RELIGIONE DEGLI ANTICHI ROMANI
Il concetto di sacralità che
distingue la religione romana va correlato al concetto di “profano” (come in
tutte le religioni) anche ai concetti di “pubblico” e di “privato”.
La formula sacro: profano =
pubblico: privato rende questo sistema di relazioni; essa ordinava al mondo
romano tutta la realtà e teneva, in tale funzione, il posto di una cosmogonia.
Mancano in effetti alla religione romana miti cosmogonici e teogonici, tanto da
farla apparire come una religione
demitizzata. In luogo di un ordine cosmico dato una volta per sempre (da un
evento mitico), i Romani ebbero una formula cosmica alla quale adeguavano il
mondo oggettivandolo nel loro sistema di valori per mezzo di un azione
storiografica e giuridico-rituale. Tale azione era demandata al collegio
sacerdotale dei pontefici e aveva per oggetto il mondo e gli uomini. La natura
del mondo era ridotta a sostanza storica, la natura degli uomini a personalità
giuridica. Ne deriva che il predetto dell’azione pontificale è riconoscibile in
una storiografia e in una giurisprudenza. Per la storiografia diremmo che si
trattava della ricognizione religiosa del tempo storico, la quale si muoveva in
due sensi: i pontefici fissavano sacralmente la periodicità e la qualità del
tempo storico, dando a questo una sistemazione calenderiale; di pari passo ne
fissavano il corso, sottraendolo alla contingenza e registrandolo
significativamente (ossia interpretandolo) in annali, atti e memoriali. Il
momento giurisprudenziale nella formulazione di riti e nella definizione della
loro efficacia come dimostra il fatto
che i codici prodotti erano sempre e soltanto codici di procedura. In nessuna religione il termine per indicare
l’azione rituale è così pregnante come
in Roma (la radice di ritus è la
stessa di rta, il concetto cosmico
fondamentale della religione vedica); di fatto a Roma è il rito che stabilisce
tanto il patto con gli Dei (pax deorum)
quanto il patto sociale che fa di ogni singolo uomo un civis, un cittadino, una persona giuridica. Il collegio pontificale
comprendeva, oltre ai pontefici cui era riservata la teoria religiosa, altri
sacerdoti destinati alla pratica, ossia al culto divino: un rex sacrorum, sacerdote che assolveva i
compiti sacrali dell’antico re; quindici flamini, ciascuno addetto al culto di
un singolo Dio; sei vestali, addette al culto di Vesta. L’azione teorica e pratica del collegio pontificale era
completata da quella di altri tre
collegi sacerdotali: auguri, quindecemviri
sacris fanciundis , ed epuloni . I primi due collegi esercitavano la
divinazione (la consultazione della volontà degli Dei, un’attività che secondo
la tradizione era stata in origine di pertinenza dei pontefici. Il terzo, che
aveva la funzione di approntare due volte l’anno un banchetto a Giove, fu istituito nel 196 a.C. per
liberare i pontefici da questa cura. Dunque tutti e tre i collegi in questione
possono essere riguardati come profanazioni del collegio pontificale, e in
effetti è questo collegio che rappresenta il nucleo della religione romana.
Altri gruppi sacerdotali (tecnicamente chiamati “sodalizzi” e quindi distinti
dai “collegi”) erano: i Luperci, i
Salii, gli Arvali e i Feziali. Questi sodalizi non avevano la funzione di
stabilire un rapporto culturale con gli
Dei, come accadeva con i sacerdoti del collegio pontificale, ma quella di
liberare il popolo romano da una “ sacralità” insita in certe azioni,
addossandosela simbolicamente e permettendo agli altri di non curarsene , come
individui. In questa funzione i Feziali agivano per stabilire rapporti di pace o di guerra con gli altri
popoli. Più complessa era l’azione dei Luperci, Salii e Arvali: in sintesi
diremmo che essi esplicavano simbolicamente la sacralità insita in una
vita di pastori , di guerrieri e di
agricoltori (nell’ordine9. Dal punto di vista delle divinità, la struttura
fondamentale e quindi permamente , della religione romana era costituita dalla
triade Giove – Marte – Quirino
insieme a Giano e Vesta. La Triade,
al cui servizio erano i tre flamini maggiori (rispettivamente: il Diale, il
Marziale e il Quirinale), procedeva
probabilmente dalla concezione
trifunzionale della società, che Dumezil attribuisce ai popoli
indoeuropei. Comunque sia, si può dire che la triade rappresenti lo Stato
romano mediante personificazioni divine. Ma a questa rappresentazione statica o
qualificante va aggiunta una rappresentazione dinamica o dialettica: in tale
funzione si possono interpretare altre due personificazioni divine: Giano e Vesta.
