiti uffici lucrativi nello stato della Chiesa, e persino nel suo testamento Clemente fece loro notevoli assegnazioni tanto che, sotto il suo successore, si giunse ad uno spiacevole processo” E’ difficile insomma difendere un papa di questa fatta sia come uomo politico sia come uomo di chiesa ; proprio alla luce di certe osservazioni, sembrano invece prendere più consistenza tutte le altre numerose accuse lanciate dai suoi contemporanei a questo papa senza legge.


Papa GIOVANNI XXII     (1316-1334)

Papa Benedetto XII          (1334-1342)

Papa Clemente VI            (1342-1352)

Papa Innocenzo VI          (1352-1362)

Papa Urbano V                (1362-1370)

Papa Gregorio XI            (1370-1378)

Papa Urbano VI              (1378-1389)

Papa Bonifacio IX          (1389-1404)

Papa Innocenzo VII       (1404-1406)

Papa Gregorio XII          (1406-1415)

Papa Martino V              (1417-1431)

Papa Eugenio IV            (1431-1447)

Papa Niccolò V               (1447-1455)

Papa Callisto III             (1455-1458) 

Papa Pio II                     (1458-1464)

Papa Paolo II                 (1464-1471)
Papa Sisto IV                 (1471-1484)
Papa Innocenzo VIII     (1484-1492)


PAPA ALESSANDRO VI     ( 1492-1503)

