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lunedì 12 dicembre 2016

LA DEMOCRAZIA DIRETTA

LA  DEMOCRAZIA DIRETTA
La storia della democrazia diretta viene giustamente fatta iniziare con l’esperienza della Grecia di Atene grosso modo dal 400 al 320 a.C. Non ci sono dubbi che i cittadini ateniesi avessero e utilizzassero la possibilità di esprimersi direttamente con la discussione e con il voto sulle tematiche di interesse per la loro città e di decidere. «Direttamente» si esprimevano con un voto per espellere, per periodi più o meno lunghi, ma anche definitivamente, coloro che avessero malmeritato, violando le leggi: l’ostracismo. L’esperienza politica importante dopo quella ateniese non fu tecnicamente «democratica» per un insieme di ragioni, ma soprattutto per le limitazioni al numero dei partecipanti e all’attribuzione del potere politico. Tuttavia, nella Roma repubblicana si tennero elezioni, vi fu rappresentanza politica, si ebbe ricambio regolare nella leadership. Non vi furono, invece, modalità di democrazia diretta. Saltando una lunga fase, sicuramente di eclissi non soltanto della democrazia, ma anche della politica, i Comuni , in Italia più che altrove, ebbero forme di politica e di rappresentanza, ma non di democrazia diretta, vale a dire, di possibilità per la cittadinanza di prendere collettivamente decisioni importanti. Né queste decisioni vennero concesse ai cittadini della florida e ben governata Repubblica di Venezia.
Colui che argomentò vigorosamente la necessità della democrazia diretta, senza dubbio influenzato dal contesto in cui viveva, fu l’illuminista ginevrino J.-J. Rousseau (1712-1778). Non soltanto ritenne che la democrazia non potesse che esprimersi in forma di partecipazione personale e diretta, che garantiva e manteneva la libertà di tutti e consentiva la formazione della volontà generale, ma rafforzò la sua preferenza (e formulazione) criticando la democrazia degli inglesi, l’unica allora effettivamente esistente. Rousseau affermò sarcasticamente che gli inglesi si credevano liberi perché votavano per eleggere i loro rappresentanti. Ma, liberi soltanto una volta ogni cinque anni, erano sottomessi al potere politico per tutto il resto del tempo. In verità, Rousseau si sbagliava. Gli inglesi erano liberi anche nel periodo che intercorreva fra le elezioni. Potevano associarsi, protestare, fare giungere critiche, sollecitazioni e proposte ai loro rappresentanti. Ma la loro certamente fu, fin dagli inizi, ed è rimasta rigorosamente e convintamente una democrazia parlamentare e rappresentativa. Gli inglesi, segnatamente E. Burke (1729-1797), guardarono con preoccupazione e deplorazione ai tentativi effettuati dai rivoluzionari giacobini di introdurre in Francia forme di democrazia diretta, peraltro, di breve e non brillante durata. Infatti, come sottolineò F. Furet, il linciaggio a furor di popolo degli aristocratici e dei preti nel settembre 1792, fu l’atto finale della democrazia diretta, consegnata alla Costituzione giacobina sotto forma di mandati corti dei rappresentanti e di assemblee popolari per la ratifica delle leggi. Venne rapidamente sostituita dalla democrazia rappresentativa, ovvero dalla Convenzione che si assunse la responsabilità di emanare la condanna a morte del sovrano Luigi XVI nel gennaio 1793. Curiosamente, fu sulle altre rive dell’Atlantico, nella nascente democrazia USA, che inglesi, dissenzienti religiosi e loro discendenti, fecero ampio ricorso alla democrazia diretta. I fedeli e i credenti si riunivano nelle loro chiese e nelle loro piazze dove, dopo scambi di idee e dibattiti anche accesi, decidevano, direttamente. Rapidamente, in quelle stesse comunità, spesso piccole, coese e piuttosto omogenee, dal punto di vista religioso e sociale, furono i cittadini a chiamarsi a raccolta, a consultarsi, a riunirsi dando vita ai cosiddetti town meeting. Queste modalità di democrazia diretta non sono mai del tutto venute meno negli Stati Uniti d’America. Nel contesto europeo, di lenta democratizzazione e di faticosa affermazione della democrazia parlamentare, la