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domenica 12 dicembre 2010

I PITTI

I   PITTI

Gli highlander di 2 mila anni fa che i romani non sottomisero mai. Erano signori della Scozia, ma la loro storia è un enigma.
I romani chiamarono caledoni le tribù pitte alleate e stanziate a nord del Vallo di Antonino.
Gli highlander, i pallidi e robusto montanari del 300 . Sono solo storia recente. Quasi un millennio prima dei kilt  e dei clan, in Scozia dominavano i Pitti: bassi, bruni di capelli e di carnagione, almeno stando alle descrizioni dei romani. Questo feroci guerrieri tatuati  (cioè picti in latino) possono a buon titolo  essere considerati gli autentici”aborigeni” delle Highlands, i monti del nord britannico. Caratteristiche che , unite al mistero della loro fine, secondo gli antropologi  potrebbero aver dato origine alla leggenda sui pixies , dispettosi folletti del folclore nordico.
All’inizio del duecento , quando erano gia scomparsi da tempo, il cronista islandese Snorri Sturluson li descrisse  come pigmei che vivevano in caverne sotterranee. Molti secoli dopo lo scrittore romantico sir Walter Scott (1771-1832) mostrava ancora di dare credito a simili credenze: l’autore del romanzo storico Ivanhoe se ne convinse osservando le dimensioni ridotte degli edifici in alcuni siti archeologici delle isole Orcadi . Edifici che oggi sappiamo però risalire a epoche più remote di quella in cui i Pitti prosperarono.
La presenza di scozzesi purosangue ma dai colori mediterranei è, nella tradizione locale, da sempre legata a qualche tipo di arcaica progenitura: negli Annali of the Caledonian (1828) si legge che i veri highlanders sono “ di complessione bruna, quasi sempre con capelli neri e ricci ed occhi scuri” , a confortare il luogo comune che individua nel tipo fisico  alla Sea Connery le fattezze più antiche e genuine della popolazione autoctona.
Le informazioni giunte a noi in questo senso, però, non sempre sono coerenti : riferendosi agli abitanti di quella Scozia ante litteram che i romani chiamarono Caledonia  (forse dal celtico caoillaoin, uomini della foresta), Tacito parlò infatti di individui alti e con capelli biondi o rossicci.
Tutto ciò significa forse che erano Pitti di tribù e aspetto differenti a spartirsi le terre del nebbioso Nord? Difficile dirlo, ma la presenza di guerrieri dalla carnagione olivastra, che ai centurioni più esperti ricordavanop i popoli incontrati in Spagna, sembra a molti storici ragionevolmente certa.
Le perplessità sull’aspetto fisico dei Pitti sono insomma un riflesso di un mistero delle origini intorno al quale le congetture si sprecano. Tra le teorie più recenti ce n’è persino una che li ritiene una tribù di indiani di lingua algonchina arrivati dal Canada. Ma c’è anche chi sostiene fossero un ceppo pre-celtico assorbito, dopo secoli di rapporti alterni, dai Celtici-Scoti. O chi invece ipotizza una loro provenienza non indoeuropea, facendo appelloal materiale genetico che gli scozzesi attuali, eredi probabilmente di una mescolanza tra Celti ed un etnia ignota, hanno in comune con un altro popolo dalle esotiche ascendenze, i baschi. A sostegno di questa ipotesi ci sarebbe anche la genealogia per linea materna (titoli e beni, come l’appartenenza al clan , si tramandavano cioè per linea femminile).
Il monaco e cronista inglese san Beda, nella sua Historia ecclesiastica gentis anglorum , racconta che i Pitti indicavano come loro patria ancestrale la Scizia, a nord del Mar Nero e abitata da genti di probabile stirpe iranica. Da li, secondo una antica leggenda, nel corso di una lunga migrazione sarebbero giunti via mare fino in Irlanda, i cui abitanti gaelici, ansiosi forse di sbarazzarsi di quei concorrenti, avrebbero suggerito loro di proseguire il viaggio verso le coste scozzesi. Per convincerli, offrirono agli antenati dei Pitti un certo numero di donne irlandesi, alle quali sarebbe rimasto il diritto di scegliere il sovrano.Al di la del mito, creato forse a posteriori dagli Scoti per “imparentarsi” agli indomiti dipinti, resta ciò che dice la Cronaca dei Pitti, una sorta di elenco di sovrani di incerta datazione: il titolo di Rex pictorum si otteneva per  via materna, o in alternativa per matrimonio con donne di sangue reale.
L’ipotesi oggi più accreditata, comunque, vuole i Pitti discendenti dei primi coloni neolitici arrivati in Scozia dalla Spagna, intorno al 7000 a.C.
Anche la caratteristica più famosa dei Pitti, l’usanza di tatuarsi il corpo “secondo il loro grado”, come scrissero lo storico del VII secolo Isidoro di Siviglia, è anomala : quei tatuaggi non erano infatti realizzati con una semplice tintura ottenuta dalle radici , come si usava fra i Celti. Erano invece il risultato di incisioni della pelle. Una conferma indiretta si trova nelle parole di Claudio Claudiano, letterato romano dell’era cristiana, che parlando dei connazionali di stanza nell’isola britannica li definì poeticamente la legione “ che regge il truce Scoto e studia le esangui figure impresse col ferro sul Pitto morente” .
Dai loro progenitori i Pitti avrebbero appreso, oltre a quello del tatuaggio, l’arte di costruire i broch, torri circolari  in pietra, e i crannog, isole artificiali su palafitte di cui restano le fondamenta in alcuni laghi scozzesi.
Fra le altre tracce degli antichi scozzesi giunte fino a noi ci sono alcune stele in pietra. Sono di epoca tarda (VI-IX secolo d.C.) e utilizzano segni dell’alfabeto ogham celtico per scrivere parole incomprensibili  agli studiosi. Quei pochi segni non aiutano quindi a risolvere l’altro enigma pitto , quello della lingua.  Che parlassero un idioma diverso da quello dei Celti sembra provato: san Colomba, monaco irlandese ed evangelizzatore della Scozia , nel VI secolo fu costretto a usare un interprete per interloquire con il re Pitto Bridei IV.