Eseguiti i funerali di Innocenzo VIII, 23 cardinali entrarono in conclave nella cappella Sistina in S. Pietro il 6 agosto 1492; nello scrutinio della notte fra il 10 e l’11 fu eletto il cardinale RODRIGO BORGIA, ma sulla sua elezione pesa l’ombra della simonia.. Per il Pastor “ non c’è dubbio  che vi contribuirono manovre simoniache”  e così per la maggior parte degli storici; i pochi strenui difensori  della incorrotta scelta si arrampicano in verità sugli specchi  e, pur non indicandola come opera dello Spirito Santo, apportano motivazioni politiche.  Fu eletto perché doveva essere un candidato forte… che meglio conosceva i bisogni della Santa Sede” , dice il Ferrara, di seguito alla tesi di La Torre, il quale sostiene che “ le richieste e le promesse che furono fatte in questo conclave.. non erano dai cardinali considerate come aventi il carattere di simonia”.
E’ semplicemente ridicolo limitare al denaro sonante l’elezione simoniaca, perché hanno lo stesso peso le varie commende promesse dal Borgia in conclave e da lui distribuite appena eletto: il vice cancellierato e il proprio palazzo al cardinale Ascanio Sforza suo principale sostenitore, i possedimenti di Ponticelli  e Soriano al cardinale Orsini , Subbiaco con i castelli circostanti al Colonna, Civitacastellana al Savelli. Nato il 1 gennaio 1431 a Jativa, la stessa città natale dello zio  Callisto III che lo aveva nominato cardinale a soli 25 anni, era stato vicecancelliere della chiesa romana, arricchendosi di lucrosi così da poter disporre di una rendita principesca. Pio II lo aveva ufficialmente rimproverato in un “ breve” per la sua vita libertina, che peraltro Rodrigo non si preoccupava di nascondere; aveva una relazione con la romana Vannozza dé Cattanei, sposata ben tre volte, che gli aveva dato quattro figli, ma da donneignote ne aveva avuti altri tre. Avrebbe seguitato anche da papa questa condotta all’insegna del piacere, tanto che gli nacquero ancora due figli. L’ultimo dei quali verso la fine del pontificato, se non dopo la morte.  Sua amante ufficiale da pontefice fu la moglie di Orsino Orsini, la bella Giulia Farnese che i contemporanei qualificarono appunto come concubina papae ovvero, i termini blasfemi, “ sposa di Cristo” ; il fratello, Alessandro, fu creato Cardinale.
Da questo punto di vista la figura di Alessandro IV appare veramente “enigmatica da rimanere un mistero agli occhi del più acuto psicologo” , ha osservato il Gregorovius, ed è indiscutibile” che la sua indomabile  sensualità aveva carattere patologico”, come ha sottolineato il Seppelt; anche se non fu il primo sovrano pontefice a comportarsi così. Su questa sagra dell’erotismo sono stati scritti fiumi d’inchiostro, ma qui è sufficiente quanto indicato, senza soffermarsi in altri particolari nel seguito della biografia; prendiamo comunque per buona l’indicazione di Franco Molinari che in pratica papa Borgia “ non fu più che uomo, nel senso di pover’uomo” e concludiamo con lui che, da questo punto di vista però “ mai forse la tiara si posò su un più indegno vicario di Cristo “.
Il che avvenne in San Pietro  con pompa straordinaria il 26 agosto del 1492 e il Borgia assunse il nome di Alessandro VI; con i precedenti ampiamente noti, fu preso di mira in un anonimo epigramma che sottolineatala simonia e il mercimonio, collegando quel numero “ sesto “   ad una tradizione sfavorevole . I versi latini suonano cosi in volgare:
Alessandro vende chiavi, altari e Cristo:
 è suo diritto vendere quel che ha comprato prima.
 Di vizio in Vizio, da Fiamma nasce incendio,
e Roma deperisce sotto il dominio ispanico.
Sesto Tarquinio, Sesto Nerone e Sesto pure questo:
Roma sotto i Sesti sempre andò in rovina.
D’altra parte cìera qualche umanista pronto a giurare in un distico sullo splendore che Roma avrebbe avuto da un simile sovrano pontefice, con attributi però pagani, non adatti ad un vicario di Cristo, presumibilmente quindi ironici. Eccolo tradotto in volgare:
Sotto Cesare Roma fu grande, ora grandissima;
regna Alessandro Sesto. Quello fu uomo, questo però è Dio.
E dire che agli inizi, a parte le donazioni dovute per la sua elezione, Alessandro VI faceva ben sperare in una sanità di principi che risaltarono nel ristabilire l’ordine in una città come Roma,dove, durante il breve periodo di sede vacante, si erano contati ben220 omicidi, e saggo provvedimenti di politica economica con l’impegno di conservare la pace in Italia;  sembrava ravveduto, ma fu un attimo. “ Poi il peso dell’umanità peccatrice soffocò, ogni sogno di bonifica morale” , come nota Molinari, ricordando come pure il destino gli offrì l’occasione per redimersi e dedicarsi alla chiesa come padredi essa, “ quando un soffitto crollò su di lui travolgendolo in una nuvola di polvere e in una frana di macerie, e poi quando la mano di un sicario assassinò suo figlio Giovanni, che teneramente amava. Ambedue le volte si dichiarò deciso a cambiare vita. Ma le promesse non furono mantenute”. E certo non poté smuoverlo Girolamo Savonarola, destinato a finire sul rogo vittima delle sue stesse prediche e di avvenimenti politici più grandi della sua pur esaltante figura.
E’ che per Alessandro VI il papato e la chiesa costituirono un mezzo per arricchire ed elevare la sua famiglia, assicurando ad ognuno dei figli una posizione di dominio; Cesare fu tra di essi quello destinato a raccogliere i frutti maggiori fin dalla più tenera età. Nominato protonotaro apostolico a soli 6 anni da Sisto IV, era stato elevato a Vescovo di Pamplona da Innocenzo VIII; ma il padre appena eletto gli affidò l’arcivescovado di Valenza e nel 1493 lo assunse nel collegio dei cardinali. Il prediletto Giovanni, duca di Candia, venne infeudato nel 1497 con il ducato di Benevento, Terracina, Pontecorvo, incamerando in pratica una parte dello stato pontificio: ne avrebbe goduto ben poco, perché quello stesso anno sarebbe stato ucciso in misteriose circostanze.
Lucrezia , immortalata anche in “ romanzi d’appendice”, fu migliore di quanto in genere si dice: ad esempio restano tutti da dimostrare i suoi supposti rapporti incestuosi con il padre e il fratello Cesare. Si sposò tre volte; il primo matrimonio con il conte Giovanni Sforza, signore di Pesaro e parente del cardinale Ascanio Sforza, fu un po’ un ennesimo codicillo della gratitudine dovuta a quest’ultimo da Rodrigo Borgia per l’elezione pontificia. Celebrato con grande fasto in Vaticano, e benedetto dal papa papà secondo le abitudini ormai instaurate da Innocenzo VIII, fu dichiarato nullo perché “ non consumato “ dopo alcuni anni. Così Lucrezia potè per motivi politici, ma felicemente questa volta, sposare il principe Alfonso di Risceglie, figlio naturale di Alfonso II di Napoli nel 1498; fu ucciso da suo fratello Cesare nel 1498; e Lucrezia restò vedova due anni dopo perché il marito, ancora per motivi politici, fu ucciso da suo fratello Cesare. Il terzo matrimonio, sempre in chiave politica,con Alfonso d’Este , erede del ducato di Ferrara, celebrato per procura il 30 dicembre 1501 con veri e propri baccanali che durarono fino all’Epifania, l’avrebbe portata lontano da Roma e sarebbe vissuta da duchessa fino alla sua morte avvenuta nel 1519 . Non va dimenticato che per ben due volte il padre, dovendosi assentare da Roma le aveva affidato il governo della città, nobilitandola in tal modo come vice papa  , ovvero da autentica “ Papessa”.
Per i figli dunque Alessandro VI impegnò il pontificato in chiave esclusivamente politica, dimostrando peraltro eccezionali qualità di fronte a Carlo VIII di Francia che, tra il 1492 e il 1493, in una serie di trattati si era assicurato l’appoggio dell’Inghilterra, della Spagna e dell’imperatore >Massimiliano, nonché del signore di Milano Ludovico il Moro, con il fine di impadronirsi del regno di Napoli come erede degli Angiò. Il papa, inizialmente ostile agli Aragona, nel 1493 si riappacificare con Ferrante concretizzando l’alleanza con il matrimonio di suo figlio Goffredo con Sacha, figlia naturale di Alfonso di Calabria, e quando Ferrante, nel gennaio nel gennaio dell’anno dopo morì, si affretto ad infeudare Alfonso II re di Napoli; l’incoronazione fu celebrata a Napoli da cardinale Giovanni Borgia..