rappresentanza prese il sopravvento su quel poco che c’era stato, tranne in Svizzera, di democrazia diretta. L’ultima, grande e vivida fiammata di democrazia diretta si ebbe, con la benedizione di K. Marx, nella Comune di Parigi (marzo-maggio 1871), breve e tragico esperimento di autogoverno, nel corso del quale venne anche introdotto un principio, già circolante nel contesto USA: quello della revoca (rappelrecall) degli eletti. Rimanendo in Europa, è la Rivoluzione bolscevica che sembrò aprire nuovi spazi e grandi opportunità alla democrazia diretta con la creazione dei consigli (Soviet) dei contadini e degli operai (anche dei marinai nella breve epopea dell’insurrezione di Kronshtadt). Sarebbe, però, stato davvero sorprendente se quell’accentratore di V.I. Lenin avesse proceduto lungo la strada della democrazia diretta, d’altronde non presente neppure nel pensiero politico di L.D. Trockij. Anche se in Europa, sia a Monaco di Baviera (1919) sia a Torino (1920), vi furono imitazioni di consigli operai rivoluzionari accompagnati da autogestione delle fabbriche, qualsiasi velleità rimasta di democrazia diretta venne spenta in Unione Sovietica dall’ascesa di I.V. Stalin. Il partito unico è totalitario: altri spazi politici sono inesistenti. Al di fuori del partito nessuna attività politica è concessa. Dentro il partito rimane il centralismo democratico ovvero il dominio della segreteria, il centro, sulla democrazia.
Nella maniera che si conviene a una democrazia decentrata, cangiante ed effervescente, elementi di democrazia diretta continuavano a sussistere un po’ dappertutto sul territorio statunitense. Nessuna ricognizione è possibile proprio per la manifestazione spontanea e non regolamentata di quelle esperienze. Volendo, si potrebbe tornare alla famosa dichiarazione di A. Lincoln a Gettysburg (1863) sulla democrazia: «government of the people, by the people, for the people». Il popolo si esprime attraverso (of) le elezioni, ma può anche governare direttamente (by) e il governo deve perseguire l’interesse (for) del popolo. L’affermazione e il consolidamento della democrazia parlamentare rappresentativa fatta funzionare dai partiti, essenziali a una democrazia di questo tipo, cancellò, tranne che in Svizzera (incidentalmente, caso di democrazia federale con forma di governo direttoriale), qualsiasi «residuo» di democrazia diretta. D’altronde, nelle democrazie dei grandi numeri di elettori, per di più, almeno fino al secondo dopoguerra, con basso livello di istruzione, la rappresentanza attraverso i partiti era l’unica garanzia che interessi e preferenze della maggior parte degli elettori venissero effettivamente presi e tenuti in considerazione dagli uomini di partito, dai loro candidati e dai loro eletti, tutti interessati alla rielezione. Di democrazia diretta non si parlò praticamente più per un periodo di diversi decenni, anche se con pochi politici e qualche studioso caddero nell’equivoco, più o meno voluto e consapevole, di identificare la democrazia diretta con l’elezione (popolare) diretta dei capi degli esecutivi, in primis, dei presidenti delle repubbliche latino-americane. Non è così. Ed è egualmente sbagliato pensare che la democrazia partecipativa non possa che essere democrazia diretta. Molte democrazie parlamentari rappresentative sono innervate da solide reti di associazioni, partiti compresi e spesso centrali, che garantiscono ampie possibilità di partecipazione politica. Comunque, tutte le democrazie sono, in qualche misura, partecipative: i cittadini partecipano alle elezioni, oltre che, ogniqualvolta lo desiderino, a qualsiasi attività politica associandosi e manifestando, in una pluralità di forme, approvazione o contestazione. Non è probabilmente casuale che la richiesta di forme e di modalità di democrazia diretta abbia fatto la sua ricomparsa con i movimenti del Sessantotto. Da un lato, si affacciava alla politica una nuova generazione, quella dei babyboomer nati dopo la Seconda guerra mondiale e cresciuti in un periodo di grandi opportunità, aspettative, speranze, nonché