Persino il loro vero nome è un’incognita. Per le tribù celtiche erano i Cruithni ( I colorati). E Picti è l’appellativo dato dai conquistatori romani. Un nome generico, che a causa della pelle decorata aveva gia affibbiato ai Pctones, una tribù celtica della lontana Gallia che nulla aveva a che vedere con i proto-scozzesi.
Tra l’altro la più antica menzione dei Pitti risale al 279, più di due secoli dopo l’inizio della colonizzazione romana in Britannia, e si deve a una fonte latina : il letterato di origine gallica Eumenio, che elencò laconicamente i Picti tra i popoli dell’isola ostili alle legioni. Su questa ostilità, almeno, tutti concordano.
I romani tentarono più di una incursione nel territorio dei Pitti, oltre il limes settentrionale dell’impero (dal II secolo difeso dal Vallo di Adriano). Riuscirono anche a batterli qualche volta, ma senza mai affrontare una sistematica campagna di conquista del loro territorio. Superstizione? Paura di un nemico troppo tenace? Piuttosto realpolitik: a dissuadere comandanti e veterani di provata esperienza non furono tanto i timori dell’inesplorato Nord quanto la valutazione che un territorio così inospitale non meritasse gli sforzi necessari contro un popolo tanto bellicoso. Un popolo che per di più aveva dimostrato molte volte di essere un pericoloso pioniere delle moderne tecniche di guerriglia. Abili con l’arco, militarmente più disciplinati dei Celti, al punto di aver forse anticipato lo schiltron , la tipica falange scozzese utilizzata più volte con successo contro gli Inglesi nei secoli successivi, i Pitti furono considerati da Romani una spina nel fianco, ma non proprio dei selvaggi. Allevatori e agricoltori esperti, orafi e amanti della musica (inventarono forse l’arpa celtica) , quei fieri nemici di Roma avevano fondato in Caledonia un regno diviso in sette distretti, chiamato Fortriu o Pittavia.
Uno dei capi Pitti, Calgaco, si guadagnò anche un ruolo negli Annali di Tacile dell’impero, dopo vent’anni di raid e incursioni dei Pitti fu abbandonato, facendo arretrare il limesfino al preesistente  Vallo di Adriano , 160 chilometri a sud  e di gran lunga più difendibile.
I secoli successivi videro un alternarsi di ostilità e tregue tra i due avversari, fino alla partenza definitiva delle legioni dalle isole britanniche, nel 453.
L’eclissi del nemico romano non rassegnerò più di tanto l’orizzonte geopolitica degli “uomini dipinti” . Prima dovettero vedersela con i Britanni e i Sassoni nel sud (sconfitti solo nel 685, in un epica battaglia) . Poi fu la volta degli invasori Vichinghi e soprattutto degli Scoti . Quest’ultimi erano Celti venuti dall’Irlanda: segnarono la fine dei Pitti ma, in qualche modo, ne garantiranno il futuro.
Nel VI secolo in contemporanea con l’affermarsi del regno Scoto di Dalriada (odierna contea di Argyll, Scozzia occidentale) la civiltà dei Pitti, ormai convertiti alla religione cristiana, raggiunse il suo zenit. Ma durò poco. Insediatisi gia dal IV secolo nella Caledonia Occidentale come una sorta di protettorato nel territorio degli antichi signori delle “terre alte” (le highlands), i nuovi venuti gaelici accrebbero la loro influenza, incrociando le armi con i padroni di casa e giungendo nel VII secolo a lambire i confini della capitale pitta, presso l’odierna Inverness.
Decade dopo decade, tra una battaglia e un trattato di pace, le secolari ostilità volsero con gradualità inesorabile a sfavore dei Pitti. Sul piano etnico e culturale i due popoli si erano già mescolati  e una nuova entità nazionale, il regno protoscozzese di Alba (denominazione gaelica della regione, da cui deriva l’antico nome della Gran Bretagna : Albione) iniziava a formarsi.
I Pitti, politeisti, avevano culti simili a quelli Celtici. Ma nel VI secolo erano ormai tutti cristianizzati.
Anche le case regnanti di Scoti e Pitti  iniziarono ad avvicinarsi , finché lo scozzese Kenneth McAlpin , capostipite della dinastia che regnerà sulle Highlands per buona parte del medioevo, forte delle proprie conquiste militari, e forse anche del credito genealogico datogli dall’avere  una principessa pitta per madre, riunì due troni, debellando nell’841 l’ultima resistenza degli avversari. Decisivo in questo senso fu il sanguinoso e definitivo colpo di mano passato alla storia  col nome di “ tradimento di McAlpin”.
Invitati nel villaggiodi Scone per i negoziati, l’ultimo re pitto Drust IX, la sua corte e i rappresentanti delle 7 casate pretendenti al trono furono trucidati durante un banchetto con un sistema decisamente “barbaro”: sotto ognuno dei sedili erano collocate altrettante botole che nascondevano pozzi irti di lame, su cui i malcapitati finirono impalati dal loro stesso peso.
Per i Pitti dissoltosi nell’etnia e nella cultura vincitrice con un destino simile a quello degli Etruschi “annegati” nel mondo romano, quel massacro fu il colpo di grazia. Scaricati dalla storia e raccolti dal mito, su di loro cadde un oblio secolare che solo da pochi anni, complice anche la rinnovata consapevolezza politica e culturale degli Scozzesi, si tenta di diradare. Clan di antico lignaggio come i McGregor, rivendicano oggi quarti di nobiltà pitta. Ma l’eredità in apparenza impalpabile sopravvive soprattutto nelle enigmatiche pietre incise, nelle fattezze di qualche highlander bruno e nella toponomastica. Prefissi come aber (per esempio della metropoli scozzese Aberdeen)  o pit (di località minori come Pittodrie o Pitmedden) rimandano con certezza agli antichi insediamenti di quegli indecifrabili e misteriosi indigeni delle brughiere.