Era una sfida alla pretese di Carlo VIII che immediatamente invase l’Italia, Firenze si arrese scacciando i Medici, e Alfonso II di fronte al pericolo cedette la corona al figlio Ferdinando II e fuggi in Sicilia. Gli Aragonesi in pratica non erano neanche ben visti  dal popolo e il papa si trovò improvvisamente in una situazione difficile, accresciuta , accresciuta dallo stato di ribellione che subito i Colonna e altre famiglie nobili romane, appoggiate dal cardinale Giuliano della Rovere, fomentarono nello stato pontificio. Si arrivò a parlare anche di una deposizione del papa.
Carlo VIII il 31 dicembre 1494 entrava in Roma senza trovare resistenza, Alessandro VI nel chiuso di Castel S’Antangelo, trasformato in una nuova fortezza da Antonio da Sangallo, meditò un diverso atteggiamento nei confronti del re. Il 15 gennaio 1495 entrava a Roma 1495 concedeva ufficialmente il libero passaggio alle truppe francesi   nello stato della chiesa, offrendo il figlio Cesare in qualità di cardinale legato come guida per le truppe francesi fino ai confini del regno di Napoli. Fu un’abile mossa che riscattò in pieno Alessandro VI e non si parlò più di deposizione; anzi, in concistoro, Carlo VIII girò obbedienza al papa.
Il 22 febbraio il re francese entrava a Napoli senza colpo ferire; anche Ferdinando II, vistosi abbandonato dal papa era scappato a Ischia e di li in Sicilia. Ma la facilità con la quale Carlo VIII aveva conquistato il regno nell’Italia meridionale rivelò subito a tutti gli Stati italiani la grave minaccia che si profilava per la loro stessa esistenza; e cosi il 31 marzo a Venezia si stipulava una coalizione antifrancese, con la presenza del papa, che nuovamente cambiava posizione. Carlo VIII ritenne opportuno ritirarsi. Riattraversalo Stato pontificio senza che Alessandro VI s’impegnasse in un’utile opposizione, l’esercito della Lega lo bloccò a Fornivo, ma il re riuscì a passare ugualmente. A Napoli tornavano gli Aragona con Ferdinando II.
Salito al trono di Francia Luigi XII, Alessandro VI mutò ancora politica e si alleò con il nuovo re; quando questi riuscì a scacciare Ludovico il Moro dal ducato di Milano unendo il territorio alla Francia, il papa vide aprirsi nuovi orizzonti per il figlio Cesare. Questi aveva rinunciato già dal 1498 alla dignità cardinalizia; svanito il matrimonio con una Aragonese e tramontata la prospettiva del principato di Taranto, egli si vide impalmato con la principessa Carlotta d’Albert, sorella del re di Navarra, per i buoni uffici di Luigi XXII, che gli concesse il ducato di Valentinois, promettendogli aiuti per la conquista di uno stato in Romagna. In questo modo Luigi XII si assicurò la neutralità dello Stato pontificio nella nuova spedizione che egli intendeva organizzare per la riconquista del regno di Napoli; e durante lo svolgimento delle campagne francesi in Italia, fra il 1500 e il 1503, si attuò anche l’impresa del Valentino in Romagna. Alessandro VI s’impegnò nella ricerca dei mezzi occorrenti per finanziarla ricorrendo alla simonia con la nomina di dodici cardinali, che dovettero pagare la porpora con una cospicua somma di denaro, e al mercato delle indulgenze in occasione del giubileo del 1500. L’impresa militare fu opera principalmente di cesare che, non rifuggendo da nessun mezzo pur di raggiungere il suo scopo, da autentico principe alla Machiavelli, occupò successivamente Pesaro, Cesena, Rimini, Faenza, Urbino e Senigallia, ricevendo dal padre il titolo di duca della Romagna; lo stato pontificio perdeva in tal modo una sua grande provincia, che