attrezzati con un più elevato livello di istruzione. Dall’altro, cominciava a manifestarsi la crisi dei partiti e della loro capacità di comprensione delle nuove domande politiche, non più soltanto ordine e sicurezza e stabilità dei prezzi, ma anche libertà di parola e opportunità di autorealizzazione. Il segnale più forte e più evidente di ricomparsa della democrazia diretta avviene in due situazioni, lontane fra loro e per questo particolarmente significative: l’Italia e la California. Nel 1970, la legge attuativa del referendum, ancorché soltanto abrogativo, aprì la strada in Italia a una lunga stagione referendaria cominciata nel 1974, ma probabilmente giunta a esaurimento nel 2009: 62 referendum svoltisi nell’arco di 35 anni. In California, il referendum è più correttamente un’iniziativa legislativa popolare che viene sottoposta da un certo numero di elettori (ma, oggi, da potenti lobbies in grado di raccogliere le firme necessarie) a tutti gli elettori. La nuova fase iniziò con la dirompente Proposition 13 che ridusse significativamente le tasse sulle proprietà immobiliari e che, incidentalmente, aprì la strada alla «rivoluzione neoconservatrice» del futuro presidente R. Reagan. Continua con la possibilità di «mettere» sulle schede elettorali per tutte le consultazioni importanti tematiche da decidere per via referendaria (di recente, la più frequentemente inserita è il matrimonio fra persone dello stesso sesso). La maggior parte delle democrazie parlamentari (e semipresidenziali) europee sono rimaste relativamente estranee a spinte e fenomeni di democrazia diretta. Tuttavia, praticamente ovunque in Europa si sono avuti referendum, in particolare concernenti tematiche europee, adesione e approvazione dei trattati. Persino la patria del modello Westminster, nella quale il Parlamento è sovrano, ha delegato agli elettori attraverso un referendum tenuto nel 1975 la sua adesione all’allora Comunità economica europea. 
Dal punto di vista della teorizzazione, hanno fatto la loro comparsa almeno due fenomeni di notevole rilevanza: da un lato, la democrazia deliberativa, dall’altro, il bilancio partecipativo. La prima è essenzialmente uno strumento complesso e delicato che mira a raccogliere le preferenze dei cittadini, a istruirli, a plasmare una decisione largamente condivisa attraverso forme di coinvolgimento e modalità di apprendimento e di decisione. Ovviamente, il livello di applicazione è quello delle comunità municipali. Il bilancio partecipativo è, invece, davvero uno strumento di democrazia diretta con il quale i cittadini decidono come, a quali attività, in che modo devolvere una parte del bilancio della loro comunità. 

Infine, secondo alcuni, la democrazia diretta sta finalmente per diventare possibile grazie alla disponibilità degli strumenti tecnologici più avanzati e moderni. Mentre, comunque, negli USA ritornano alla ribalta veri e propri town meeting, almeno come situazione nella quale gli eletti, persino il presidente B. Obama, accettano di partecipare e confrontarsi oppure, addirittura, li fanno organizzare, la California ha nuovamente offerto un esempio della effervescenza (e volubilità) della sua politica producendo nel 2003 il secondo esempio di revoca (recall) popolare di un governatore in carica. L’unico altro caso si verificò in precedenza nel Nebraska nel 1921. Grazie a Internet sembra diventare possibile una sorta di agorà telematica nella quale i cittadini, con un minimo di digital divide, vale a dire di diseguaglianza fra categorie – giovani e anziani, istruiti e no, che hanno accesso e possibilità differenziate –, godono della enorme opportunità di comunicare fra loro, per es., con i blog, e, eventualmente, persino di decidere in tempo reale. Grandi sono i rischi per una democrazia che non sia soltanto diretta, ma anche «istantanea». E, anche chi voglia andare oltre ovvero, piuttosto, arricchire la democrazia rappresentativa, sente che si pone il problema: ma la democrazia è decisione oppure è «conversazione per la decisione»? 

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