E se fossero stati americani?
Navigatori Vichinghi che sbarcano nel Nuovo Mondo secoli prima di Colombo sono ormai una certezza. Ora una nuova e audace teoria  potrebbe ribaltare i termini  della questione, dando il primato dell’esplorazione non all’uomo bianco che scopre le Americhe , ma all’uomo “rosso” che scopre l’Europa, o almeno la Scozia che i discendenti dei Mikmaq , una tribù stanziata  nelle estreme propaggini orientali del Canada, dunque nel punto in cui  il continente americano è geograficamente più vicino alle coste scozzesi.
Le cinquecentesche annotazioni di Jacques Cartier , esploratore francese al soldo di re Francesco I di Valois che incontrò questa popolazione esplorando la foce del fiume San Lorenzo, confermano l’abilità dei Mikmaq, come marinai e l’ingegnosità dei loro sistemi per combattere con grasso animale il gelo della navigazione atlantica . Ma soprattutto contengono integranti analogie tra le usanze dei due popoli.
I Mikmaq, chiamati “nasi blù” per l’abitudine di tatuarsi con pigmenti azzurri, seguivano anche loro una tradizione patrilineare e avevano sviluppato un sistema di clan i cui membri si riconoscevano dai diversi colori del perizoma utilizzato, proprio come usavano fare i Pitti e come avviene tutt’ora con i motivi dei tartan (i tessuti a quadretti colorati) nei kilt degli scozzesi moderni.
Per quanto concerne i guerrieri dell’antica Caledonia, le loro immagini incise sulla pietra sembrano suggerire l’utilizzo di copricapi piumati. Si tratta di un usanza rara in Europa, ma non dall’altra parte dell’oceano Atlantico e soprattutto nella terra dei Mikmaq. Una terra fredda e inospitale, una penisola di erba e nebbie a cui gli europei, forse per una sorta di sesto senso, diedero poi il nome di Nuova Scozia.

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