Giano,
al cui servizio era il rex sacrorum ,
personificava l’apertura alla contingenza alla trasformazione , al divenire
storico. Vesta, per contro personificava il limite concesso alla
trasformazione, e dunque la stabilità o la necessità rispetto alla contingenza
. La dialettica Giano-Vesta poneva il Dio agli “inizi” di ogni cosa e la dea
alla “fine”.
Il pantheon arcaico si completava con le 12 divinità attestate da 12
flamini minori (ci restano soltanto 9 nomi: Carmenta, Cerere, Falacer, Flora, Furrina, Pomona, Portuno, Volturno,
Vulcano), più un'altra desumibile dai nomi di giornate festive (Conso, Termino, Nettuno, Ope, Robigo,
Matuta, Saturno, Larenta, Carmenta, Agerona). Col passare del tempo queste
divinità evidentemente non ritenute
necessarie alla struttura permanente dello stato, furono tagliate fuori
dalla storia: o scomparvero come quantità identificabili (ce ne resta appena il
nome) o furono identificate con divinità greche (come Nettuno con Posidone,
Vulcano con Efesto,) . Altre divinità, anche se arcaiche , erano variamente
ricordate dalla tradizione, ma alcune di esse
erano specialmente importanti in quanto, come vedremo appresso, venivano
assunte a protagoniste nello svolgimento storico del culto pubblico romano: Diana, Fortuna, Cerere, e Minerva.
Infine, tra le divinità complementari del nucleo fondamentale, c’era Giunone, la cui complementarità era
diversa, in quanto la dea era presente in qualche modo anche nel nucleo stesso;
al suo culto erano addetti due personaggi femminili, la flaminica (titolo
ufficiale della moglie del flamen Dialis) e la regina (titolo ufficiale della moglie
del rex sacro rum); perciò si
potrebbe dire che la complementarità di Giunone rispetto al nucleo divino
fondamentale era la stessa delle “mogli” rispetto ai “mariti” nella società
romana. Ciò che convenzionalmente viene definito come riforma dello Stato a opera della dinastia etrusca si riduce, dal punto di vista
religioso, all’istituzione del culto di Giove
Ottimo e Massimo sul Campidoglio, e di quello di Diana sull’Aventino. A parte gli epiteti, questo Giove non era
funzionalmente lo stesso Dio che figura nella triade Giove-Marte.Quirino; tanto che, nella sua nuova funzione e nel
nuovo tempio a lui eretto sul Campidoglio, gli si affiancavano Minerva e Giunone, invece di Marte e Quirino (sorge una nuova triade che, in certi settori,
prende il posto dell’arcaica). Il Giove Ottimo e Massimo, come la dea Diana,
era un dio sottratto alla lega Latina. Giove
e Diana, rispettivamente venerati sulla cima e alla falde del Monte Albano
(oggi Monte cavo), erano stati assunti dalle città della lega Latina come
simboli e protettori della confederazione. Giove era stato scelto per la sua
“sommità”, che lo poneva al di sopra degli interessi delle singole città, e
Diana, quale dea del bosco e quindi dell’extraurbano per eccellenza, per la sua
estraneità (all’urbano) che la teneva al di fuori di ogni particolare politica
cittadina. Il trasferimento in Roma di queste due divinità “universali” fu
quasi una presa di possesso, da parte romana, della realtà metafisica della
Lega latina. Fu anche una presa di coscienza dell’”universalità” romana: Roma
si faceva non soltanto egemone delle città latine, ma addirittura le
incorporava; si stabilivano così i fondamenti
di uno stato interetnico (come interetnica era la Lega) in senso
moderno, che emersero come superamento della tradizionale città-stato. La
cacciata del re e l’avvento della repubblica possono essere visti per quel che
concerne la religione romana, come l’acquisizione da parte delle assemblee
