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giovedì 26 settembre 2013

Religione degli antichi Romani

RELIGIONE DEGLI ANTICHI  ROMANI
Il concetto di sacralità che distingue la religione romana va correlato al concetto di “profano” (come in tutte le religioni) anche ai concetti di “pubblico” e di “privato”.
La formula sacro: profano = pubblico: privato rende questo sistema di relazioni; essa ordinava al mondo romano tutta la realtà e teneva, in tale funzione, il posto di una cosmogonia. Mancano in effetti alla religione romana miti cosmogonici e teogonici, tanto da farla apparire  come una religione demitizzata. In luogo di un ordine cosmico dato una volta per sempre (da un evento mitico), i Romani ebbero una formula cosmica alla quale adeguavano il mondo oggettivandolo nel loro sistema di valori per mezzo di un azione storiografica e giuridico-rituale. Tale azione era demandata al collegio sacerdotale dei pontefici e aveva per oggetto il mondo e gli uomini. La natura del mondo era ridotta a sostanza storica, la natura degli uomini a personalità giuridica. Ne deriva che il predetto dell’azione pontificale è riconoscibile in una storiografia e in una giurisprudenza. Per la storiografia diremmo che si trattava della ricognizione religiosa del tempo storico, la quale si muoveva in due sensi: i pontefici fissavano sacralmente la periodicità e la qualità del tempo storico, dando a questo una sistemazione calenderiale; di pari passo ne fissavano il corso, sottraendolo alla contingenza e registrandolo significativamente (ossia interpretandolo) in annali, atti e memoriali. Il momento giurisprudenziale nella formulazione di riti e nella definizione della loro efficacia  come dimostra il fatto che i codici prodotti erano sempre e soltanto codici di procedura.  In nessuna religione il termine per indicare l’azione rituale è così pregnante  come in Roma (la radice di ritus è la stessa di rta, il concetto cosmico fondamentale della religione vedica); di fatto a Roma è il rito che stabilisce tanto il patto con gli Dei (pax deorum) quanto il patto sociale che fa di ogni singolo uomo un civis, un cittadino, una persona giuridica. Il collegio pontificale comprendeva, oltre ai pontefici cui era riservata la teoria religiosa, altri sacerdoti destinati alla pratica, ossia al culto divino: un rex sacrorum, sacerdote che assolveva i compiti sacrali dell’antico re; quindici flamini, ciascuno addetto al culto di un singolo Dio; sei vestali, addette al culto di Vesta. L’azione teorica  e pratica del collegio pontificale era completata da quella di altri tre  collegi sacerdotali: auguri, quindecemviri sacris fanciundis , ed epuloni . I primi due collegi esercitavano la divinazione (la consultazione della volontà degli Dei, un’attività che secondo la tradizione era stata in origine di pertinenza dei pontefici. Il terzo, che aveva la funzione di approntare due volte l’anno un banchetto a Giove, fu istituito nel 196 a.C. per liberare i pontefici da questa cura. Dunque tutti e tre i collegi in questione possono essere riguardati come profanazioni del collegio pontificale, e in effetti è questo collegio che rappresenta il nucleo della religione romana. Altri gruppi sacerdotali (tecnicamente chiamati “sodalizzi” e quindi distinti dai “collegi”) erano: i Luperci, i Salii, gli Arvali e i Feziali. Questi sodalizi non avevano la funzione di stabilire  un rapporto culturale con gli Dei, come accadeva con i sacerdoti del collegio pontificale, ma quella di liberare il popolo romano da una “ sacralità” insita in certe azioni, addossandosela simbolicamente e permettendo agli altri di non curarsene , come individui. In questa funzione i Feziali agivano per stabilire  rapporti di pace o di guerra con gli altri popoli. Più complessa era l’azione dei Luperci, Salii e Arvali: in sintesi diremmo che essi esplicavano simbolicamente la sacralità insita in una vita  di pastori , di guerrieri e di agricoltori (nell’ordine9. Dal punto di vista delle divinità, la struttura fondamentale e quindi permamente , della religione romana era costituita dalla triade Giove – Marte – Quirino insieme a Giano e Vesta. La Triade, al cui servizio erano i tre flamini maggiori (rispettivamente: il Diale, il Marziale e il Quirinale),  procedeva probabilmente dalla concezione  trifunzionale della società, che Dumezil attribuisce ai popoli indoeuropei. Comunque sia, si può dire che la triade rappresenti lo Stato romano mediante personificazioni divine. Ma a questa rappresentazione statica o qualificante va aggiunta una rappresentazione dinamica o dialettica: in tale funzione si possono interpretare altre due personificazioni divine: Giano e Vesta. Giano, al cui servizio era il rex sacrorum , personificava l’apertura alla contingenza alla trasformazione , al divenire storico. Vesta, per contro personificava il limite concesso alla trasformazione, e dunque la stabilità o la necessità rispetto alla contingenza . La dialettica Giano-Vesta poneva il Dio agli “inizi” di ogni cosa e la dea alla “fine”.