diventava principato ereditario dei Borgia. Ma i piani di Alessandro VI e suo figlio non si fermarono qui; l’obbiettivo finale era  la secolarizzazione di tutto lo stato pontificio sotto il regime dei Borgia. Essi si buttarono in questo grandioso progetto senza tregua, confiscando i possedimenti alle famiglie Colonna, Savelli e Castani, impotenti di fronte alla situazione italiana così favorevole  alle mire dei due. Il ducato di Sermoneta fu assegnato al fglio di Lucrezia, Roderico, di appena due anni che si vide così infeudato da un nonna papa; Il ducato di Nepi  finì al più piccolo dei figli di Alessandro VI, Giovanni, anch’egli di soli due anni. Cesare s’impadroniva del ducato di Urbino e Camerino e con diabolica abilità sterminava spietatamente a Senigallia alcuni suoi capitani che stavano tramando una congiura contro di lui.
Una volta spodestati anche gli orsini, con l’eliminazione del cardinale Giovan Battista e la messa al bando di tutti gli altri, Alessandro VI e Cesare pensavano di completare l’opera con la conquista della Toscana; occorreva ancora denaro e il papa se lo procurò con altre nomine cardinalizie e la vendita di nuovi uffici della Curia. Il difetto fondamentale di questa grandiosa costruzione politica era quello di non essere sorretta da una effettiva classe di governo, tutto era basato sulla rapidità d’azione di un principe fornito di Machiavellica virtù pronto a sfruttare la fortuna  che gli proveniva da suo padre. Era chiaro che l’impalcatura sarebbe crollata non appena uno dei due elementi portanti fosse venuto meno; e così fu quando Alessandro VI morì improvvisamente il 18 agosto 1503. Cesare avrebbe seguitato a difendere il proprio prestigio sotto il breve pontificato di Pio III fino ad accordarsi inizialmente anche con il successivo papa Giulio II; ma poi abbandonato a se stesso, avrebbe perso tutto, fino ad essere arrestato da Consalvo di Cordova, gran capitano delle truppe Spagnole a Napoli. Prigioniero in Spagna, avrebbe trovato si rifugio presso il cognato , il re di Navarra, ma anche la morte nel 1507 nella sua ultima impresa sotto il castello di Viana. Alessandro VI,nel vivo dei tumulti che scoppiarono alla sua morte, fu inizialmente sepolto in S. Pietro senza particolari celebrazioni funebri e trasferito poi nei sotterranei del Vaticano in attesa di una degna sepoltura; le sue ossa nuovamente rimosse, finirono in S. Maria di Monserrato, la chiesa romana degli spagnoli dove restarono abbandonate per lungo tempo, trovando una loro sistemazione definitiva soltanto nel 1889.
Sulla natura della morte di papa Borgia, ufficialmente causata dalla malaria, ci sono sempre stati seri dubbi, avvalorati da storici illustri come Guicciardini: il papa sarebbe morto avvelenato per errore, in un ennesimo complotto da lui organizzato  insieme al figlio Cesare ai danni del cardinale Adriano Castellesi di Corneto, di cui volevano incamerare i beni. Il cardinale li aveva invitati a pranzo nella sua villa sul Granicolo, e il coppiere corrotto dai Borgia aveva versato della canterella, un veleno a base di arsenico in un bicchiere di vino che doveva finire all’anfitrione; per un disguido fatale lo bevve invece Alessandro VI.
E’ poco credibile, perché altre fonti indicano che quel giorno il Castellesi era anch’egli colpito dalla malaria, senza contare che anche Cesare ne rimase contagiato. Ma un papa così non poteva non avere una morte che non fosse in linea con la sua vita, come ricorda uno dei vari epitaffi anonimi scritti su di lui in latino e affissi al busto di Pasquino venuto alla luce nel 1501 e subito affermatosi come statua parlante.
La realtà è che Alessandro VI fu senza scrupoli, senza fede, senza morale, secondo il categorico giudizio del Gervaso, che pure giustamente gli riconosce un’eccezionale energia e un fiuto politico infallibile per il quale va considerato un pessimo papa ma nello stesso tempo un grandissimo monarca.