deliberanti del diritto di determinare il “sacro”, realizzata come presa di
coscienza del valore superindividuale, e perciò assoluto o universale, delle
deliberazioni comiziali: per loro mezzo si assolutizzava (o sacralizzava) la storia e si dava ordine al mondo (lo si
oggettivava in un determinato sistema di valori). Dal punto di vista la
costituzione della magistratura consolare annua, più che una limitazione
temporale del potere, va considerata in funzione dell’esercizio periodico
dell’azione comiziale. Questa azione era
quasi un rito che il popolo doveva compiere annualmente; il luogo e il giorno del
ritiro dovevano essere regolarmente “inaugurati”, ossia “aumentati”
dall’assenso di Giove. L’ingresso in carica dei consoli dava inizio all’anno
ufficiale, dunque era come se,l’elezione di nuovi consoli (eponimi dell’anno) ,
i comizi “creassero” l’anno stesso (il che sul piano religioso equivale a
“creare” il mondo) Il costituirsi di una organizzazione plebea comportò da un
punto di vista religioso l’istituzione di un culto di Cerere sull’Aventino. La Dea, venerata insieme ai suoi figli Libera e Libero (quest’ultimo identificato poi con il greco Dionisio), era diventata il
simbolo dell’azione plebea, tanto che i patrizi finirono per adottare , quasi
in funzione di anti-Cerere, la frigia Cibele
(205 a.C.) che negli schemi del
mondo ellenistico-romano poteva in qualche modo opporsi a Demetra (con la quale dea greca i Romani identificavano la loro
Cecere) . Ma le lotte plebee ottennero ben di più: ottennero il ripudio degli iura gentis e l’instaurazione degli iura civilia. I primi erano sentiti
quasi come una “dote religiosa” che si trasmetteva per sangue e che dava ai
patrizi certeprerogative come quella di esercitare i sacerdozi e di trarre gli
auspici. Con la legge Ogulnia (300 a.C.) anche i plebei ebbero l’accesso al
sacerdozio e furono considerati capaci di esercitarlo per il solo fatto di
essere cittadini romani (ossia per iura
civilia) . I luoghi e i tempi dell’azione divina erano fissati in templi e sacrari
(aedes, templa, fana delubra, sacella)
e in feste occasionali e periodiche, mobili e fisse; queste ultime componevano
un calendario festivo che costituisce il
più antico e più importante documento
della religione romana. Il calendario festivo, legato alle origini, come ogni
altro calendario, al ciclo agricolo, conservava dell’ antica funzione soltanto
un certo schema; come pure manteneva convenzionalmente nei mesi lo schema delle lunazioni con il
rilievo, pure convenzionale, di due fasi, il novilunio e il plenilunio, nei
giorni detti rispettivamente calendae
e idi (il primo del mese e il 13 o il
15 secondo i mesi brevi o lunghi). Il calendario festivo, sottratto ai suoi
concreti scopi originari, serviva soltanto a esigenze religiose, dividendo ed
organizzando il tempo in funzione dei vari dei. Per esempio, la parte “oscura”
del mese, quella che culminava col novilunio
convenzionale (calende9 era sacra a Giunone, mentre la parte “ luminosa”,
culminante col convenzionale plenilunio (idi),
era sacra a Giove: le calende erano una festa di Giunone e le idi una festa di Giove. I vari mesi, poi, erano
particolarmente dedicati a qualche dio, a parte le singole giornate festive
messe sempre in relazione con una divinità. Un gruppo di sei mesi, da gennaio a
giugno, costituiva una particolare festa dell’anno che cominciava con l’attiva
presenza di Giano (il quale dava
nome al primo mese, gennaio) e finiva con quella di Vesta (l’ultima festa di
giugno) , così come in ogni azione sacrificale si cominciava col nome di Giano