Il pantheon arcaico si completava con le 12 divinità attestate da 12 flamini minori (ci restano soltanto 9 nomi: Carmenta, Cerere, Falacer, Flora, Furrina, Pomona, Portuno, Volturno, Vulcano), più un'altra desumibile dai nomi di giornate festive (Conso, Termino, Nettuno, Ope, Robigo, Matuta, Saturno, Larenta, Carmenta, Agerona). Col passare del tempo queste divinità evidentemente non ritenute  necessarie alla struttura permanente dello stato, furono tagliate fuori dalla storia: o scomparvero come quantità identificabili (ce ne resta appena il nome) o furono identificate con divinità greche (come Nettuno con Posidone, Vulcano con Efesto,) . Altre divinità, anche se arcaiche , erano variamente ricordate dalla tradizione, ma alcune di esse  erano specialmente importanti in quanto, come vedremo appresso, venivano assunte a protagoniste nello svolgimento storico del culto pubblico romano: Diana, Fortuna, Cerere, e Minerva. Infine, tra le divinità complementari del nucleo fondamentale, c’era Giunone, la cui complementarità era diversa, in quanto la dea era presente in qualche modo anche nel nucleo stesso; al suo culto erano addetti due personaggi femminili, la flaminica (titolo ufficiale della moglie del flamen Dialis)  e la regina (titolo ufficiale della moglie del rex sacro rum); perciò si potrebbe dire che la complementarità di Giunone rispetto al nucleo divino fondamentale era la stessa delle “mogli” rispetto ai “mariti” nella società romana. Ciò che convenzionalmente viene definito come riforma  dello Stato a opera della dinastia  etrusca si riduce, dal punto di vista religioso, all’istituzione del culto di Giove Ottimo e Massimo sul Campidoglio, e di quello di Diana sull’Aventino. A parte gli epiteti, questo Giove non era funzionalmente lo stesso Dio che figura nella triade Giove-Marte.Quirino; tanto che, nella sua nuova funzione e nel nuovo tempio a lui eretto sul Campidoglio, gli si affiancavano Minerva e Giunone, invece di Marte e Quirino (sorge una nuova triade che, in certi settori, prende il posto dell’arcaica). Il Giove Ottimo e Massimo, come la dea Diana, era un dio sottratto alla lega Latina. Giove e Diana, rispettivamente venerati sulla cima e alla falde del Monte Albano (oggi Monte cavo), erano stati assunti dalle città della lega Latina come simboli e protettori della confederazione. Giove era stato scelto per la sua “sommità”, che lo poneva al di sopra degli interessi delle singole città, e Diana, quale dea del bosco e quindi dell’extraurbano per eccellenza, per la sua estraneità (all’urbano) che la teneva al di fuori di ogni particolare politica cittadina. Il trasferimento in Roma di queste due divinità “universali” fu quasi una presa di possesso, da parte romana, della realtà metafisica della Lega latina. Fu anche una presa di coscienza dell’”universalità” romana: Roma si faceva non soltanto egemone delle città latine, ma addirittura le incorporava; si stabilivano così i fondamenti  di uno stato interetnico (come interetnica era la Lega) in senso moderno, che emersero come superamento della tradizionale città-stato. La cacciata del re e l’avvento della repubblica possono essere visti per quel che concerne la religione romana, come l’acquisizione da parte delle assemblee deliberanti del diritto di determinare il “sacro”, realizzata come presa di coscienza del valore superindividuale, e perciò assoluto o universale, delle deliberazioni comiziali: per loro mezzo si assolutizzava (o sacralizzava)  la storia e si