Papa  PIO III       (1503)
Papa GIULIO II (1503-1513, era padre di tre figlie)
Papa LEONE X  (1513-1521 , vendita di indulgenze)
Papa ADRIANO VI (1522-1523)
Papa CLEMENTE VII  (1523-1534)

Papa PAOLO III (1534-1549)

 Istituì nel 1542 SANTA ROMANA e UNIVERSALE INQUISIZIONE che aveva lo scopo di mantenere  incontaminata da errori la fede cattolica, punendo severamente chi persiste nell’eresia. Presieduta da una commissione di sei cardinali , ebbe poi il nome di SANT’UFFIZIO, questa istituzione trovò i suoi primi fautori in Ignazio di Lodola, Gian Pietro Carafa , il futuro papa Paolo IV.

Papa GIULIO III  (1550-1555)
Papa Marcello II    (1555)

Papa  Paolo IV        (1555-1559)

Dai tempi della pace di Cave, dunque, Paolo IV si era dedicato di nuovo con tutte le sue forze alla riforma, ma un papa-duce come lui non poteva credere al concilio;non pensava seriamente a riaprirlo, La riforma doveva venire direttamente da Roma, cominciando con l’estirpare “l’eresia simoniaca” in seno alla curia e affidando più ampi potere all’INQUISIZIONE, la cui competenza originaria era circoscritta alle questioni di fede. Questo tribunale operò allora con spietata severità , secondo le direttive del pontefice, che spesso presenziava alle sedute. Come annota il Ranke, Paolo IV gli attribuì il crudele diritto di applicare la tortura indicata in genere con il subdolo termine di “ rigoroso Esame”, anche solamente per costringere a fare i nomi dei complici.

Papa PIO IV                            (1559-1565)
Papa PIO V                              (1556-1572)
Papa GREGORIO XIII          (1572-1585)
Papa SISTO V                         (1585-1590)
Papa URBANO VII                (1590)
Papa GREGORIO XIV         (1590-1591)
Papa INNOCENZO IX         (1591)
Papa CLEMENTE VIII        ( 1592.1605)
Papa LEONE XI                    (1605)
Papa PAOLO V                     (1605-1621)
Papa GREGORIO XV          (1621-1623)
Papa URBANO VIII             (1623-1644)
Papa INNOCENZO X           (1644-1655)
Papa ALESSANDRO VII     (1655-1667)
Papa CLEMENTE IX           (1667-1669)
Papa CLEMENTE X            (1670-1676)
Papa INOCENZO XI            (1676-1689)
Papa Alessandro VIII          (1689-1691)
Papa INOCENZO XII         (1691-1700)
Papa CLEMENTE XI         (1700-1721)
Papa INOCENZO  XIII      (1721-1724)
Papa BENEFDETTO XIII  (1724-1730)
Papa CLEMENTE XII       (1730-1740)
Papa BENEDETTO XIV    (1740-1758)
Papa CLEMENTE XIII     (1758-1769)
Papa CLEMENTE XIV     (1769-1774)
Papa PIO VI                        (1775-1799)
Papa Pio VII                        (1800-1823)
Papa LEONE XII                (1823-1829)
Papa PIO VIII                     (1829-1830)
Papa GREGORIO XVI      (1831-1846)
Papa PIO IX                        (1846-1878)
Papa LEONE XIII (1878-1903

Papa S. PIO X        (1903-1914 )

Con questo papa finisce la santa inquisizione , questa viene denominata  Congregazione del Santo uffizio ed indice dei libri proibiti, come custode della fede cattolica. Successivamente con l’avvento del concilio Vaticano II verrà istituita una nuova denominazione “ Congregazione per la dottrina della Fede”.

Conclusioni:
La breve storia dei suddetti 87 papi è un viaggio nei rapporti dell’istituzione della Santa Iinquisizione con il papato. Questa aberrazione voluta per condannare l’eresia e tutti quelli che dissentivano dal potere papale è qualcosa di sconcertante per chi crede in Dio. Se non ricordo male i vangeli sono gli stessi da San Pietro ai giorni nostri.  Se non ricordo male Gesù  predicava il perdono il rispetto reciproco e soprattutto l’amore fra fratelli . Certo dopo avere letto tutti questi misfatti ci sarà senza ombra di dubbio chi provvederà alla condanna divina di questi papi. Io non voglio giudicare , ma fermamente condannare tutti i misfatti narrati i questa breve storia della Santa Inquisizione.
Certo bisognerebbe calarsi interamente nell’epoche in questioni, per dare giudizi obbiettivi, dove guerre e complotti erano all’ordine del giorno e dove il mondo era alla mercè dei potenti e dei guerrafondai che pensavano di avere il diritto di vita o di morte su tutti. Certo non erano epoche nelle quali si poteva porgere l’atra guancia, ma certamente hanno vissuto anche uomini che hanno intrapreso la fede non come potere ma come servizio e carità.
Ai posteri l’ardua sentenza!!!!!!!!!!!!


Evy

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