e si finiva con quello di Vesta. A
giugno seguiva una seconda serie di sei mesi senza nome, che venivano indicati
semplicemente con un numerale (quintile,
sestile, settembre, ecc) Si cominciava con un quintile (che si chiamerà poi
luglio, Iulius, in onore di Giulio
Cesare) perché il computo era fatto a partire da marzo, considerato il primo
mese dell’anno sacro. I mesi di febbraio e di dicembre, che rispettivamente
precedevano il capodanno di marzo e
quello di gennaio, erano caratterizzati da feste “caotiche” di fine d’anno. Vi
era un terzo capodanno , il 21 aprile (i Parilia), natale di Roma, considerato
capodanno dei pastori. Bastano questi rilievi per far comprendere la
complessità del calendario festivo romano, che non era certo uno strumento per
computare il tempo a qualsiasi fine pratico, ma era una sapiente elaborazione religiosa per poter dare la migliore
esecuzione al culto divino. Il culto
privato non presenta rispetto agli altri
popoli antichi caratteri originali. Il capofamiglia (pater familias) aveva la
responsabilità dei riti, per lo più rivolti alle divinità domestiche (lari, penati). Ogni individuo , poi,
coltivava, il suo genio personale. Le
idee sulla morte non espressero mai un’escatologia che improntasse a suo modo
la religione. Bastava fornire al morto le dovute onoranze (iusta9. Il morto si
trasformava in larva o lemure ed entrava a far parte dei
mani, gli dei dello stato di morte. Il sovvertimento di valori che portò
alla fine della repubblica ebbe naturalmente un riflesso religioso. Indicativi,
al riguardo, sono i casi di Venere e
Fortuna. Queste due Dee, che rappresentavano rispettivamente gli aspetti
“gratuiti” e “fotuiti” della realtà, erano per l’innanzi contrapposte a Giove
come elementi negativi di un ordine adeguato alla “volontà” del dio, in cui
niente era lasciato al caso o all’arbitrio. Con l’enorme espansione della città
risultava materialmente impossibile una partecipazione responsabile della massa
dei cittadini alla vita politica, e così il “gratuito” e il “fortuito” vennero
acquistando un senso più adeguato al sentire comune, a spese della
“responsabilità” civica sostenuta
dall’antica tradizione. In questo cambiamento di prospettive sia Venere
sia Fortuna emersero a sostenere un nuovo ed importante ruolo nell’attualità
politico-religiosa, soprattutto Venere che la leggenda faceva madre di Enea e pertanto la progenitrice della
stirpe romana.
Si preparava l’avvento di
un’imperatore , e questo sarebbe stato un affiliato alla genes Iulia, discendente di un mitico Iulio, figlio di Enea e
nipote di Venere. Roma non aveva più bisogno di un Dio (Giove) romanizzato; ma
aveva bisogno di un romano (l’imperatore) divinizzato; se prima infatti si
voleva adeguare alla volontà di Giove l’esistenza di Roma, adesso era
necessario adeguare il mondo alla volontà di Roma. Su questa strada al culto dell’imperatore
si affiancò ben presto il culti di Roma
fatta dea. L’ingresso in Roma dei culti
orientali segnò la crisi della religione tradizionale, tanto più inadeguata
tanto più si consideri la tendenza a razionalizzare il culto, seguita all’introduzione e
diffusione di Roma del pensiero
filosofico greco. I culti orientali si esprimevano nell’ambito domestico e
privato nelle forme più svariate di misticismo, che si ritrovavano anche nelle
loro manifestazioni collettive (misteri). La religione pubblica invece malgrado i ripetuti tentativi di
Augusto di ripristinare la tradizione, assumeva la forma della venerazione dei
sovrani, iniziatasi con Tiberio come religione “di Stato”.
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