dava ordine al mondo (lo si oggettivava in un determinato sistema di valori). Dal punto di vista la costituzione della magistratura consolare annua, più che una limitazione temporale del potere, va considerata in funzione dell’esercizio periodico dell’azione comiziale. Questa azione  era quasi un rito che il popolo doveva compiere annualmente; il luogo e il giorno del ritiro dovevano essere regolarmente “inaugurati”, ossia “aumentati” dall’assenso di Giove. L’ingresso in carica dei consoli dava inizio all’anno ufficiale, dunque era come se,l’elezione di nuovi consoli (eponimi dell’anno) , i comizi “creassero” l’anno stesso (il che sul piano religioso equivale a “creare” il mondo) Il costituirsi di una organizzazione plebea comportò da un punto di vista religioso l’istituzione di un culto di Cerere sull’Aventino. La Dea, venerata insieme  ai suoi figli Libera e Libero (quest’ultimo identificato poi con il greco Dionisio), era diventata il simbolo dell’azione plebea, tanto che i patrizi finirono per adottare , quasi in funzione  di anti-Cerere, la frigia Cibele (205 a.C.)  che negli schemi del mondo ellenistico-romano poteva in qualche modo opporsi a Demetra (con la quale dea greca i Romani identificavano la loro Cecere) . Ma le lotte plebee ottennero ben di più: ottennero il ripudio degli iura gentis e l’instaurazione degli iura civilia. I primi erano sentiti quasi come una “dote religiosa” che si trasmetteva per sangue e che dava ai patrizi certeprerogative come quella di esercitare i sacerdozi e di trarre gli auspici. Con la legge Ogulnia (300 a.C.) anche i plebei ebbero l’accesso al sacerdozio e furono considerati capaci di esercitarlo per il solo fatto di essere cittadini romani (ossia per iura civilia) . I luoghi e i tempi dell’azione divina erano fissati in templi e sacrari (aedes, templa, fana delubra, sacella) e in feste occasionali e periodiche, mobili e fisse; queste ultime componevano un calendario festivo che costituisce  il più antico e più importante  documento della religione romana. Il calendario festivo, legato alle origini, come ogni altro calendario, al ciclo agricolo, conservava dell’ antica funzione soltanto un certo schema; come pure manteneva convenzionalmente  nei mesi lo schema delle lunazioni con il rilievo, pure convenzionale, di due fasi, il novilunio e il plenilunio, nei giorni detti rispettivamente calendae e idi (il primo del mese e il 13 o il 15 secondo i mesi brevi o lunghi). Il calendario festivo, sottratto ai suoi concreti scopi originari, serviva soltanto a esigenze religiose, dividendo ed organizzando il tempo in funzione dei vari dei. Per esempio, la parte “oscura” del mese, quella che culminava  col novilunio convenzionale (calende9 era sacra a Giunone, mentre la parte “ luminosa”, culminante  col convenzionale plenilunio (idi), era sacra a Giove: le calende erano una festa di Giunone e le idi una festa di Giove. I vari mesi, poi, erano particolarmente dedicati a qualche dio, a parte le singole giornate festive messe sempre in relazione con una divinità. Un gruppo di sei mesi, da gennaio a giugno, costituiva una particolare festa dell’anno che cominciava con l’attiva presenza di Giano (il quale dava nome al primo mese, gennaio) e finiva con quella di Vesta (l’ultima festa di giugno) , così come in ogni azione sacrificale si cominciava col nome di Giano e si finiva con quello di Vesta.  A giugno seguiva una seconda serie di sei mesi senza nome, che venivano indicati semplicemente con un numerale (quintile, sestile, settembre, ecc) Si cominciava con un quintile (che si chiamerà poi luglio, Iulius, in onore di Giulio Cesare) perché il computo era fatto a partire da marzo, considerato il primo mese dell’anno sacro. I mesi di febbraio e di dicembre, che rispettivamente precedevano il capodanno  di marzo e quello di gennaio, erano caratterizzati da feste “caotiche” di fine d’anno. Vi era un terzo capodanno , il 21 aprile (i Parilia), natale di Roma, considerato capodanno dei pastori. Bastano questi rilievi per far comprendere la complessità del calendario festivo romano, che non era certo uno strumento per computare il tempo a qualsiasi fine pratico, ma era una sapiente elaborazione  religiosa per poter dare la migliore esecuzione  al culto divino. Il culto privato non presenta  rispetto agli altri popoli antichi caratteri originali. Il capofamiglia (pater familias)  aveva la responsabilità dei riti, per lo più rivolti alle divinità domestiche (lari, penati). Ogni individuo , poi, coltivava,  il suo genio personale. Le idee sulla morte non espressero mai un’escatologia che improntasse a suo modo la religione. Bastava fornire al morto le dovute onoranze (iusta9. Il morto si trasformava  in larva o lemure ed entrava a far parte  dei mani, gli dei dello stato di morte. Il sovvertimento di valori che portò alla fine della repubblica ebbe naturalmente un riflesso religioso. Indicativi, al riguardo, sono i casi di Venere e Fortuna. Queste due Dee, che rappresentavano rispettivamente gli aspetti “gratuiti” e “fotuiti” della realtà, erano per l’innanzi contrapposte a Giove come elementi negativi di un ordine adeguato alla “volontà” del dio, in cui niente era lasciato al caso o all’arbitrio. Con l’enorme espansione della città risultava materialmente impossibile una partecipazione responsabile della massa dei cittadini alla vita politica, e così il “gratuito” e il “fortuito” vennero acquistando un senso più adeguato al sentire comune, a spese della “responsabilità” civica sostenuta  dall’antica tradizione. In questo cambiamento di prospettive sia Venere sia Fortuna emersero a sostenere un nuovo ed importante ruolo nell’attualità politico-religiosa, soprattutto Venere che la leggenda faceva madre  di Enea e pertanto la progenitrice della stirpe romana.

Si preparava l’avvento di un’imperatore , e questo sarebbe stato un affiliato alla genes Iulia, discendente di un mitico Iulio, figlio di Enea e nipote di Venere. Roma non aveva più bisogno di un Dio (Giove) romanizzato; ma aveva bisogno di un romano (l’imperatore) divinizzato; se prima infatti si voleva adeguare alla volontà di Giove l’esistenza di Roma, adesso era necessario adeguare il mondo alla volontà di Roma. Su questa strada al culto dell’imperatore si affiancò ben presto  il culti di Roma fatta dea. L’ingresso in Roma  dei culti orientali segnò la crisi della religione tradizionale, tanto più inadeguata tanto più si consideri la tendenza a razionalizzare  il culto, seguita all’introduzione e diffusione di Roma  del pensiero filosofico greco. I culti orientali si esprimevano nell’ambito domestico e privato nelle forme più svariate di misticismo, che si ritrovavano anche nelle loro manifestazioni collettive (misteri). La religione pubblica  invece malgrado i ripetuti tentativi di Augusto di ripristinare la tradizione, assumeva la forma della venerazione dei sovrani, iniziatasi con Tiberio come religione “di Stato”.

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